Gender Pay Gap
APRILE 2018
Attualità
Gender Pay Gap
di   Irene Pata

 

We want sexual equality: questa fu la scritta sui cartelli comparsi all’interno della fabbrica Ford di Dagenham, Westminster, nel 1968. Era la metà di maggio di quell’anno, quando tutte le macchiniste, le uniche donne degli stabilimenti Ford di Dagenham, cessarono di lavorare per avere l’inquadramento come operaie specializzate, per avere condizioni di lavoro migliori e poter guadagnare proprio come i loro colleghi uomini. Ma erano già molti anni che alle donne appartenevano queste rivendicazioni. Già durante la Rivoluzione Francese abbiamo testimonianze che ci narrano di come queste fossero utilizzate per sostituire nei posti di lavoro gli uomini inviati al fronte, evidentemente senza acquisirne i diritti ma unicamente assumendone i doveri. Anche oggi, nonostante le lotte e i tanti passi in avanti fatti, la tematica del gender pay gap è ancora irrisolta: le differenze di salario e soprattutto nel reddito complessivo di uomini e donne continuano ad esserci. L’argomento è stato riportato all’attenzione dell’opinione pubblica poiché in Islanda è entrata in vigore una legge che impone, nelle aziende, pubbliche e private con più di 25 dipendenti, di pagare in egual modo donne e uomini, pena multe salate anche superiori a 400 euro per giornata di disparità salariale.

Cosi da più parti mondo politico e quotidiani in primis, viene sollevato l’interrogativo se nel nostro Paese sia necessario un intervento legislativo per invertire questa tendenza. Proprio per tentare di dare una risposta a questa domanda, il nostro Servizio Contrattazione privata e Politiche Settoriali, grazie alla guida della Segretaria Confederale Tiziana Bocchi, abbiamo deciso di produrre un elaborato che vi abbiamo distribuito e che vi invieremo nel pomeriggio con una circolare dedicata. In esso, oltre ad analizzare il fenomeno del differenziale salariale in tutte le sue componenti, abbiamo ricostruito un excursus storico-legislativo che dal quadro normativo europeo sulla materia, arriverà a descrivere l’attuale legislazione italiana, passando per le principali previsioni contrattuali sull’argomento. In questo modo contiamo di contribuire, in modo organico, al dibattito e al confronto sul Gender pay gap. Innanzittutto cosa si intende per Gender pay Gap? Si tratta di un indice comunitario volto, appunto, ad evidenziare le differenze retributive tra i generi. La misura utilizzata per determinarlo è il salario orario. Di conseguenza esso non tiene conto dell’insieme dei fattori che lo influenzano: disoccupazione, difficoltà di accesso al mercato del lavoro e alla formazione, riduzioni involontarie di orario, discontinuità lavorative e ostacoli nella carriera, esperienza lavorativa, tipo di attività svolta, oltre a tutte quelle voci che incidono sulla retribuzione quali superminimi, premi di produttività, benefits ecc.

Ad esempio, se si osserva esclusivamente la retribuzione oraria ma non si analizza il numero di ore lavorate, evidentemente il risultato che si avrà sconterà una distorsione. Infatti nonostante l’Italia sia al suo record storico di occupazione femminile, (49,3%), siamo ancora distanti dalla media europea (65,3%). Inoltre, tra i paesi Ocse l’Italia è al quarantunesimo posto per partecipazione femminile al mercato del lavoro e al terzo per tasso di inattività. Eppure nell’istruzione e nella formazione continuano a registrare risultati significativamente migliori di quelli degli uomini, ma vengono indirizzate ancora su percorsi, prima formativi e poi lavorativi non premianti. Solo il 67% delle occupate svolgono una professione consona al loro percorso di istruzione e di queste solo il 22,1% svolge una professione dirigenziale o imprenditoriale. Il Gender pay gap “ai piani alti” è più che raddoppiato negli ultimi 5 anni: tra i dirigenti è salito dal 5,1% del 2012 all’11,8% del 2017. Anche per i quadri le differenze in busta paga crescono dal 5,6% all’8,3%. E ancora è necessario dire che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ci comunica una diffusione consistente di dimissioni “volontarie” da parte delle lavoratrici madri: nel 2016, il 78% delle dimissioni volontarie ha riguardato le lavoratrici madri, mentre per lavoratori padri il dato si ferma solo al 22%. Inoltre dagli anni ‘90 è progressivamente aumentato il part-time femminile (dal 21% del 1993 al 32,8% del 2016), con conseguenti minori livelli medi di retribuzione e importi più bassi dei contributi versati. Da tutto questo deriva la fondata preoccupazione che in futuro l’Italia dovrà fare i conti con un’ampia diffusione della povertà tra le donne anziane e con una loro conseguente minore possibilità di cura a causa di pensioni troppo basse. Questo in conseguenza anche di carriere lavorative più discontinue: tra gli occupati, di età compresa tra i 16 e i 64 anni, secondo gli ultimi dati Istat, solo il 61,5% delle donne ha avuto un percorso interamente standard, contro il 69,1% degli uomini.

C’è una ragione di fondo per la quale tutto ciò avviene: le donne sono tutt’ora considerate un costo aziendale e non una risorsa per le imprese, per questo investono poco sulla loro formazione e difficilmente puntano su un’organizzazione del lavoro flessibile in grado di sostenere un percorso genitoriale condiviso. Malgrado i passi in avanti compiuti nel corso degli anni, dunque, non sono ancora state create le condizioni adeguate affinché le donne possano sentirsi libere di coniugare insieme lavoro e famiglia. La contrattazione, a tutti i livelli, ha sempre operato in direzione di una migliore conciliazione di vita lavoro e per consegnare effettive condizioni di pari opportunità tra le lavoratrici e i lavoratori. Attualmente, ci sono molti esempi di accordi di secondo livello che includono strumenti a favore della genitorialità (permessi per i padri, maggiore retribuzione dell’aspettativa, percorsi di riqualificazione professionale al rientro) o della conciliazione dei tempi di vita-lavoro attraverso misure volte a favorire l’accesso ai servizi di assistenza ai figli piccoli, la possibilità di usufruire di congedi parentali e delle cosiddette politiche del “tempo” che includono orari flessibili e/o part-time, “telelavoro” e lo “smart working”. Per la Uil è giunto il momento di cambiare alla radice l’approccio sociale e culturale che è alla base delle discriminazioni di genere.

Questo anche nella stessa organizzazione del lavoro che deve divenire maggiormente inclusiva a tutti i livelli, favorendo un sistema di valutazione professionale e di formazione che premi equamente chiunque presti la propria attività lavorativa: solo così si potrà davvero far ripartire il nostro Paese, perché un sistema industriale che si vuole qualificare come moderno e innovativo non può rimanere ancorato a vecchi stereotipi non solo ingiusti ma che ne inficiano la capacità produttiva. Infatti, stime della Banca d’Italia ci dimostrano che aumentando l’occupazione delle donne al 60% (ricordiamo che oggi è al 49,3%), condurrebbe a un accrescimento del Pil (Prodotto Interno Lordo) del 7%. Quindi promuovere l’occupazione femminile non è solo una questione di equità, ma anche un investimento sul futuro di tutti. Ma allora, per rispondere all’interrogativo dal quale abbiamo preso le mosse, serve anche in Italia una legge che stabilisca la parità salariale tra i generi? La Uil risponde di no. Per un motivo semplice: tale legge, o meglio dire tali leggi, sono già ampiamente presenti nel nostro apparato normativo. Ciò che serve, dunque, è che esse diventino davvero efficaci ed esigibili. Una norma senza sanzione equivale all’affermazione di un mero principio: questo non basta. Bisogna fare in modo che le previsioni riguardanti questa tematica divengano imperative, attraverso sanzioni severe per quei datori di lavoro che perseverano sulla strada delle differenze salariali. È necessario, inoltre, un controllo costante e una continua verifica che tali norme in azienda vengano rispettate. La Uil, infatti, è convinta che bisogna rompere l’intero processo a catena che si innesta nei percorsi di vita di donne e uomini e che ne marcano le differenze, di cui le retribuzioni sono solo la punta dell’iceberg. A partire dai livelli di istruzione, fino agli strumenti di sostegno della genitorialità condivisa e della conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, serve un deciso cambio di passo che trasformi l’uguaglianza de iure in una de facto.

La politica dei bonus di questi anni non è la giusta soluzione. Noi proponiamo l’adozione di un Testo Unico sulla genitorialità in cui siano ricomprese, in modo strutturale, tutte le misure e i diritti in grado di superare le differenze di genere. Da ultimo, ma non per ultimo, serve un approccio culturale ed educativo diverso, che insegni, soprattutto, ai giovani, a partire dalla famiglia, passando per la scuola, fino ad arrivare al mondo del lavoro, il rispetto delle differenze. Che ci ricordi che esse sono un valore e non devono mai essere un ostacolo, e che solo se tutti, donne e uomini, saranno messi sullo stesso piano e avranno le stesse opportunità potremo costruire un Paese migliore.

 

 

*Intervento a “Donne e Costituzione” dell’ 8 marzo 2018

 

 

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