Pubblica Amministrazione e pubblico impiego nella legge di bilancio 2019
NOVEMBRE 2018
Sindacale
Pubblica Amministrazione e pubblico impiego nella legge di bilancio 2019
di   Antonio Foccillo

 

 

ll primo obiettivo che ci siamo posti, alle porte dell’approvazione della nuova legge di bilancio, è stato quello di evitare di vedere il pubblico impiego nuovamente catapultato nello scenario da cui faticosamente in questi ultimi due anni siamo riusciti ad uscire. Mi riferisco al blocco del turn over, al blocco delle carriere, al blocco dei rinnovi contrattuali nazionali ed aziendali, alla repentina e considerevole estensione dei requisiti di accesso alla pensione, alle proroghe contra legem dei rapporti di lavoro a tempo determinato, all’abuso delle forme di collaborazione precarie, ai tagli alle risorse, ai mezzi e alle strutture essenziali all’esercizio delle funzioni, alle procedure di mobilità forzose, al sottodimensionamento degli organici a fronte del crescere delle responsabilità, all’azzeramento delle relazioni sindacali, all’accanimento mediatico. Insomma quelli che sono stati i dieci anni più bui del pubblico impiego e che, solo grazie allo sforzo di noi tutti, della squadra della Uil, siamo riusciti a ribaltare con l’obiettivo di restituire dignità, economica e professionale, ai lavoratori e di rilanciare il Paese tutto.
 
Sì perché troppe volte la Pubblica Amministrazione è stata vista come una grande borsa da cui attingere nei momenti di difficoltà, dimenticando, però, il ruolo che ricopre per il benessere del Paese e dei suoi cittadini. Ne hanno fatto le spese, infatti, sia i lavoratori che i cittadini, che si sono trovati con l’incedere della crisi di fronte a istituzioni sempre meno in grado di rispondere alle loro esigenze e sempre più inermi. Gli esecutivi che si sono susseguiti negli anni hanno agito smarrendo il senso e la ragion d’essere della funzione e del ruolo dello Stato e, così, disinvestendo nella Pubblica Amministrazione e nelle sue risorse, non hanno fatto altro che impoverire tutti. Revisione di spesa e razionalizzazione sono state le parole d’ordine che nei fatti si sono manifestate sotto forma di tagli lineari ed indiscriminati con ovvie e pesantissime conseguenze per lavoratori, cittadini e tutto il sistema dei pubblici servizi. Ci siamo trovati a dover far fronte a controparti governative che, oltre ad esser molto restie ad ascoltarci, non avevano alcuna intenzione di investire nella macchina pubblica, nei suoi occupati né tanto meno nelle sue strutture mano a mano sempre più fatiscenti.
 
Noi, però, al contrario, siamo consapevoli che per far ripartire quella macchina i primi passi devono partire da chi, nonostante tutto, l’ha sempre fatta muovere, i suoi lavoratori. Per questo parlare di contratti non può essere considerata una richiesta corporativa, perché la stagione contrattuale l’abbiamo sempre inquadrata nella volontà di migliorare la funzione dello Stato e nella necessità di produrre servizi efficienti e funzionali. Ma se il ruolo dello Stato si restringe e si praticano solo politiche economiche di tagli, addirittura lineari, alla P.A. vengono a mancare i mezzi umani, culturali e finanziari con cui lavorare. E chi lavora in questa P.A. non può che subirne drammaticamente le conseguenze, sentendosi estraneo al ciclo di sviluppo della società. Oggi le difficoltà sono tutte figlie del fatto che senza un rilancio dell’autorità dello Stato, di cui i pubblici dipendenti sono un elemento fondamentale, non è possibile recuperare l’immagine o ancor meglio il senso della funzione pubblica. Il contratto, la qualità della prestazione – nel modo di definire una professionalità, una funzione, una retribuzione, uno status giuridico – non sono risolutivi a modificare l’immagine negativa su cui si è operato in questo Paese. Ma noi che ci siamo sempre impegnati a favore di riforme che migliorassero la funzionalità dell’amministrazione e valorizzassero i lavoratori, dobbiamo continuare a perseguire una linea propositiva, coniugando la difesa dei diritti dei lavoratori con la soddisfazione dei diritti dei cittadini utenti.
 
E ancora! Dobbiamo proseguire la nostra iniziativa per concretizzare alcuni presupposti fondamentali che sono all’oggetto delle nostre discussioni da anni: dalla separazione fra politica e amministrazione alla delegificazione; dalla semplificazione del linguaggio burocratico alla trasparenza. Infine, ma non per ultimo, vanno rilanciate le forme di partecipazione, attraverso relazioni sindacali che rendano i lavoratori protagonisti di una P.A. più efficiente, perché quegli stessi dipendenti ne hanno tutto l’interesse. Per far questo, fuori dalla politica della lesina, bisogna promuovere un’ampia azione che modifichi la qualità del lavoro, introduca il meglio della tecnologia, valorizzi le professionalità esistenti soprattutto con programmi di formazione continua e premi il merito. Tutti contenuti che devono essere affrontati con i contratti e per questo è stato essenziale rinnovare i contratti dopo dieci anni di blocco per legge. Come lo è stato, parimenti, sia ripristinare le relazioni sindacali sia bloccare l’uso o meglio l’abuso indiscriminato della flessibilità, stabilizzando i tanti precari. Orizzonti che, con la nostra competenza, perseveranza ma anche testardaggine, abbiamo raggiunto con l’accordo del 30 novembre 2016 e che poi abbiamo tradotto nel nuovo Testo unico del pubblico impiego.
 
I rinnovi contrattuali della tornata 2016-2018 ci hanno visti protagonisti di una vittoria che tengo sempre a ricordare, perché, fino a pochi mesi prima, nessuno avrebbe pronosticato un ritorno al tavolo di trattativa, che infatti, documenti alla mano, si sarebbe verificato solo nell’ancora lontano ad oggi 2021. In questi contratti siamo riusciti a mettere un freno all’unilateralità delle amministrazioni e a ripristinare un modello partecipato e democratico di regolamentazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni. Lo abbiamo fatto soprattutto agendo sulla parte normativa di quei contratti, con la volontà di svuotare, derogandoli, quanto più possibile i contenuti che la legge aveva imposto in questi dieci anni. Contemporaneamente abbiamo decentrato alle singole istituzioni quante più competenze sulle materie che ricadono sull’organizzazione del lavoro, consapevoli delle tante eterogeneità. Nello stesso tempo, ben coscienti che dieci anni di mancati adeguamenti salariali di certo non potevamo pretendere di recuperarli in una sola tornata, in quelle nottate in Aran abbiamo ottenuto quanto più possibile per far stanziare tutte le risorse necessarie a consegnare un incremento stipendiale dignitoso e in linea con i rinnovi degli altri settori. Riteniamo, infatti, di aver firmato dei buoni contratti utilizzando tutti i margini possibili. All’esiguità delle risorse previste dalle varie leggi economiche, abbiamo controbattuto sbloccando, dopo l’immobilismo degli ultimi anni, anche la contrattazione di secondo livello e promuovendo il welfare aziendale.
 
Anche per questi motivi sarebbe stato inimmaginabile qualsiasi arretramento su quanto percepito ad oggi dai lavoratori come qualche voce mediatica e qualche sindacato autonomo paventavano. L’elemento perequativo ha rappresentato l’unica via per raggiungere l’obiettivo economico che con l’accordo del 30 novembre ci eravamo prefissati. Di conseguenza, è stata fondamentale la copertura delle risorse per code contrattuali e perequazioni relative alle retribuzioni pubbliche. Non avremmo mai accettato una riduzione del salario! A chi accusava le organizzazioni sindacali di aver concordato in modo sbagliato questa problematica, rispondiamo che non si poteva fare diversamente, in quanto gli stanziamenti erano fino al 2018. Alla fine si è dimostrato che abbiamo avuto ancora una volta ragione. Lo si era già fatto in passato in tantissimi contratti e non era mai seguita una riduzione del percepito. Le tasche dei pubblici dipendenti sono state fin troppo defraudate. Non scherziamo! Per questi motivi, alla vigilia della nuova tornata contrattuale 2019-2021, passi indietro non sarebbero stati concepibili! Tutt’al contrario bisogna andare avanti e recuperare terreno nei fronti dove si è rimasti indietro. Siamo a fine novembre, alla data di chi scrive, e ci troviamo ancora in una situazione di stallo sui rinnovi della dirigenza pubblica e dei medici. Sarebbero dovuti essere l’immediata tappa seguente alla sottoscrizione definitiva dei rinnovi del personale dipendente, invece ancora un nulla di fatto che si barcamena tra le lungaggini dei tavoli convocati in Aran e le ipotesi di riordino del sistema stesso della dirigenza. Di certo, quest’ultimo non può e non deve costituire un esimente per un ennesimo slittamento dei rinnovi. Questo non è più possibile perché, dopo dieci anni, andrebbe in scena l’ennesimo sopruso alle normali e correte relazioni sindacali.
 
Forse sarebbe il caso di ricordare che quella famosa pronuncia dei Giudici di legittimità costituzionale del 2015 è valida anche per i dirigenti e che alle prospettive di maggior responsabilizzazione della dirigenza devono corrispondere anche le adeguate competenze di natura economica. Ribadiamo, quindi, l’esigenza di convocazioni rapide per chiudere questa negoziazione. Non possiamo aspettare oltre perché questi contratti già da tempo sarebbero dovuti esser stati firmati. Eppure ritardi persistono anche sui contratti che abbiamo già concluso e con ciò rivolgo l’attenzione alle Commissioni paritetiche che si sarebbero già dovute costituire per la revisione dei sistemi di classificazione professionale. Ma sul punto preferisco fare un passo indietro. In quei mesi la necessità di sottoscrivere al più presto i contratti, anche per l’incertezza degli esiti elettorali che sarebbero venuti di li a poco, ci ha portato a spostare la dovuta valutazione su ordinamenti professionali rimasti fermi ormai a dieci anni fa se non oltre, che, di conseguenza, non rispondevano più ovviamente alle mutate condizioni dei tempi. In quei frangenti ritenemmo necessario rimandare la discussione per non incappare in scelte affrettate o in chiusure dell’Aran, pertanto, una sorta di coda contrattuale ben confinata in funzioni e tempi di lavoro, ci era parsa, confidando nel rispetto dei termini, la scelta migliore. E, ancora oggi, rimaniamo fermamente di questa idea, se non fosse che sono stati disattesi abbondantemente i termini temporali stabiliti nello stesso contratto. Siamo tutti consapevoli che la questione della revisione dell’ordinamento professionale non rappresenta solo uno dei tanti punti delle nostre piattaforme né quanto meno un capriccio ma costituisce un’esigenza delle stesse Istituzioni che da oggi a dieci, quindici, vent’anni fa è più che scontato che abbiano fatto a meno di alcune determinate categorie professionali e ne siano ricorse ad altre non classificate in alcun modo sul contratto e pertanto nemmeno adeguatamente riconosciute per la loro professionalità.
 
Un’esigenza questa che si pone anche alla luce della tanto attesa riapertura delle porte della P.A. La stessa Ministra Bongiorno, in più occasioni, ha dichiarato che c’è bisogno di figure altamente professionali in particolari settori strategici per il rilancio delle Amministrazioni. In sostanza, la revisione degli ordinamenti è una necessità comune e pertanto non si spiegano questi ritardi. Anche su questo, quindi, chiediamo formalmente convocazioni serrate dell’Aran per metter finalmente nero su bianco le diverse realtà che nei comparti si sono andati delineando in questi anni. Passando, poi, proprio sul fronte assunzioni, si è annunciato il via libera alle stesse nel corso del triennio a venire 20192021 attraverso lo scorrimento delle graduatorie e l’indizione di nuovi concorsi da svolgersi con procedure semplificate e più celeri. Nel D.d.L. “Concretezza”, poi, si precisa, positivamente e finalmente, lo sblocco delle assunzioni di personale a tempo indeterminato in misura pari al 100% del personale cessato dal servizio nell’anno precedente. Tuttavia, pur soddisfatti di questo primo passo avanti, ribadiamo, però, l’esigenza che questo processo non si limiti strettamente a un turn over atto a coprire le sole uscite in quiescenza dell’anno corrente. È essenziale prevedere, come abbiamo fatto già presente alla Ministra, un piano straordinario di assunzioni che rimedi ai dieci anni di blocco del turn over e al conseguente invecchiamento della popolazione lavorativa. Ma non basta! Oltre al fisiologico depotenziamento degli organici è urgente rispondere anche alla condizione lavorativa di chi fa parte di quegli organici. Difatti, segnalo l’importanza di fare uno sforzo ulteriore per porre rimedio al fenomeno di precariato diffuso che continua a perpetrarsi nelle nostre pubbliche amministrazioni. Le misure prese ad oggi nella manovra rimangono troppo contenute. Ricordiamo ancora una volta che gli strumenti per stabilizzare il personale precario ci sono ma corrono il rischio di rimanere inoperanti, soprattutto in alcune aree del territorio nazionale, se non sostenuti economicamente a livello centrale.
 
È quello che, anche noti i dati sull’età media, abbiamo sempre invocato e chiesto e per cui abbiamo lavorato in questi ultimi anni fin dall’accordo del 30 novembre 2016, che ha aperto la strada alla soluzione di un annoso problema. In quell’occasione si sono poste le basi per contrastare un fenomeno che ha raggiunto una dimensione tale che non era nemmeno più possibile collegare ai soli giovani. Nei fatti, questa modalità di ingresso nella P.A. ha coinvolto qualsiasi fascia di età, anzi il più delle volte ha interessato profili di alta professionalità che quindi richiedevano una certa esperienza, come poi di certo non è mancato chi è entrato da giovane ma che oggi a, suon di proroghe, col passar del tempo nemmeno si può definire più tale. In questo contesto, di seguito all’accordo, il decreto che ha novellato il Testo Unico del Pubblico Impiego ha previsto, per il triennio 2018/2020, due vie per la stabilizzazione dei precari storici della P.A. ma è evidente che questo importantissimo passo in avanti, che abbiamo accolto con entusiasmo, non potrà che rimanere solo su carta o limitato se non economicamente sostenuto a livello centrale.
 
Ci sono ancora troppe questioni irrisolte che non esauriscono il problema. Non è più possibile sorvolare sulla paradossale condizione lavorativa, e quindi di vita, di questi dipendenti, pertanto essendo già a disposizione gli strumenti per porre fine a quest’assurda e ingiusta situazione, è necessario finanziare le amministrazioni, special modo quelle più in difficoltà, per sostenere e rilanciare la loro capacità assunzionale. È interesse stesso della Pubblica Amministrazione e dello Stato porre fine a una condizione di instabilità prorogata negli anni che non permette a nessuna persona, non solo, di pianificare la propria vita serenamente e quindi di investire, ma anche, sempre rispettosi del tanto amato dogma dell’efficienza, di esser produttivi, proficui sul posto di lavoro. Produttività che può trovare i natali solo all’interno di ambienti di lavoro salubri e partecipativi, cambiando soprattutto l’organizzazione del lavoro e inserendo nuova tecnologia. E qui faccio un inciso su un aspetto che però è essenziale: le relazioni sindacali. Il ripristinato ruolo delle RSU, dal cui risultato dell’ultimo appuntamento elettorale siamo ancora una volta usciti vincitori, crescendo in termini di rappresentanza e diventando in più luoghi di lavoro il primo sindacato, rappresenta un altro tassello di una trama che, già prima dell’accordo, si poneva l’obiettivo di rilanciare le relazioni sindacali del pubblico ormai ferme da anni e surclassate dal decisionismo unilaterale delle amministrazioni. È qui che devono entrare in gioco i nuovi eletti delle rappresentanze sindacali unitarie sfruttando gli strumenti messi a disposizione dal nuovo modello di partecipazione previsto nei contratti.
 
Le rinnovate funzioni assegnate a questi rappresentanti permetteranno loro di essere veramente nelle condizioni di migliorare quel benessere lavorativo cui si ambisce anche per migliorare l’efficienza dei servizi che si offrono alla comunità. I nuovi rappresentanti devono farlo, innanzitutto, cogliendo tutte le opportunità che tra le righe gli ultimi contratti offrono per riconquistare spazio a discapito del datore di lavoro. Particolare attenzione va rivolta alla contrattazione di secondo livello che può e deve produrre un cambiamento sostanziale con il potenziare l’autonomia di gestione a livello periferico e, nel contempo, con il ridurre la discrezionalità delle controparti. In tal senso riteniamo positiva, sempre nel D.d.L., la misura di adeguamento dei fondi destinati al trattamento economico accessorio del personale. Le nuove relazioni sindacali definite nei rinnovi costituiscono un passaggio significativo per il sistema dell’organizzazione del lavoro che, pur non ancora compiutamente inquadrato nell’ambito contrattuale, ha fatto notevoli passi in avanti con l’assegnarsi all’informazione, al confronto e alla contrattazione di secondo livello moltissime materie prima escluse.
 
Bisogna, tuttavia, anche nei prossimi contratti proseguire questa impostazione con l’obiettivo di recuperare altre tematiche che, prima della Brunetta, erano di competenza contrattuale. La revisione dei processi lavorativi e dei modelli organizzativi delle amministrazioni pubbliche deve passare da un’organizzazione gerarchizzata e autoreferente che non si è più confrontata con le organizzazioni sindacali ad una in cui prevalga il contenuto funzionale e professionale dei lavoratori, attraverso la contrattazione. Il nuovo tavolo di rinnovo dovrà batter forte per cercare di ristabilire quell’equilibrio di rapporti tra le parti che disegnò negli anni 90 la c.d. privatizzazione del pubblico impiego, assegnando alla contrattazione tutto ciò che atteneva all’organizzazione del rapporto di lavoro. Nello stesso tempo, va rivendicato con forza, in tutte le amministrazioni, l’adeguamento delle regole e degli strumenti previsti nei contratti, senza timori né sudditanza, ma con la caparbietà di aver il dovuto, non solo perché sottoscritto nei rinnovi ma anche perché certificato dalla legge a partire dalla costituzione in tutte le sedi dell’Osservatorio paritetico per l’innovazione. Ma ciò premesso, un tavolo di trattativa per esser vero ha bisogno di avere alle spalle un valore economico che legittimi il negoziato tra le parti ad arrivare a concludere un contratto. Tornando a bomba sull’aspetto delle risorse e sulla legge di bilancio, un’altra posta fondamentale ed essenziale per noi della Uil era la previsione fin da ora di una prima copertura finanziaria dei rinnovi per il prossimo triennio contrattuale, che ci permettesse di sederci già dal nuovo anno al tavolo di contrattazione in Aran.
 
Sulla scorta delle ultime stesure della legge e dopo il confronto con la Ministra, la Uil ha espresso un giudizio positivo sul fatto che, in momenti così difficili, sia stato mantenuto l’impegno di prevedere risorse per i rinnovi contrattuali. Queste potrebbero intanto già far aprire le trattative, anche se non sono ancora sufficienti per chiudere i rinnovi dei contratti 2019/2021. Quello che abbiamo reso possibile con i rinnovi del triennio 2016-2018 non poteva e non doveva essere una semplice parentesi. Per questo è importante tornare fin da subito a sedersi intorno al tavolo Aran per avviare i negoziati quanto per la parte economica che per quella normativa. Su quest’ultima, torno a ripetere, bisogna puntar forte e insistere sul far riacquisire al rapporto negoziale tutta la sua potenzialità e per farlo dobbiamo rivendicare il ritorno al contratto di tutte le materie, sia normative che salariali, superando i vincoli e le riserve su quelle competenze che oggi sono ancora lasciate alla legge. Non ci devono più essere tabù! Solo la contrattazione deve poter regolare i rapporti fra le parti. Sembra difficile, ma se riportiamo alla mente cosa era, prima dell’accordo del 30 novembre, il ruolo del contratto e cosa è diventato, si può costatare che non era utopia pensare di cambiarlo perché ci siamo riusciti.
 
Difatti, l’impianto generale dei contratti 2016/2018 si ispira complessivamente ai contenuti dell’accordo del 30 novembre e alle conseguenti modifiche del Testo Unico, che hanno finalmente ridato slancio, dopo la lunga parentesi della Brunetta, al concetto secondo cui il contratto è l’unica fonte normativa e regolamentare, seppure nel rispetto delle riserve di legge esistenti (Testo Unico del Pubblico Impiego e Costituzione) del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. E a chi osserverà che questo potrebbe significare la volontà di ripristinare il vecchio modello consociativo, voglio obiettare che quel modello, in una società democratica, dove ognuno trova il suo ruolo e il suo spazio di rappresentanza, era una formula che tendeva a mediare interessi contrapposti con l’obiettivo di trovare la sintesi. La contrattazione è ricerca dell’accordo fra esigenze diverse rappresentate dalle parti, che solo quando si raggiunge l’accordo, per l’appunto, esplica tutto il suo valore. In tal senso, essa non limita l’autonomia del potere decisionale delle parti e anzi implicitamente conviene che l’accordo raggiunto resta il momento più significativo del riconoscimento del ruolo, della dignità e della funzione dei soggetti negoziali. D’altronde, come è avvenuto proprio nell’accordo per l’Ilva, solo il confronto fra le parti e l’azione del Governo, in una relazione triangolare, fanno raggiungere risultati che sulla carta sembrano impossibili.
 
Questo metodo va ripristinato se vogliamo che l’Italia esca dalla situazione di difficoltà, in cui anni di mancanza di relazioni concertative, l’ha mantenuta. Le idee sono tante e siamo pronti come UIL a dare il nostro contributo, pertanto auspichiamo che il nostro coinvolgimento da parte di questo Governo vada anche oltre il recente incontro in Funzione Pubblica. La UIL ha posto tutte le basi e condizioni per tornare a negoziare nei tempi il nuovo contratto dei pubblici dipendenti sia per la parte economica che per quella normativa. Ora tocca al Governo convocarci per avviare regolarmente le trattative in Aran.I pubblici dipendenti, la Pubblica Amministrazione, i servizi pubblici devono essere una priorità del Paese su cui investire per creare benessere collettivo, non qualcosa su cui continuare a tagliare a cuor leggero. Basta far cassa sulla Pubblica Amministrazione! Basta far cassa sulle spalle dei lavoratori! E soprattutto permettetemi di dire: basta puntare il dito contro i dipendenti pubblici! Non possiamo accettare l’ennesimo tam tam mediatico di criminalizzazione! Basta dipingere una realtà lontanissima dalla realtà dei fatti! I dipendenti disonesti sono una minima parte e sfido a non trovarne nemmeno uno anche negli altri settori produttivi. Questo non giustifica un’altra campagna contro la generalità dei lavoratori pubblici della P.A. solo per avallare misure penalizzanti e/o, ancor peggio, mancati rinnovi nei loro confronti. In questi anni si è assistito ad un’aggressione sistematica sui mass-media che ha additato, erroneamente, agli occhi dell’opinione pubblica i lavoratori pubblici quali unici responsabili della situazione di inefficienza. Un vento mediatico spinto da chi ha voluto nascondere colpe molto più pesanti della classe politica e burocratica. È evidente che chi lavora, anche se molto efficiente, inserito in quadro operativo imbrigliato da meccanismi il più delle volte irrazionali e costretto in procedure farraginose non riesce a fornire un servizio efficiente. Sono anni ormai che la UIL chiede una vera opera di semplificazione delle procedure amministrativa e una maggiore responsabilizzazione dei centri decisionali. 
 
Non è penalizzando chi per lo più non ne è responsabile, che si trova la soluzione. In questi ultimi giorni, tra l’altro, è stato finalmente sfatato un altro falso mito! L´Inps, infatti, ha certificato nel terzo trimestre del 2018 un calo consistente dei giorni di malattia per i lavoratori pubblici (-7,3% tendenziale). Facendo cadere, così, un altro luogo comune dietro cui si è sempre e solo celata una strategia demagogica di giustificazione dei tanti provvedimenti al ribasso nei confronti dei lavoratori della P.A. I dati dimostrano, invece, che la maggioranza dei pubblici dipendenti non sono come quelli che vengono spesso dipinti dai media. Sul punto, poi, tengo a ricordare che questi dipendenti si pagano le loro giornate di malattia e che quando sono necessitati a richiederle hanno fasce di controllo più ampie dei dipendenti privati. Quindi, forse, semmai sarebbe il caso di tornare a discutere della disparità di trattamento che, sul regime della malattia, subiscono i lavoratori pubblici. Il pubblico dipendente sano, ossia la grande maggioranza, non ha paura delle regole, anzi le accetta ma pretende, e lo pretendiamo noi come UIL, il rispetto di chi ogni giorno presta un servizio alla comunità, senza guardare alla cascata di tagli che hanno reso sempre più complicato in questi anni l’esercizio della propria funzione ma, anzi, superandoli per fornire ugualmente servizi ai cittadini. Con l’accordo del 30 novembre 2016, dopo quasi dieci anni di esclusive demonizzazioni mediatiche, abbiamo riaffermato la centralità della funzione sociale dei lavoratori della Pubblica Amministrazione. La “tutela di chi lavora”, usando le parole della Ministra Bongiorno, non passa assolutamente per un controllo “biometrico” delle presenze. Non vorrei che si pensasse che sono questi i problemi della Pubblica Amministrazione, perché lo sono invece il progressivo invecchiamento della sua popolazione lavorativa, la precarietà, la carenza degli organici in settori strategici per i servizi al cittadino, i tagli alle risorse che si sono riflessi sugli strumenti e sulle strutture a disposizione degli stessi dipendenti e, di conseguenza, sull’efficienza stessa del loro lavoro.
 
Sono questi i temi che necessitano al più presto di risposte. Importanti e ben accolti, a tal fine, gli stanziamenti previsti per le nuove assunzioni ma permangono ancora troppi tagli alle risorse utili al buon funzionamento della macchina amministrativa e alla garanzia dei servizi. Eppure anche se ci siamo quasi stancati a forza di ripeterlo, continueremo a farlo: non si può ambire ad una migliore produttività ed efficienza in termini di risultati, senza un adeguato meccanismo di incentivazione, retto su nuovi e necessari investimenti, che stimoli il lavoro dei dipendenti. E questo a maggior ragione in un settore come quello pubblico dove la produttività non sempre è misurabile empiricamente. Non ci troviamo di fronte a unità di prodotto ma a servizi, che non si limitano al produrre certificati e autorizzazioni ma, ad esempio, tra i tanti: imporre e riscuotere tributi, produrre beni immateriali o altri beni i cui effetti non sono immediatamente quantificabili ma che comunque costituiscono la vera ricchezza di un’economia avanzata.
 
Per tutte queste ragioni – mi preme sottolinearlo ancora una volta - la “tutela di chi lavora”, e aggiungo la tutela dei cittadini, passa per: politiche che promuovono il rinnovamento generazionale della P.A., sia in termini di personale che in termini di strumenti a disposizione degli stessi; politiche che garantiscono il benessere di chi vi lavora e che investono sulla nostra macchina amministrativa per offrire servizi sempre più efficienti e, soprattutto, equi alla cittadinanza, naturalmente soddisfacendo, motivando e coinvolgendo chi ci lavora. Iniziamo a impostare su questi punti la crescita della nostra P.A. Questo interessa ai lavoratori e ai cittadini! Dobbiamo avviare una campagna in tutto il Paese che coinvolga i lavoratori e i cittadini, per spiegare le nostre ragioni e rivendicazioni ma soprattutto per far capire come la P.A. può migliorare l’efficacia e l’efficienza dei servizi che offre alla comunità.
 
 
 
 
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