Chi ha diritto al riconoscimento dei tempi di vestizione?
NOVEMBRE 2018
Attualità
Chi ha diritto al riconoscimento dei tempi di vestizione?
di   Alessandro Fortuna

 

 

La domanda del titolo che si propone è più che lecita secondo quanto pronunciato in una recente sentenza dei Giudici della Corte d’Appello di L’Aquila. Eppure, special modo dopo l’ultimo rinnovo contrattuale del comparto sanità, che ha cristallizzato il principio della retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere i camici, non sembrava più doverci esser alcun dubbio.

Difatti, l’articolo 27 del contratto 2016/2018, ai commi 11 e 12, ha stabilito che: “Nei casi in cui gli operatori di ruolo sanitario e quelli appartenenti a profili del ruolo tecnico addetti all’assistenza, debbano indossare apposite divise per lo svolgimento della prestazione e le operazioni di vestizione e svestizione, per ragioni di igiene e sicurezza, debbano avvenire all’interno della sede di lavoro, l’orario di lavoro riconosciuto ricomprende fino a 10 minuti complessivi destinati a tali attività, tra entrata e uscita, purché risultanti dalle timbrature effettuate, fatti salvi gli accordi di miglior favore in essere. Nelle unità operative che garantiscono la continuità assistenziale sulle 24 ore, ove sia necessario un passaggio di consegne, agli operatori sanitari sono riconosciuti fino ad un massimo di 15 minuti complessivi tra vestizione, svestizione e passaggi di consegne, purché risultanti dalle timbrature effettuate, fatti salvi gli accordi di miglior favore in essere”.

In sostanza, si è previsto, a livello contrattuale, un periodo di tempo ulteriore ed unitario per lo svolgimento delle operazioni di vestizione, svestizione e per il passaggio delle consegne. Sennonché i richiamati giudici di secondo grado hanno accolto parzialmente il ricorso di una Asl abruzzese avverso una sentenza che riconosceva il diritto dei suoi lavoratori ad essere retribuiti per le prestazioni di lavoro rese nel tempo impiegato, oltre il normale orario del turno, per indossare o dismettere la divisa di lavoro, quantificandolo in 10 minuti prima e dopo ogni turno. In particolare, la Corte ha censurato la sentenza: 1) nella parte in cui ha riconosciuto il diritto senza che i lavoratori avessero fornito la prova dell’eterodirezione e senza che fosse stato provato il controllo sulle operazioni di vestizione esercitato dall’Azienda, che non aveva dettato specifiche disposizioni circa la modalità, la tempistica e il luogo effettivo di esecuzione dell’attività necessaria per indossare e dismettere la divisa, sicché l’anzidetta attività doveva essere qualificata come atto di diligenza preparatoria allo svolgimento della prestazione lavorativa, in adempimento non già di un obbligo imposto dal datore di lavoro ma di un obbligo normativo, immanente alla professione medesima, come tale non retribuibile perché non integrante lavoro effettivo; 2) nella parte in cui ha riconosciuto una fascia oraria di 10 minuti sia all’inizio che alla fine del turno senza che i lavoratori avessero allegato e provato che le suddette attività fossero svolte al di fuori del normale orario di lavoro.

Ebbene, nell’estensione delle argomentazioni in diritto, i Giudici hanno citato le corti europee, secondo cui per aversi “orario di lavoro” il lavoratore deve esser costretto ad essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro e a tenersi a disposizione del medesimo per poter immediatamente fornire le opportune prestazioni in caso di bisogno. Ciò, nel rapporto di lavoro, fa distinguere una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, autonomamente esigibili dal datore di lavoro, che può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Pertanto, affinché un dipendente possa essere considerato a disposizione del proprio datore di lavoro, deve essere posto in una situazione nella quale è obbligato giuridicamente ad eseguire le istruzioni del proprio datore di lavoro e ad esercitare la propria attività per il medesimo. D’altra parte, gli stessi Giudici fanno presente che l’eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa può sia derivare dall’esplicita disciplina d’impresa sia risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione stessa.

Richiamano, infatti, l’orientamento secondo cui quell’attività dà titolo ad autonomo corrispettivo quando svolta non nell’interesse dell’azienda bensì dell’igiene pubblica. Nella specie è pacifico che per motivi di igiene e sanità è fatto obbligo al personale infermieristico di indossare la divisa, fornita dalla stessa amministrazione (che ne assicura anche il lavaggio, la manutenzione e l’igienizzazione), in ambito ospedaliero e negli appositi locali adibiti a spogliatoio, così come pacifica è la circostanza che la ASL abbia il potere “di rifiutare la prestazione lavorativa del dipendente che pretendesse di svolgerla senza divisa indosso”. Pertanto, citando i Giudici “deve escludersi che l’attività di indossare e dismettere la divisa di lavoro, possa ritenersi riferibile al concetto di diligenza preparatoria, atteso che dette attività si apprezzano come assolutamente necessarie e corrispondenti ad un vero e proprio obbligo interno al rapporto di lavoro”. Già qui, sinceramente, non si comprende parte della censura della sentenza di primo grado.

La spiegazione starebbe nel fatto che il collegio giudicante ha ritenuto di tener parimenti conto del rilievo dell’appellante Azienda “che non aveva dettato specifiche disposizioni circa la modalità, la tempistica e il luogo effettivo di esecuzione dell’attività necessaria per indossare e dismettere la divisa”. A sostegno di questa scelta si chiamano in causa i regolamenti utilizzati dall’ASL, prima del nuovo CCNL, i quali prevedevano, in riferimento alle “attività di servizio con 12-24 ore giornaliere (turnisti)”, che “si considera quale prestazione lavorativa la sovrapposizione, limitatamente al personale con profilo di infermiere, ostetrica, infermiere pediatrico/ vigilatrice d’infanzia, fisioterapista e ortottista che opera su 2/3 turni, in servizio presso UU.OO. di degenza h24 o h12, per il tempo necessario alla presa in carico dei pazienti e la continuità assistenziale, fissati in 15 minuti in uscita da ogni turno”.

Disciplina poi estesa anche “per l’equipe assistenziale che opera su due/tre turni, in servizio presso UU.OO. di degenza h24 o h12, per il tempo necessario alla presa in carico dei pazienti e la continuità assistenziale, fissati in 15 minuti in uscita da ogni turno”, con la precisazione che “la sovrapposizione, per il solo turno antimeridiano, è prevista anche per le sale operatorie e i servizi che devono garantire la continuità assistenziale sulla scorta di specifica individuazione da parte del responsabile SAPS da rimettersi al Servizio personale” e che “per le medesime situazioni sopra descritte, la sovrapposizione va riconosciuta anche al personale in rapporto di lavoro part time inserito in turni h12 e h24”. I Giudici, pertanto, hanno ritenuto di comprendere in quei 15 minuti anche il tempo necessario per indossare (e quindi dismettere) la divisa, non potendo l’operazione di presa in carico che attuata da infermiere che abbia già indossato la divisa prescritta.

I Giudici, quindi, rilevando che, sulla base di questi regolamenti, secondo l’Azienda, il diritto fosse da riconoscersi ai profili di personale ivi indicati, hanno escluso di conseguenza, cassando parzialmente la sentenza di primo grado, il personale inquadrato come: operai tecnici specializzati addetti alla cucina; operai tecnici addetti ad unità operativa “senza funzione di assistenza diretta al paziente”; ausiliari specializzati operanti nei servizi socio-assistenziali che provvedono esclusivamente all’accompagnamento o spostamento dei degenti; operatori socio sanitari che svolgono attività relative alla degenza compresa l’assistenza ai degenti per la loro igiene personale, il trasporto del materiale, la pulizia e la manutenzione di utensili e apparecchiature. Ora è chiaro che qui si è ingenerata una palese confusione tra quello che è il passaggio di consegna e quello che il tempo dovuto all’indossare la divisa per fini di igiene pubblica. Due differenti attività per le quali, infatti, l’ultimo contratto ha previsto tempistiche differenti, maggiori per chi deve passare delle consegne, comprendendo anche i minuti utili al dismettere le divise.

Questo, però, non cambia il fatto che tutti gli operatori sono tenuti a un obbligo normativo di tutela dell’igiene connaturato nello stesso rapporto di lavoro e che di conseguenza questo deve essere retribuito. Insomma, dopo tanta giurisprudenza ormai pacifica e dopo soprattutto l’ultimo rinnovo contrattuale, nulla avrebbe lasciato pensare che ci sarebbe potuto essere un passo indietro in sede giudiziale. Peraltro sarà difficile da spiegarsi ai lavoratori il fatto che la retribuzione dei tempi di vestizione, come da contratto, vada riconosciuta ad alcuni che indossano la divisa e ad altri, che la indossano ugualmente, no. Eppure queste conclusioni, come già fatto presente, mal si conciliano con le stesse argomentazioni dei Giudici, che muovono anche loro dal presupposto che il diritto al compenso debba esser dovuto, non per il tempo impiegato ad indossare il camice, che è utile solo ai fini della quantità di retribuzione aggiuntiva spettante ma in quanto prestazione necessaria al corretto adempimento degli obblighi contrattuali.

Il paradosso è che lo aveva già stabilito la stessa Corte nel 2014: “trattasi di tempi strettamente funzionali all’esecuzione della prestazione lavorativa de qua e di attività costituente corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro, e, come tale, retribuibile” (App. L’Aquila, 17 settembre 2015, n. 893). Quest’orientamento, quindi, qualifica correttamente i tempi c.d. tuta (come definiti in linea generale) come orario di lavoro, non tanto in ragione della eterodirezione dell’attività da parte del datore di lavoro ma in ragione della riconducibilità di tali operazioni agli obblighi connaturati al contratto di lavoro. Nello specifico, qualora vi sia un obbligo, esplicito o implicito, di compiere una determinata attività, esso deve essere ricondotto tra le obbligazioni oggetto del contratto di lavoro e non qualificata come “attività preparatoria”.

Pertanto i tempi di vestizione devono essere retribuiti per il fatto che rientrano tra gli obblighi contrattuali del dipendente, a prescindere che essi siano o meno preparatori all’attività lavorativa effettiva. Ciò significa che rientrano tra i doveri del dipendente ai sensi dell’art. 2094 del codice civile. È indubitabile che tali attività sono necessarie all’espletamento stesso della prestazione lavorativa, infatti, l’obbligo di indossare la divisa discende da precise disposizioni normative imperative, poste a tutela di imprescindibili esigenze igienico sanitarie. Tra l’altro sarebbe utile ricordare ai giudici de L’Aquila una pronuncia del Tribunale di Roma, secondo cui “si evidenzia chiaramente non soltanto l’obbligo di indossare la divisa, ma anche la necessità che tale divisa sia indossata esclusivamente all’interno dell’ambiente ospedaliero, durante l’orario di servizio, con divieto assoluto di utilizzarla al di fuori dei limiti temporali e spaziali stabiliti dal datore di lavoro.

Del resto, nello specifico, la divisa ha innanzitutto una finalità di tutela del lavoratore e di protezione dei soggetti con cui quest’ultimo può venire a contatto, e quindi risponde all’esigenza di preservare l’igiene e la salubrità del luogo di lavoro, ed ha natura cogente proprio in relazione alle particolari mansioni ed al luogo in cui si svolge l’attività lavorativa… va pertanto certamente affermata la riconducibilità del tempo necessario ad indossare la divisa nell’orario di lavoro, con conseguente obbligo datoriale di corrispondere la relativa retribuzione” (Trib. Roma, 17 settembre 2014). Penso che quest’ultima massima descriva perfettamente la casistica e individui con precisione la differenza tra ciò che è vestizione e svestizione e ciò che è, differentemente, lo scambio di consegne. Altro indice sintomatico ai fini del riconoscimento della retribuzione aggiuntiva è la predisposizione da parte del datore di lavoro di locali appositi per indossare la divisa che quotidianamente viene fatta trovare pulita e igienizzata prima dell’inizio del turno di lavoro, “in questo si manifesta il potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro anche su quella parte di attività meramente preparatoria, ma strettamente necessaria ed obbligatoria per lo svolgimento dell’attività lavorativa vera e propria (c.d. prestazione finale) e senza la quale il datore di lavoro ben potrebbe rifiutare la prestazione finale” (Trib. Teramo, sez. lav., 14 aprile 2015, n. 383).

Mi pare incontestabile, del resto, che una ASL possa rifiutare la prestazione del suo personale, tutto, che acceda al reparto senza indossare il camice. Tirando le somme, la pronuncia in commento non può che suscitare l’attenzione delle organizzazioni sindacali perché, oltre a contrastare una consolidata giurisprudenza, prevarica una disposizione contrattuale che, quanto meno, fin dal suo periodo di vigenza deve far sicuramente comportare il diritto a vedersi pagati i tempi di vestizione a tutti gli operatori tenuti a indossare un camice. Rimaniamo, quindi, in attesa dell’ultimo grado di giudizio per i giusti riconoscimenti cui hanno pieno diritto i lavoratori.

 

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