Bisogna ridare alle istituzioni la loro autorevolezza
DICEMBRE 2019
Il fatto
Bisogna ridare alle istituzioni la loro autorevolezza
di   Antonio Foccillo

 

Con l’iperliberismo e la crisi economica globale sono tornati in primo piano i temi legati alla condizione di vita del cittadino e dell’occupazione giovanile. La Politica a livello mondiale, europeo ed italiano deve riprendere l’azione per ridefinire i contenuti di una società dove siano salvaguardati la persona e i diritti di cittadinanza in tutti i suoi aspetti: dal diritto al lavoro al diritto alla vita; dalla sicurezza sociale e personale al ripristino del potere di acquisto e ad un fisco che recuperi la sua funzione di ridistribuzione della ricchezza e della solidarietà. Occorrono programmi diversi, più ampi e complessi da discutere; occorre far vivere una concezione della “coesistenza” fra esperienze di pari dignità che ancora stenta ad essere accettata; occorre guardare con occhi attenti al rinnovamento, senza mostrare pericolose indifferenze; occorre ritrovare un rapporto con i giovani. Su queste basi si può dare davvero l’addio al passato e trovare nuovi assetti costruttivi da porre a confronto. Pertanto da tutte le rappresentanze politiche e sociali deve venire una nuova iniziativa che metta al centro della discussione politica la ricerca di nuove proposte, di nuove regole e nuovi diritti, quale prospettiva per gli anni a venire. Si devono rilanciare valori e solidarietà, coesione e certezze. La parte sana della società deve evidenziare al Paese il comune sentire circa l’urgenza di porre fine alla perdurante illegalità della finanziarizzazione dell’economia e quindi avanzare la richiesta di contribuire a ridefinire “regole nuove”, capaci di garantire il delicatissimo passaggio politico-istituzionale che stiamo vivendo. Bisogna ridare alle istituzioni la loro autorevolezza in modo che, ancor prima che con le norme, possano divulgare la cultura dell’economia sociale, della partecipazione, dell’emancipazione civile, democratica e sociale. Al giorno d’oggi la ricchezza mondiale ha raggiunto la massima concentrazione storica nelle mani di una élite e abbiamo un sistema globale in cui pochissime persone al vertice sono molto ricche mentre più della metà della popolazione di questo pianeta è irrimediabilmente povera e sarà povera per sempre perché solo i soldi producono soldi. Secondo le ultime stime OCSE, nei Paesi industrializzati, vi sono quasi cinquanta milioni di disoccupati, il livello più alto dal dopoguerra.

 

Nonostante questo si continua a parlare di eccessive ‘rigidità’ del mercato del lavoro, essendo ormai certificato, anche dagli ultimi rapporti OCSE, che un ventennio di politiche di “flessibilità del lavoro” ha generato solo una consistente riduzione della quota dei salari sul PIL e non ha di certo accresciuto l’occupazione. Oggi si segue una linea di ‘austerità’, secondo la quale si ritiene che – ferma restando la ‘flessibilità’ del lavoro – la disoccupazione sia imputabile al modesto tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati e che, per far fronte al problema, siano necessarie politiche di riduzione della spesa pubblica. La crescita economica, a sua volta, secondo i sostenitori dell’austerità, sarebbe trainata da politiche favorevoli alla ‘libertà d’impresa’, cioè politiche che annullano i vincoli relativi ai diritti dei lavoratori, alla tutela dell’ambiente, agli oneri burocratici e alla tassazione. Le politiche di austerità sono, al tempo stesso, dannose e inevitabili. Sono dannose, in primo luogo, perché la contrazione della spesa pubblica, riducendo la domanda aggregata, riduce l’occupazione e, a sua volta, la riduzione dell’occupazione, in quanto riduce il potere contrattuale dei lavoratori, riduce i salari e, dunque, i consumi. In secondo luogo, in assenza di iniezioni esterne di liquidità, politiche di bassi salari e alta disoccupazione su scala globale restringono i mercati di sbocco per la produzione, riducendo – per le imprese nel loro complesso - i margini di profitto e gli investimenti. Quindi, tirando le somme, le politiche di ‘austerità’ accentuano la crisi perché contribuiscono ad accelerare la caduta della domanda aggregata. Se, come la visione dominante sostiene, la riduzione della spesa pubblica è funzionale alla riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, e dunque a scongiurare attacchi speculativi, va rilevato che, per contro, il calo dell’occupazione riduce la produzione e, dunque, il PIL; la riduzione dei redditi di conseguenza abbassa la base imponibile  e può accrescere il debito pubblico. In altri termini, le politiche di austerità rischiano di generare gli effetti che si propongono di contrastare, aumentando l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, per effetto della contrazione del tasso di crescita. La linea dell’austerità è però dettata dalla sostanziale impossibilità di praticare politiche fiscali espansive in regime di piena mobilità internazionale dei capitali. L’architettura istituzionale nella quale si muove il ‘nuovo’ capitalismo è, infatti, basata sulla costante ‘minaccia’ di disinvestimento da parte delle imprese che hanno maggiore possibilità di dislocare la propria produzione all’estero. Dalle stime del Fondo Monetario Internazionale si deduce che la quota dei salari sul PIL, nei Paesi OCSE, si è significativamente ridotta a partire dagli inizi degli anni ottanta, proprio a partire dalla stagione che, convenzionalmente, si definisce di ‘globalizzazione’.

 

Gli incrementi di disuguaglianza del reddito familiare sono stati in gran parte determinati dai cambiamenti nella distribuzione di salari e stipendi che rappresentano il 75% del reddito familiare degli adulti in età lavorativa. La famiglia, in questo frangente, è stata l’unico e più efficace ammortizzatore sociale, anche se questo compito solidaristico è stato coattivamente ridotto dalle ultime manovre al ribasso operate dai Governi, in particolare italiani, francesi, greci e spagnoli, sulla base delle direttive Ue che hanno continuato nell’opera di restrizione e di austerity. Di fronte a questo scenario, bisognerebbe ridiscutere la politica dell’austerity che colpisce direttamente i salariati e i ceti medi e più bassi con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione che di conseguenza significa anche diminuirne concretamente il suo ammontare. Sulla base, anche, dell’emergenza economica in Italia si è riversato sui cittadini una bordata di tasse che ha prodotto un aumento esponenziale delle stesse — anche per l’aggiunta a quelle nazionali di quelle locali — al punto che abbiamo superato la Finlandia e, adesso, ci collochiamo al quarto posto in Europa per peso della tassazione. Inoltre dobbiamo fronteggiare la spesa per interessi più alta in Europa nonostante il saldo primario dell’Italia continua ad essere secondo solo alla Germania. Il nuovo record assoluto del debito pubblico italiano è la conferma che la politica di restrizione e di austerity ha fatto precipitare il nostro Paese in una spirale rischiosa. Bisogna, quindi, invertire le scelte di politica economica: abbandonare le politiche di austerity e puntare sulla crescita e lo sviluppo. È questo l’unico modo per rilanciare l’economia. Il sindacato oggi è l’unico soggetto che ha una strategia con la proposta delle piattaforma unitaria che raccoglie tutte le indicazioni per uscire dalla crisi e che individua un modello di società improntato sui valori Costituzionali.

 

È una proposta non finalizzata soltanto ad un confronto con il governo in sede di preparazione della legge di bilancio o Def di turno ma una si rivolge alla società, alle forze politiche e alle forze produttive per rideterminare condizioni nuove che facciano uscire dalla crisi e che permettano di investire risorse nella crescita. Certo non può essere solo una discussione che si restringe nell’angusto perimetro nazionale ma deve essere frutto di un confronto anche a livello europeo laddove si decidono le scelte di politica economica. E bisogna farlo cambiando le coordinate, abbandonando l’austerity e puntando agli investimenti per lo sviluppo e per l’occupazione. Bisogna ricreare le condizioni per stimolare la discussione e la partecipazione per evitare che l’apatia mini alla radice la possibilità di cambiare le cose. Un accenno finale al rischio che, oltre alle questioni economiche, anche una altra partita altrettanto importante, mini i valori di solidarietà e di coesione che sono punti fondamentali del convivere in una comunità come la nostra e cioè l’autonomia differenziata. Abbiamo scritto molto su questa rivista sui pericoli di questa deriva di frammentazione del Paese, spacciata come una riforma. Quello che preoccupa è la poca attenzione che i cittadini e le forze politiche e le Istituzioni stanno prestando a questa materia. Pochi solo stanno gridando con voce ferma la loro non condivisione. Non vorremmo che poi quando questo processo verrà definito compiutamente qualcuno potesse dire che non ne sapeva niente. Va avviata una fase di consultazione a tappeto e se non bastasse va proposto un referendum in tutto il Paese per evitare che si scopra dopo quello che è successo. Tutti devono essere coinvolti. Si deve uscire dall’apatia e risvegliare le coscienze e le intelligenze. In questo il sindacato può fare molto e come ha fatto in passato deve rifarlo oggi.

 

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