Si profila un’altra importante stagione referendaria
DICEMBRE 2019
Attualità
Si profila un’altra importante stagione referendaria
di   Alessandro Fortuna

 

 

La firma numero 64, quella decisiva per raggiungere il quorum dei senatori (un quinto del totale, come recita l’articolo 138 della Costituzione1) ed utile ad avviare la procedura per indire il referendum sul cd. taglio dei parlamentari, è stata di un parlamentare eletto in Australia. Ora la palla passa in Cassazione dove arriveranno le sottoscrizioni, bloccandosi così l’iter per l’entrata in vigore della legge. Il tutto alla vigilia degli incontri tra maggioranza e gruppi di centrodestra sulla legge elettorale e soprattutto del parere che la Corte costituzionale dovrà dare il 15 gennaio al referendum della Lega sulla legge elettorale, che introdurrebbe un sistema maggioritario puro, all’inglese, cancellando la parte proporzionale del cd. Rosatellum e lasciando solo i collegi maggioritari uninominali. Un giudizio, quest’ultimo, che se dovesse dichiarare l’ammissibilità aprirebbe lo scenario di una primavera con due referendum, uno costituzionale e uno abrogativo, il primo, quindi, senza quorum ed il secondo con quorum. Mai accaduto finora. Ma facciamo prima un passo indietro e cerchiamo di fare un quadro di questa tanto acclamata legge che “taglia” i seggi parlamentari. Dagli attuali 945 ai futuri 600 parlamentari. Una “sforbiciata” degli eletti complessivi pari al 36,5%. L’approvazione definitiva è arrivata lo scorso ottobre ed è stata l’inevitabile seguito di una maggioranza che diversamente non avrebbe tenuto fino alla legge di bilancio di queste ore, ma rimarrei sui dettagli del progetto. L’effetto diretto della riforma è la diminuzione del numero dei deputati che passano da 630 a 400 totali e dei senatori che scenderanno a 200 totali dagli attuali 315. Viene ridotto anche il numero degli eletti all’estero: si passa dagli attuali 12 a un massimo di 8. I senatori passano dagli attuali 315 a un totale di 200, gli eletti all’estero da 6 a 4. La novella costituzionale cambierebbe ovviamente anche il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto e di conseguenza il rapporto di rappresentanza e prossimità con il territorio. Al momento la Carta stabilisce che “nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sette; il Molise ne ha due; la Valle d’Aosta uno”. La riforma, di suo invece, individua un numero minimo di tre senatori per Regione o Provincia autonoma, lasciando immutata la previsione vigente dell’articolo 57, terzo comma della Costituzione, relativo alle rappresentanze del Molise (due senatori) e della Valle d’Aosta (un senatore). Viene però previsto, per la prima volta, un numero minimo di seggi senatoriali riferito alle Province autonome di Trento e di Bolzano. La riforma modifica anche l’articolo 59 della Costituzione, prevedendo espressamente che il numero massimo di senatori a vita non possa essere superiore a cinque. Recita l’articolo modificato: “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario.

Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque”. Questo il contesto in cui muoviamo, ebbene al giubilo di alcuni per l’approvazione del progetto sono corrisposte le motivazioni dei promotori del probabile prossimo referendum di cui accennavo in premessa. “Il referendum è un bene in sé, al di là del suo esito, proprio perché permette un dibattito pubblico che non c’è stato”, ha detto Nannicini. Non è tardata la risposta di chi ne ha fatto un caposaldo del Movimento, Di Maio: “Non vedo l’ora di confrontarmi nella campagna per il referendum. Voglio vedere chi ci sarà dall’altra parte”. È sintomatico della cornice politica che viviamo il fatto che si dichiari di voler “vedere” chi si ha di fronte, piuttosto che ascoltarne le ragioni. Eppure, d’altro canto, la linea che accomuna tutti i promotori, è che “nel paese si svolga finalmente un dibattito sulla riforma e sui suoi effetti”. Un “Parlamento può funzionare benissimo avendo meno parlamentari in rapporto con la popolazione ma vale anche l’inverso. Che funzioni meglio o peggio se ha più o meno parlamentari è un assunto di fede demagogica privo di riscontri nella realtà” ed è anche “una questione di prudenza istituzionale e di saggezza chiedere l’opinione dei cittadini, visto che le maggioranze” tra i primi voti sulla riforma e l’ultimo “sono variate”. Con la nascita del governo giallorosso, infatti, essa è stata appoggiata per la prima volta anche da Pd, Leu e Italia viva, nonostante nelle tre precedenti votazioni avessero votato contro. Allo stesso tempo, hanno votato a favore anche le forze di opposizione, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. Senonché la stessa Forza Italia sembra fare mea culpa stando a quanto affermato da Andrea Cangini: “Il risparmio è pari allo 0,007% della spesa pubblica, non è questo il vero obiettivo ma è demagogico, esibire la testa mozzata della politica in cambio di consensi, ma i partiti che non hanno questa impostazione demagogica dovrebbero difendere la politica non per mantenere la poltrona. […]. Il punto non è il parlamento ma la democrazia. Le istituzioni non possono essere ridotte a una questione di soldi o poltrone, è avvilente”. Gli fa eco Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati: “come Forza Italia abbiamo votato a favore del taglio del numero dei parlamentari, pur evidenziando alcune criticità. Si è guardato giustamente ai risparmi, ma non si è intervenuti sull’efficientamento del sistema legislativo e sulla rappresentatività: ci saranno Regioni che potrebbero non avere un rappresentante di opposizione in Parlamento”.

In quota PD, Tommaso Nannicini ha dichiarato che la riforma è nata su un “humus di anti politica che già ha fatto tanti danni. Continuo ad auspicare che si approvino dei correttivi, a partire dalla legge elettorale, che possano dare un senso a una riforma che ora un senso non ce l’ha. Se non arriveranno correttivi voterò no al referendum”. Insomma si preannuncia una lunga stagione pre-elettorale che potrà far togliere diverse maschere opportunamente indossate sull’onda, mi permetto di usare un termine citato, di una comoda demagogia che ha sempre fatto l’occhiolino a quella famosa “pancia delle persone”, a quel sentire diffuso di insofferenza e diffidenza verso tutto ciò che è politica. Eppure la scelta della classe dirigente politica del Paese di percorrere queste vie brevi, abbandonando quelle più impervie che ambiscono a instillare una presa di coscienza tra i cittadini, non fanno che sminuire il senso e la dignità della funzione politica. Non è una novità, di certo, che l’idea di democrazia, col tempo, con le nuove generazioni, ci sta sempre più sfuggendo dalle mani, in uno scollamento sempre più sensibile tra rappresentati e rappresentanti. Questo esito non lo si può inquadrare in un colpevole disamore verso l’attività politica o in una permeata ormai apatia civica ma piuttosto nello smarrimento frutto della consapevolezza di non poter incidere, anche in minima parte, nei processi decisionali dell’impianto democratico del nostro Paese. In sostanza, si stenta a riconoscersi a pieno titolo in qualcosa di più grande di cui ci si sente attivamente partecipi. E forse, proprio qui, arriviamo al punto: la partecipazione e, ancor meglio, la sua idea come modellata in questi ultimi decenni dal quadro politico nazionale e internazionale. Sì perché il concetto di democrazia corre di pari passo con quello di partecipazione.

Cos’è la democrazia se non il frutto dell’incontro e del confronto dei diversi momenti e spazi di partecipazione offerti alla comunità? Un’offerta che però in questi anni è andata sempre più scemando. Bisogna partire dal presupposto che una partecipazione consapevole è concepibile solo allorquando vi siano diversi strumenti e luoghi cui poter accedere per potersi costruire un’idea su quello che ci circonda, attraverso l’informazione, l’ascolto e il dialogo. Senza questi luoghi, questi momenti, e mi riferisco dai più piccoli e particolari comitati di quartiere fino alle istituzioni parlamentari, la pluralità insita della partecipazione viene meno e prendono vigore individualismi e verità inconfutabili. Eppure rimane che lo scorrere della storia e della cronaca politica sembra esser di tutt’altro parere. Abbiamo assistito al declassamento prima dei partiti e delle sue strutture verticali a livello territoriale poi agli attacchi alle organizzazioni sindacali, sia sotto il profilo delle risorse sia delle prerogative sindacali. E ancora! Abbiamo accettato, anche col favore dell’opinione pubblica, il superamento del finanziamento pubblico dei partiti, confinando ancor più la politica a cosa di pochi noti. Evidenze quest’ultime che in più occasioni sono state palesate dagli stretti collegamenti tra gruppi di potere e singoli personaggi politici. Evidenze che però hanno solo animato provocazioni e scontri verbali ma che mi pare solo in pochi abbiano fatto comprendere quanto la politica non possa tingersi di idee democraticamente costruite se sovvenzionata da gruppi di interesse privati e non democratici. Il tutto in un quadro dove la rappresentanza ha gradualmente ceduto il passo a ottiche non più proporzionali ma sempre più maggioritarie e distorsive del voto, da ultima la proposta di referendum abrogativo della Lega. Non solo! Vorrei ricordare che sulla stessa scia del taglio della spesa (in democrazia e rappresentanza) si sono cancellate di fatto le province costituzionalmente previste, privandole della legittimazione elettorale e inibendone le funzioni senza tanto far caso alle conseguenze sui territori e sui cittadini. Personalmente, ritengo che in tal modo si sia scippato all’elettorato italiano una importante tribuna elettorale, come quella delle Province che comunque rappresentavano un’istituzione percepita ovviamente come più vicina. E ci sarebbero tanti esempi, tutti con un minimo comune denominatore: la lotta ai corpi intermedi e il superamento della rappresentanza delegata. La storia recente ci ha manifestato, limpidamente, come le Costituzioni del dopo guerra rappresentassero un ostacolo al modello unico del neoliberismo perché troppo intrise di orpelli garantistici che non rispondevano più ai tempi che corrono. Proprio quest’ultimo concetto sembra sia il mantra forte dell’ennesima riforma a ribasso della democrazia, il taglio dei parlamentari. Sì perché con una classe dirigente che cavalca la “pancia” di un elettorato sempre meno “interessato”, questa non può che rappresentare un’azione contro la “casta”. Il rischio, però, è quello che la si crei per davvero una casta, soprattutto in un sistema dove il finanziamento delle associazioni partitiche, come già riportato, rischia di modellarsi sulle volontà di influenti gruppi di potere; dove le spinte maggioritarie restringono l’accesso delle minoranze; dove ci sono nominati e non più preferenze; dove i diritti cedono dinanzi al pareggio di bilancio; dove la politica dal basso non ha più luoghi per esprimersi e creare nuovi gruppi dirigenti. Eppure se di “casta” si tratta perché non si opera sulle indennità parlamentari? Ma più ché di denari tornerei sul concetto di rappresentanza. Come si può esultare di fronte alla sua costante inflessione? Il mio primo pensiero è piuttosto: in un sistema dove la classe dirigente politica ha difficoltà a formarsi e ricambiarsi per assenza dei luoghi della politica e di fondi svincolati dai privati, con il ridursi degli scranni parlamentari si corre seriamente il rischio che quel che rimane della politica diventi ad esclusivo appannaggio di pochi. Del resto lo ha dimostrato anche chi forse avrebbe potuto in parte superare questo problema mettendo dei paletti al numero dei mandati, salvo poi ripensarci provvidenzialmente.

Certo, buona parte di chi ha perorato questa riforma, muove d’altronde da un’idea di democrazia svincolata dagli strumenti della politica del novecento e si riconosce in un “click”: la “democrazia diretta” del blog, delle piattaforme online, del tweet, dei like e dei dislike. Una partecipazione rapida e dal divano di casa, con gli occhi sul device a portata di mano. Questi sono diventati gli strumenti a disposizione di chi vuole avventurarsi nella partecipazione politica. Vien da sé che un’idea simile faccia bene il paio con la riduzione dei parlamentari, è coerente con chi ha soppiantato le sezioni con i meetup e con chi proponeva premio di maggioranza e ballottaggio per raggiungere ampie maggioranze parlamentari. Eppure, così facendo, a farne le spese saranno gli elettori e, di conseguenza, quel senso di appartenenza a qualcosa di più grande cui accennavo prima. Un primo lascito in tal senso della riduzione di un terzo dei parlamentari sarà la corrispondente diminuzione del plotone dei rappresentanti delle piccole e medie regioni, di cui porteranno bandiera solo le più grandi compagini partitiche. Per quest’ultimo motivo e per tutti gli altri richiamati, il dubbio che mi pongo è se non sarà un salto nel vuoto restringer ancor più gli spazi e le agibilità di un modello di rappresentanza che si cala in un’era dove sempre più si ha difficoltà a percepire una dimensione di comunità e a guardare più in là del proprio naso. Non è, forse, proprio il contingentare sempre più le aule del Parlamento a un club ristretto, che sortirà l’effetto di allontanare sempre più le persone da ciò che sono la politica e le istituzioni? Bene quindi un referendum, sempre che sia accompagnato da un dibattito sano e nel merito delle questioni. In conclusione, a voler tirar le somme, ritengo che quella del taglio dei parlamentari sia semplicemente una manovra mediatica tesa a stimolare i malumori dell’elettorato, anche perché non si comprende come, ad esempio, possa alleggerire i lavori dell’aula permanendo comunque il modello del bicameralismo paritario. L’astensionismo, l’apatia, l’entusiasmo per la politica dubito seriamente che verranno risvegliati da una scelta simile. Rimango convintamente dell’idea che, invece, bisognerebbe restituire dignità a quegli strumenti del novecento che se ancora oggi in tante esperienze resistono e convincono, vedi il sindacato, non si comprende perché dovrebbero esser spazzati via come si sta facendo. Non ritengo che la democrazia del click possa esser la chiave di volta per il nostro Paese, perché troppi sono i filtri a una vero scambio di idee che non possono affidarsi a un post o, ancor più paradossalmente, a un’immagine. Lo può esser solo il rilancio di un modello forse antico, forse lento, forse impegnativo ma che ha sostenuto il sistema democratico del nostro Paese, mi riferisco a quello delle assemblee, delle sezioni di partito, delle camere territoriali del lavoro, delle RSU, dei congressi, delle persone che si guardano negli occhi.

 

 

1 “Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.”

 

 

Potrebbe anche interessarti: