Salute e sicurezza del lavoro e “diversità”: la tutela dalle discriminazioni, molestie e ritorsioni
GIUGNO 2018
Approfondimento
Salute e sicurezza del lavoro e “diversità”: la tutela dalle discriminazioni, molestie e ritorsioni
di   G. M. Delicio

 

 

La “diversità” interroga la politica e i corpi intermedi e impone una attenzione normativa - ma direi anche di contrattazione collettiva e integrativa - che, partendo dal prevedere strumenti di “appianamento” delle “ingiustificate differenze” (di pari opportunità), si spinga a prevedere forme di “valorizzazione” delle peculiarità. Quando, poi, la “diversità” si colloca all’interno di uno specifico contesto lavorativo, pubblico o privato, pone quell’ambiente aziendale difronte alla esigenza di riprogettare l’assetto della organizzazione - secondo le metodologie tipiche del sistema di salute e sicurezza del lavoro - introducendo un approccio metodologico e gestionale che consideri la “diversità” come un ulteriore fattore potenziale di rischio e la “discriminazione” (anche in termini di tutela) come il rischio concretizzatosi. In pratica, individuate e declinate le diversità presenti e valutati gli impatti lesivi che le stesse possono arrecare al benessere psico-fisico delle lavoratrici e dei lavoratori in quel contesto aziendale, le stesse devono essere “trattate” al pari di altri rischi specifici (non sottovalutando, peraltro, che spesso le diversità sono fattori che enfatizzano altri rischi esistenti in un contesto lavorativo), elaborando e attuando azioni correttive in termini di eliminazione e riduzione del rischio “discriminazione”1. Secondo un più ampio, moderno e sfidante contesto di responsabilità sociale di impresa, poi, la gestione aziendale (specie se sostenuta da politiche pubbliche coerenti in tale senso) può giungere sino a “promuovere” politiche interne di “diversity management” che non si limitino al “minimo sindacale” di eliminazione delle ingiustificate differenze ma che - con un apparente percorso inverso - valorizzino maggiormente le “diversità” individuali (di genere, di età, di abilità fisiche, di origini etnico-culturali, di forme contrattuali), partendo dall’assunto che queste possono essere “trattate” come un valore aggiunto per un efficace raggiungimento degli obiettivi prefissati e per la performance aziendale. Ovviamente, questo scatto in avanti, presuppone un contesto culturale - sociale e aziendale - evoluto e lungimirante: il diversity management2 può farsi strumento strutturale e funzionale alle logiche d’impresa, in cui il riconoscimento della potenzialità del personale venga considerato un elemento fondamentale per il buon andamento dell’organizzazione e, dunque, per l’ottimizzazione dei profitti.

 

1  Il sistema di salute e sicurezza del lavoro - SSL, applicato alla materia delle “diversità”.

Affrontiamo la tematica delle “diversità” e delle “discriminazioni” dall’angolo visuale della SSL, non senza prima tracciare alcune necessarie premesse. Una prima doverosa premessa è che la materia della SSL è una materia dalle forti connotazioni pratiche e oggettive. Per tale ragione, suggerisce - ma direi impone - un approccio “laico” alla materia delle differenze: le “diversità”, nel sistema di SSL, altro non sono che fattori potenziali di rischio; perciò, “servono” all’operatore del sistema in quanto oggetto di indagine e elemento su cui intervenire in termini di eliminazione o, ove ciò non fosse possibile, di riduzione. Questo significa che le differenze vanno conosciute, riconosciute, delineate nella di loro portata lesiva - anche in concomitanza tra loro e ad altri fattori di rischio - e “gestite”, al fine di evitare che - concretizzatosi il rischio - si produca la lesione al bene tutelato: si realizzi, cioè, la lesione della salute, del benessere, della dignità, in una parola, dell’integrità psico-fisica delle “persone che lavorano”. Secondo l’attuale sistema normativo vigente in materia di SSL, tutti i datori di lavoro pubblici e privati, hanno l’obbligo, individuato dal legislatore nell’art. 1 del D.Lgs. 81/08 e s.m.i., di garantire “l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”.

In particolare, l’obbligo è ulteriormente sottolineato all’art. 28 “valutazione dei rischi”, che recita: “La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, sulla base di quanto previsto dal Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro”.

Così, a fronte della mappatura delle diversità soggettive, il dominus di una data organizzazione, deve verificare quale impatto (in termini di danno potenziale) possono produrre sulla persona della lavoratrice e del lavoratore, sotto un duplice aspetto:

? in termini di danno potenziale fisico, che soprattutto si registra nell’ambito delle differenze di sesso, di età, di handicap allorquando queste intercettano altri fattori di rischio oggettivi e non: pensiamo al rischio chimico e alla incidenza, ad esempio, sulla salute riproduttiva; o alla movimentazione manuale dei carichi, rispetto alla età e quindi alla struttura fisica del lavoratore; pensiamo a un handicap dell’udito rispetto alla capacità di quel lavoratore di avvertire anche allarmi sonori di pericolo, e così di seguito;

? in termini di danno potenziale psico-sociale, che soprattutto si registra nell’ambito delle differenze di genere, di provenienza da altri Paesi, disabilità, di tipologia contrattuale, anche quando queste “diversità”, intercettano ed enfatizzano lo stress lavoro-correlato (ma non solo) e quando incrociano e sfociano nella patologia del rapporto, tipica delle “discriminazioni” (non solo di genere) che, a loro volta, determinano le c.d. “segregazioni” orizzontali e/o verticali. Infine, e non da ultimo, anche quando scatenano  la fase ultra patologica delle “molestie” e delle “ritorsioni”. Una seconda premessa è che, la materia della SSL oggi, lungi dal guardare i soli aspetti oggettivi (luogo e attrezzature), si sofferma sulla pratica del lavoro e sulle modalità di organizzazione ed esecuzione dello stesso. Sui comportamenti degli operatori tutti del sistema. L’attuale modello di SSL (anche in ottica “antidiscriminatoria”) è un modello culturale (prima ancora che tecnico-giuridico) che pone l’organizzazione al centro della gestione della sicurezza e, conseguentemente, impone il passaggio da un modello di sicurezza che aveva come campo di intervento l’ambiente fisico di lavoro, ad un concetto di “salubrità del lavoro” che porta il “lavoro organizzato” al centro dell’interesse della prevenzione. Secondo questo modello, è anche in base a come il lavoro è organizzato, alle scelte e alle decisioni organizzative adottate che possono realizzarsi le condizioni di pericolo o di rischio per il benessere fisico ma anche psichico delle lavoratrici e dei lavoratori3 . Non a caso siamo passati dalla locuzione “salute e sicurezza “sul” lavoro” a quella “salute e sicurezza “del” lavoro”. Inoltre, il sistema si connota per la forte “personalizzazione”, per la verifica dell’impatto dei rischi potenziali su gruppi omogenei di lavoratrici e lavoratori e (laddove presenti) sulle singole e specifiche “diverse soggettività”, concetto che - di fatto - inverte l’ordine delle cose come siamo “male abituati” a vederlo (la persona che si adatta al lavoro) per “ristabilire” - finalmente - quel corretto e giusto bilanciamento di interessi che tende a valorizzare il diritto alla salute sull’organizzazione del lavoro, l’uomo rispetto alla macchina, richiamando la corretta subordinazione di valori che la carta costituzionale a chiare lettere evidenzia: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” (art. 41, secondo comma Cost.)4 .

È, perciò, il lavoro che - per tramite di una buona organizzazione - si deve adattare alle persone, ovviamente utilizzando al meglio le di loro abilità e potenzialità ai fini della produttività aziendale. Sicché, salute organizzativa e benessere organizzativo sono aspetti perfettamente complementari e devono essere trattati come due elementi del medesimo fenomeno. Elementi che, peraltro, si enfatizzano a vicenda, creando un circuito aziendale virtuoso: quanto più una organizzazione è in salute, tanto più le sue risorse umane saranno “sane” e dalla personalità “integra”; quanto più le risorse umane lavorano in uno stato di benessere psico-fisico, tanto più quella organizzazione aziendale sarà florida, oltre che etica. Una terza premessa, è che la garanzia della salute e sicurezza del lavoro è presidiata dalla responsabilità penale dei soggetti garanti coinvolti; a chiarire, laddove ve ne fosse bisogno, l’importanza e la preponderanza che il sistema giuridico vigente riconosce al benessere delle lavoratrici e dei lavoratori. E allora, è il caso di intenderci sul bene tutelato dal sistema di salute e sicurezza del lavoro, giammai per mero esercizio speculativo, bensì per delineare l’ambito e i punti di intersezione tra la materia della salute e sicurezza del lavoro e quella anti-discriminatoria e, poi, per comprendere le ragioni della particolare tutela penale, in termini di responsabilità omissiva della linea datoriale, anche in termini di mancato impedimento dell’evento. È necessario e sufficiente partire dalla definizione stessa di “salute”. “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità.” 5

Secondo questa concezione, la salute in quanto “stato” è anche una sorta di “bene” psico-fisico da conservare e da proteggere dai rischi, anche e soprattutto nei luoghi di lavoro, “in particolare attraverso l’adattamento del lavoro ai lavoratori e la loro assegnazione a compiti per i quali siano adatti”.6

 Questo “stato” di benessere è “un diritto umano fondamentale e l’ottenimento del suo più alto possibile livello è uno tra i più importanti obiettivi sociali mondiali, la cui realizzazione richiede l’azione di molti altri settori economici e sociali, oltre a quello sanitario”. 7

Sicché, negli ultimi due decenni del XX secolo si è fatto strada un modo di pensare la salute ancora più evoluto e dinamico: non già e non solo come “bene” ma come “risorsa”, non solo da conservare e promuovere ma anche da considerare come “misura” e parametro di soddisfazione dei bisogni e come “mezzo” per la realizzazione individuale e per un positivo relazionarsi con l’ambiente. “La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere”.8

E allora, se la salute è “fisica-mentale-sociale” e se rappresenta uno “stato-bene-risorsa”, essa va promossa, garantita, protetta in ogni ambito e contesto della vita dei consociati, specie in quegli ambiti in cui non è nella piena disponibilità (in termini di autotutela) del titolare. Un caso tipico è quello del contesto lavorativo, in cui le lavoratrici e i lavoratori - che svolgono la prestazione seguendo le disposizioni e l’organizzazione altrui, utilizzando luoghi e strumenti gestiti dalla “direzione” - si sottopongono a rischi che non dominano direttamente ed esclusivamente.

Perciò, non sono in grado di proteggersi autonomamente e completamente. In questi contesti, il nostro sistema normativo pone in funzione di garanti del bene tutelato quei soggetti che - per ruolo e/o per posizione - sono in grado di conoscere, controllare e dominare le fonti potenziali di rischio e, perciò, devono intervenire preventivamente in termini di impedimento degli eventi lesivi sulla persona delle lavoratrici e dei lavoratori. E allora, la domanda da porsi è: da cosa è attentato il “benessere” delle lavoratrici e dei lavoratori sui luoghi di lavoro?

La risposta, nella sua pragmaticità, è altamente intuitiva perché è suggerita dalla stessa osservazione della realtà: dalle fonti potenziali di pericolo (impianti e attrezzature, sostanze e materiali, rumore, microclima, pratiche lavorative, procedure, modalità operative), dal contatto di una data lavoratrice e di un dato lavoratore (con la sua soggettività psico-fisica, anche in termini di “differenze”) con quelle stesse. Dal contatto di quella “persona che lavora” con le altre persone che lavorano, anch’esse con la propria soggettività psico-fisica.

In sintesi: il benessere della persona che lavora è attentato dal luogo, dagli strumenti, dal contenuto, dal tempo, dalle modalità della prestazione; nonché dal contesto in cui si svolge la prestazione, da intendersi (quel contesto) tanto in termini “reali” di “sana” organizzazione, quanto in termini “percepiti” di “buona” organizzazione. Da come questi fattori incidono sulla soggettività del singolo e dalla cooperazione delle singole soggettività di cui è composta la popolazione lavorativa di quel contesto.

Già da questi cenni, si comprende l’importanza della valutazione della diversità in termini di analisi e gestione dei rischi, con la finalità di prevenire le discriminazioni/molestie/ritorsioni. Cosa accade, allora, quando la fonte potenziale di pericolo entra in contatto con la persona che lavora? Si realizza la c.d. “esposizione a rischio” tale per cui, al concretizzarsi di quel rischio, la lavoratrice e/o il lavoratore può riceverne un danno (cioè una lesione psico/fisica della sua persona).

Appare evidente, sulla scorta di questi pochissimi elementi, che - individuate le fonti potenziali di pericolo e le soggettività che vi possono entrare in contatto - la concretizzazione del rischio divenga valutabile e misurabile, sia in termini di probabilità (p) di verificazione, che in termini di gravità (m) delle conseguenze dannose. La valutazione e misurazione dei rischi, ovviamente, non è il “fine” del processo bensì il presupposto in base al quale, poi, costruire un sistema in grado di incidere sulla stessa probabilità che il fatto si verifichi - con le misure di prevenzione - e (a fatto nonostante tutto verificatosi) - con le misure di protezione collettive e individuali - sulla gravità delle conseguenze dannose che è in grado di produrre. A questo punto, per continuare l’argomentazione logica, è necessario chiedersi: cosa si vuole “prevenire”, oggi, nel lavoro? Quale “fatto” vogliamo evitare? Dato il concetto di salute, certamente il sistema di salute e sicurezza del lavoro - SSSL vuole prevenire le malattie professionali e gli infortuni; ma, innegabilmente, anche il disagio, il disconfort (fisico, psichico e sociale) e, dunque, anche, le discriminazioni/molestie/ritorsioni tutte, per la prevenzione (complessiva e primaria) dei quali risulta funzionale superare le logiche di separazione dei fattori organizzativi da quelli gestionali e dalle scelte di obiettivi, tecniche, materiali e ambienti, per giungere ad operare scelte di maggiore congruenza tra obiettivi di produzione, strumenti di produzione e prospettive di benessere delle lavoratrici e dei lavoratori.

E allora, se questo è, e questo è (seppur sommariamente delineato) il sistema di salute e sicurezza del lavoro, dobbiamo concludere che il modello voluto dalle normative “anti-discriminatorie” è rintracciabile direttamente all’interno del modello voluto dal T.U. Sicurezza, rappresentando una parte del “modello ideale” di benessere del lavoro che, lungi dall’essere un miraggio romantico lasciato alla sensibilità del singolo “datore di lavoro”, rappresenta - ai fini dell’assolvimento degli obblighi di sicurezza - il “modello giuridico a cui tendere”, cioè il risultato da aggiungere, attraverso l’elaborazione e l’efficace attuazione di un sistema prevenzione efficace ed efficiente, lasciato - seppur in un articolato normativo di misure generali di tutela - alla libera autodeterminazione del datore di lavoro, secondo principi di adeguatezza9  ed effettività.

Sicché, spostata la attenzione da “un processo di lavoro astrattamente inteso” a “quel processo di lavoro specificatamente individuato”, il passaggio dalla “etero-regolamentazione” (da parte del legislatore speciale attraverso norme astratte di elevato tecnicismo) alla “auto-regolamentazione” (da parte del datore di lavoro attraverso la valutazione dei pericoli e dei rischi e la predisposizione di un sistema interno di prevenzione, eliminazione e gestione degli stessi) è stato consequenziale, seppur ancora oggi di non di semplice attuazione.

Spetta infatti al datore di lavoro (dominus di quel processo produttivo) individuare e valutare i pericoli e i rischi per la salute delle sue lavoratrici e dei suoi lavoratori (anche in un’ottica di genere e di differenze apprezzabili), predisporre un “adeguato” (in ragione dei rischi valutati) organigramma e sistema di prevenzione e attuarlo efficacemente e - dunque - individuare, programmare e gestire le misure di prevenzione e protezione dei rischi individuati, coinvolgere le lavoratrici e i lavoratori (attraverso le proprie rappresentanze) nel processo valutativo, informarli e formarli (oltre che addestrarli) sui rischi presenti, fornire i dispositivi di protezione collettiva e individuale, nonché assicurare una adeguata sorveglianza sanitaria ove obbligatorio o necessario.

Caratteristica del sistema è, evidentemente, la procedimentalizzazione della prevenzione, che si basa fondamentalmente sulle trefasi principali:

? la valutazione dei rischi medesimi e la consequenziale redazione del documento di valutazione dei rischi - DVR, che assolve ad una duplice funzione:

a. di strumento fondamentale all’interno del quale il datore di lavoro individua i rischi e le misure di prevenzione più adeguate ad eliminare o comunque a ridurne l’incidenza;

b. di elemento in base al quale valutare in termini di “adeguatezza” il sistema adottato ed eventualmente aggiornato 9;

? la elaborazione e la efficace attuazione di un sistema di gestione di quei rischi;

? il monitoraggio della tenuta del sistema, in termini di efficacia, e - se necessario - la rielaborazione di un nuovo modello da attuare. E così via costantemente. A tale ultimo proposito, dobbiamo considerare che il carattere dinamico della prevenzione, impone al datore di lavoro di ripetere la valutazione dei rischi e di aggiornare il DVR ogni qualvolta vengano apportate modificazioni soggettive o oggettive in grado di incidere in maniera significativa sulla sicurezza dei lavoratori. Emerge perciò chiaramente, che la corretta valutazione (e misurazione) di “tutti i rischi” è la premessa metodologica, normativa e fattuale della salute e sicurezza del lavoro e rappresenta - dunque - il fulcro del “sistema” poiché da essa dipende l’adeguatezza e l’efficacia delle misure di prevenzione e protezione e, in ultima analisi, dell’azione costante di miglioramento delle condizioni di lavoro.

Appare evidente, che parlare di prevenzione in termini di “sistema organizzato”, significa avere:

? la presenza di soggetti dotati di capacità e poteri “adeguati” rispetto ai rischi valutati, con un ruolo (pre-definito e chiaro) all’interno dello stesso sistema (organigramma della prevenzione) 10;

? la disponibilità di strumenti/mezzi contrattuali, economici e tecnico-funzionali “adeguati” alle necessità prevenzionali della singola realtà produttiva;

? la gestione programmata (con tempi certi stabiliti in modo “adeguato” alle priorità emerse in fase di valutazione dei rischi) e il monitoraggio continuo dei risultati raggiunti, nonché il costante aggiornamento del sistema.

Entriamo così nel vivo dell’approccio alle “diversità” e alle “discriminazioni- molestie-ritorsioni” con il metodo della salute e sicurezza del lavoro, non senza ribadire che - ai fini della materia in esame, le diversità per genere, età, provenienza da altri Paesi e specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro (ma ben possono essere considerate specificità anche le altre ipotesi discriminatorie se apprezzabili in termini di rischio) costituiscono una fonte potenziale di rischio sulla quale - perciò - è necessario e doveroso intervenire (in termini preventivi e protettivi) per impedirne la concretizzazione sia in termini di enfatizzazione o differente atteggiarsi di altri rischi specifici presenti in azienda, sia in termini di discriminazioni/molestie/ritorsioni, entrambe le forme capaci di incidere in termini lesivi sulla salute psico-fisica, sulla persona e sulla dignità delle lavoratrici e dei lavoratori.

Leggendo e segmentando le definizioni normative “antidiscriminatorie” 11 sistemicamente con la disciplina di cui al D. Lgs. 81/2008, artt. 1 e 28, ci si trova di fronte - almeno in astratto - a tre differenti piani di pericolo e, dunque, di potenziale lesione del bene tutelato, che si possono concretizzare per mezzo di fattori oggettivi, atti, fatti e/o comportamenti posti in essere nei confronti del soggetto “diverso”:

- alle differenze in sé per sè, che sono neutre all’origine ma possono costituire discriminazione diretta, quando - in ragione di esse

- si realizzano o si dispongono atti di disparità di trattamento ingiustificate;

- discriminazione indiretta, quando - pur in presenza di esse

- non si pongono o non si dispongono azioni in grado di appianarle, per garantire parità di trattamento sostanziale. Le scelte organizzative e gestionali, anche in tema di tutela della salute e sicurezza, infatti, non sono mai “neutre” e quando lo sono intenzionalmente - intervenendo sulle politiche del personale e sulle scelte di salute e sicurezza, senza considerare le peculiarità di donne e uomini, di età, di tipologia contrattuale, di provenienza geografica o di altre differenze apprezzabili - possono produrre effetti indesiderati e non previsti. Tali scelte possono, quindi, causare disuguaglianze in termini di tutela effettiva e in termini discriminatori;

- alle molestie, sessuali e non, che - dalla normativa antidiscriminatoria

- sono considerate al pari delle discriminazioni (in ragione di testualizzate clausole di equivalenza e analogia) e che - da una lettura in chiave SSL - costituiscono pericoli realizzatisi (diversità non correttamente gestite, divenute discriminazioni per mezzo di atti molesti) e - dunque - rischi concreti e lesioni prodotte al bene tutelato. Si osserva, che ad una lettura approfondita, le molestie (ma vale anche per le discriminazioni in generale) costituiscono campanelli di allarme ed eventi sentinella: è tanto vero, che la discriminazione/ molestia segnalata (o scovata) va non solo censurata e colpita (sì da assolvere alla funzione punitiva e deterrente) ma anche esaminata e “studiata”, analizzata e scomposta (nei suoi fattori determinativi). Infatti, dall’esame della singola ovvero delle ripetute anche a volte diversificate (in termini di episodi e soggetti coinvolti) molestie, è possibile trarre un articolato comune, e dunque individuare i punti, i momenti e i contesti in cui si sviluppano o rischiano di svilupparsi, onde elaborare - su di esse - un sistema di gestione delle criticità.

Con particolare riferimento ai rischi di questo genere, spesso il comportamento della lavoratrice o del lavoratore, collaborativo e di segnalazione, può e deve offrire il corretto spunto per la elaborazione di politiche di prevenzione. Va tuttavia osservato che, ci si muove - specie con riferimento alle molestie sessuali - in un ambito ancora fortemente governato dai retaggi culturali sessisti, tali per cui la vittima di molestia teme di procedere alla segnalazione, per non subire gli ulteriori effetti lesivi della segregazione  da parte di altri lavoratori e altre lavoratrici per aver “turbato” l’ambiente di lavoro e della “ritorsione” - da parte dello stesso molestatore ovvero della organizzazione - che rappresenta l’ulteriore rischio da arginare, da eliminare;

- alle ritorsioni per non accondiscendenza alle molestie (sessuali e non) e per esercizio del diritto, che sono un ulteriore pericolo e, quindi, rischio da valutare ed eliminare, che rintracciamo nella normativa antidiscriminatoria e che individuiamo come rischio dall’alta potenzialità lesiva psichica (nel SSSL) non solo per la pervasività dello stesso visto che, fondamentalmente, è atto a intimidire con la duplice o alternativa finalità di irretire la potenziale vittima o di disincentivare comportamenti di denuncia, ma anche perché incide e insiste su una soggettività (di una lavoratrice o di un lavoratore) già lesa dalle discriminazioni o dalle molestie sottostanti.

Una volta esaminati i potenziali pericoli, è necessario che gli stessi vengano valutati in termini di rischio (probabilità di verificazione e gravità delle conseguenze) nella singola e specifica realtà aziendale/organizzazione, onde poi elaborare un sistema di gestione degli stessi in termini di eliminazione o riduzione al minimo.

 

II. E allora cosa fare? Cosa propone il modello di SSL?

L’art. 2087 del Codice civile pone in capo al datore di lavoro, come obbligo generale, il dovere di adottare nell’esercizio dell’impresa, le misure generali di tutela che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Questa norma, che in un primo periodo è stata “utilizzata” soprattutto in sede risarcitoria (quindi a eventi dannosi verificatisi sulla persona del lavoratore) e che in un secondo periodo (assunta ormai una veste “prevenzionale”) si è connotata per la messa in sicurezza e di igiene del luogo di lavoro, in piena coerenza con la visione soprattutto oggettiva della prevenzione, con l’evolversi della normativa (europea e nazionale) in tema di prevenzione e con il passaggio definitivo a un concetto di prevenzione dinamico, integrato e globale (vertente anche e soprattutto su aspetti gestionali della sicurezza) è giunta ad investire questioni di carattere organizzativo e di gestione del rapporto di lavoro.

Per una efficacia preventiva reale ed effettiva, è opinione unanime in dottrina e giurisprudenza, il contenuto dell’art. 2087 c.c. deve essere integrato con le disposizioni del “Testo Unico” 81/2008, con altre norme speciali (tendenzialmente afferenti a rischi specifici) e con ogni altro elemento individuabile secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica (anche di buona organizzazione) di un dato momento socio-economico- culturale. Il D.Lgs. n. 81/2008, all’art. 15 12, prevede un elenco di misure generali di tutela che il datore è tenuto ad adottare in tutti i settori di attività privati e pubblici e che devono essere garantite a tutte le lavoratrici e i lavoratori - tenendo conto delle anche delle diversità soggettive - a prescindere dal rischio particolare al quale possono essere esposti nello svolgimento della prestazione lavorativa.

Deve essere chiaro, tuttavia, che il semplice e pedissequo rispetto delle stesse disposizioni potrebbe non essere sufficiente né in termini di effettiva tutela né in termini di esonero dalla responsabilità del datore di lavoro, allorquando le caratteristiche del lavoro specifico, l’esperienza e gli accorgimenti tecnici e di buona organizzazione diffusi e possibili, suggeriscano altre e ulteriori misure. La prima e più importante misura generale di tutela, che costituisce l’antecedente logico di tutte le altre, è il documento di valutazione dei rischi e la presupposta valutazione degli stessi.

A voler tentare una sintetizzazione del processo di valutazione e gestione dei rischi, possiamo individuare i seguenti passaggi13:

? individuazione delle sorgenti di pericolo con la finalità di individuare gli elementi in grado di causare un effetto avverso (mediante monitoraggio ambientale e/o biologico e sorveglianza sanitaria) e di definire la gravità delle conseguenze e la possibilità di esposizione.

Particolare cura viene data alla determinazione dell’esposizione delle lavoratrici e dei lavoratori suscettibili;

individuazione dei soggetti esposti che mira ad identificare i soggetti che potranno essere esposti ad un particolare pericolo, tenendo conto delle differenze di sesso, età, etnia...;

in questo modo si caratterizza il personale permettendo di individuare coloro che possiedono le caratteristiche fisiche-psicologiche adatte (mediante visita medica);

? declinazione delle priorità dei rischi in base ai risultati delle due fasi precedenti che vengono poi combinate per produrre una stima del rischio (Risk Assessment). In questo modo si è in grado di stilare una classifica in base a cui si stabilisce l’ordine di priorità degli interventi da eseguire;

? scelta degli interventi in base alle priorità stabilite in precedenza, alle informazioni che si possono acquisite dalle esperienze passate o dalla bibliografia e alle informazioni relative al luogo oggetto della valutazione. Gli interventi scelti devono essere efficaci, efficienti e adatti al contesto in cui devono essere applicati, facendo anche una valutazione costo-beneficio. Si devono preferire interventi alla fonte del pericolo, alle misure collettive, che comunque sono preferibili alle misure individuali;

? attuazione delle misure di controllo sugli interventi (una volta messi in pratica), per controllare periodicamente la loro effettiva funzionalità, con controlli statistici, ambientali, biologici, ecc. Il controllo è migliore se programmato e descritto, così da poter poi verificare la necessità di eventuali modifiche;

? valutazione dell’efficacia dell’intervento (una volta acquisiti i dati relativi ai controlli), per discutere della loro efficacia ed efficienza così da poter prendere in considerazione eventuali miglioramenti o altri accorgimenti da prendere. Nel caso di cambiamenti interni, è necessario valutare se gli interventi che erano stati attuati inizialmente, siano ancora efficaci con le nuove modifiche. In tema di “rischi da differenze”, come visto in precedenza, il “Testo Unico” 81/2008, per la verità, ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo: ha introdotta una concezione di salute e sicurezza del lavoro in grado di considerare le “differenze” (in generale e di genere, in particolare) in relazione alla valutazione del rischio e alla predisposizione delle misure di prevenzione.

L’art. 28, al comma 1, infatti, stabilisce che, “La valutazione dei rischi, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o delle miscele chimiche impiegate, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari ... nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età… “14 .

La norma, di fatto, parte dall’assunto che, la probabilità che si produca un’alterazione dello stato di salute psico-fisico sulla persona del “lavoratore” (neutro) non dipende solo dalla natura e dall’entità dell’esposizione ai rischi ma anche dalle condizioni soggettive di reattività (a quei rischi) da parte degli esposti. Partendo da questo presupposto, la stessa norma individua categorie di lavoratori che possono essere maggiormente considerati suscettibili ai rischi lavorativi, sulla base di alcuni fattori quali l’età, il sesso, l’origine etnica, la posizione contrattuale e le disabilità. Oltre a questi fattori, la disposizione considera anche gli aspetti organizzativi associati allo svolgimento dell’attività lavorativa, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui quelli collegati allo stress lavoro- correlato.

Nonostante il dato normativo stabilisca un orientamento “anche di genere”15 (e comunque orientato alle differenze) della tutela della salute nei luoghi di lavoro, non si rintracciano indicazioni chiare in merito alle modalità di valutazione dei rischi “secondo un criterio di genere” (o secondo criteri di diversità) e mancano riferimenti a metodi standardizzati o rinvii e richiami in tal senso (al contrario dello stress lavoro - correlato). Si continua ad avere basi, anche normative, neutre”16. Si avverte, perciò, l’esigenza di trovare dei sistemi che consentano ai datori di lavoro di avere una diversa consapevolezza dell’organizzazione della propria azienda in termini di salute e benessere delle lavoratrici e dei lavoratori, che è il primo passo per una valutazione del rischio che comprenda anche i cosiddetti “nuovi rischi” ovvero connessi al genere, all’età, alla provenienza geografica e alla tipologia contrattuale.

Fattori questi che presuppongono sicuramente un’analisi attenta della composizione delle risorse umane, almeno per le grandi aziende, e la verifica di situazioni di rischio/disagio che possono andare al di là di quelle tradizionalmente conosciute. Il sistema di autodiagnosi (questa è, fondamentalmente, la valutazione dei rischi) mette in condizione il datore di lavoro di verificare se il proprio sistema di gestione della sicurezza e, comunque, la propria organizzazione del lavoro garantisca equità non solo rispetto al genere ma anche agli altri fattori di diversità. Infatti, sempre più spesso questi “rischi”, che si esprimono come fattori di discriminazione, si presentano non come unici, ma come multipli, andando a colpire per più versi la stessa persona.17

Pensiamo all’invecchiamento della forza lavoro che è una delle sfide principali delle economie industrializzate di questo momento socio-economico. Si tratta di un radicale cambiamento che non solo induce i governi a rivedere e riprogettare le dinamiche nel mercato del lavoro, la crescita economica e i sistemi di welfare europei ma che, inevitabilmente, deve e dovrà sempre più interessare le dinamiche organizzative aziendali, che dovranno considerare sempre di più il fattore età nei modelli di produzione e organizzazione del lavoro, nel rinnovamento di ambienti, nella ritaratura di tempi e metodi di lavoro; che dovranno fare politiche interne di turn over e soprattutto che dovranno riconsiderare e ri-misurare gli impatti di quella organizzazione di lavoro sulla salute e sicurezza delle persone che lavorano, anche facendo emergere nuovi rischi, nuovi aspetti e nuove ipotesi di tutela preventiva e protettiva.

Un altro aspetto tipico di rischio da “differenza” è il “rischio” segregazione, che definisce l’occupazione non in base alle attitudini dell’individuo, bensì al sesso di appartenenza. Va detto che la segregazione orizzontale (e, quindi, la questione dell’accesso ad alcuni lavori), seppur importante, non riguarda specificatamente e direttamente la questione della SSL. Viceversa, la questione della segregazione verticale, vi entra direttamente: parliamo di situazioni che registrano una suddivisione di compiti all’interno di uno stesso settore di attività tale per cui le mansioni affidate alle donne differiscano da quelle affidate agli uomini, con le donne maggiormente presenti in occupazioni precarie, ruoli subordinati e con retribuzione inferiore a quella maschile.

Inoltre, nonostante la spinta positiva data dalla rinuncia - da parte delle donne - al “lavoro di cura in ambito familiare non retribuito” a favore di un “lavoro retribuito esterno all’ambito familiare”, si registra (nella realtà fattuale, sociale e familiare) una nuova modalità discriminatoria (se possibile, ancor più patologica) del sistema: da un lato si è parzialmente re-distribuito il carico familiare tra uomo e donna, dall’altro - però - la lentezza tipica degli scatti culturali ha fatto emergere “nuove” e “diverse” disparità nelle relazioni di potere sui luoghi di lavoro e nella sottoesposizione ai diversi rischi professionali tra cui, primo tra tutti, quello stress lavoro-correlato. Innegabilmente, la discriminazione/segregazione comporta, oltre alla discriminazione in sé per sè, anche un’esposizione diversa ai rischi lavorativi (per tipologia, intensità e durata), tali per cui, nella maggioranza dei casi, il lavoro femminile è caratterizzato da azioni ripetitive, monotone, con uno sforzo statico e responsabilità multiple (dentro e fuori dal lavoro) che minacciano sia la salute fisica che quella mentale (malattie muscolo-scheletriche, disturbi mentali/depressione, asma).

A ciò deve sommarsi il dato di fatto che spazi, equipaggiamenti, attrezzature e i ritmi di lavoro derivano da un’organizzazione del lavoro creata per una popolazione maschile, peraltro corrispondente a un uomo medio. Infine, ma non da ultimo, va considerato che - con riferimento alle problematiche specificatamente femminili (aborti spontanei, nascita pre-termine, ridotta fertilità, endometriosi) - è stata dimostrata una correlazione con l’esposizione a fattori di rischio occupazionali e ambientali. A ciò e in più, si continuano a sommare le molestie (sessuali e non) e le discriminazioni per status familiare che, ancora, continuano a vedere come principali destinatarie le donne.

Sempre in tema di compresenza di fattori discriminanti multipli, leggendo le disposizioni, rintracciamo quelle forme di discriminazione diretta o indiretta in ragione della situazione familiare e dei carichi: pensiamo ad una lavoratrice madre o a un lavoratore padre (ma vi potremmo aggiungere lavoratori che debbano occuparsi di genitori anziani o congiunti malati) che devono conciliare gli impegni familiari con quelli professionali. Sono ipotesi, queste collegate allo status familiare, che pongono difronte alla necessaria considerazione di diversi e ulteriori rischi psico-sociali (anche da stress) che vanno valutati, che discendono dal tipico lavoro domestico e di cura familiare (peraltro, ancora un po’ sbilanciato tra il genere femminile e maschile) e che creano - a scapito di chi li vive (uomo o donna che sia) - un doppio carico lavorativo che, in Italia, innegabilmente sopperisce anche all’assenza di un idoneo sistema di welfare. A tale proposito, senza voler scomodare posizioni rigide di genere, poi, non possiamo fingere di non sapere che soprattutto le donne appartenenti alle precedenti generazioni lavorative (oggi ancora a lavoro per effetto della Riforma Fornero), sono donne dall’alto rischio di discriminazione multipla (genere, età, status familiare/ stress): hanno rischiato la segregazione in passato perché hanno cresciuto i figli e rischiano la segregazione oggi perché accudiscono gli anziani. E non parliamo di pericoli astratti, soprattutto in ambiti professionali ordinari e non di “nicchia”. Si assiste, perciò, a un costante e perenne “doppio lavoro” con tutti i rischi che ne conseguono. Ovviamente, a modello sociale mutato, nella medesima situazione può o potrà trovarsi un uomo. Sicché, quando le richieste lavorative eccedono le capacità individuali di risoluzione, lo squilibrio avvertito dal lavoratore/lavoratrice può generare ed enfatizzare il rischio stress lavoro-correlato, che - a sua volta - può indurre uno stato di malattia sia psichico che fisio-patologico.

Una volta raccolte le informazioni, vanno analizzate per verificare e misurare il livello di tutela e di equità/discriminazione presente e, dunque, per valutare se e quali azioni correttive porre in essere, ricavabili dalla scienza, dalla tecnica, dall’esperienza e dalla buona tecnica organizzativa applicata alla SSL anche in ottica di differenze apprezzabili.

E allora, come garantire l’integrità psico-fisica delle risorse umane (anche in considerazione delle diversità) e come contrastare le discriminazioni-molestie-ritorsioni sui luoghi di lavoro? Attraverso una adeguata ed efficace buona tecnica organizzativa, applicata alla materia della SSL, anche in ottica di diversità. In una parola, dovranno essere attuate politiche aziendali di “benessere organizzativo”.

L’attenzione, perciò, in termini preventivi, deve spostarsi sulla organizzazione e sulla sua salute. Vediamo in che modo e perché. Per comprendere il concetto di benessere organizzativo, nella sua peculiare caratteristica, è necessario comprendere il collegamento tra due aspetti solo apparentemente lontani tra loro: da un lato, la tutela della salute e sicurezza dei singoli (per il tramite del benessere organizzativo), dall’altro, la “salubrità” e “sicurezza” collettiva di tutto il contesto lavorativo. La relazione che intercorre tra il benessere delle lavoratrici e dei lavoratori e l’organizzazione del lavoro è un aspetto valorizzato dal D. Lgs. 81/2008 in poi (seppur, all’interno del “Testo Unico” manca una nozione giuridica di “benessere organizzativo”) e le varie definizioni riportate (es. quelle di lavoratore, datore di lavoro, dirigente) concorrono a individuare l’organizzazione non solo in un puro e semplice contesto fisico e spaziale, ma anche nell’insieme delle regole e dei processi, nel cui ambito il lavoratore effettua la sua prestazione e che, in quanto tale, costituisce anche la sua più immediata fonte di rischio.

Posta in questi termini, l’organizzazione (nel senso, appunto, anche di lavoro organizzato) assume una incidenza determinante rispetto alla salute delle lavoratrici e dei lavoratori; pertanto, essa stessa deve caratterizzarsi per essere salubre e sicura. Parliamo, infatti, di “salute organizzativa”. Benessere organizzativo e salute organizzativa sono, dunque, due aspetti di un unico fenomeno. Il benessere organizzativo - e in esso il modello di equità e pari opportunità - è l’obiettivo da perseguire concretamente o, quantomeno, verso il quale tendere: in questo senso, non può sottacersi, che il benessere organizzativo - anche in termini di equità e pari opportunità - sarà il risultato della capacità dell’organizzazione (e quindi del datore di lavoro e del suo staff) di promuovere e mantenere il benessere fisico, psicologico e sociale delle lavoratrici e dei lavoratori per tutti i livelli e per tutti i ruoli. Per tale ragione, il benessere organizzativo attiene non solo alla “effettiva situazione” di lavoro ma anche e soprattutto alla “percezione” che di essa ha la popolazione delle lavoratrici e dei lavoratori: infatti, quanto più una persona sente di appartenere all’organizzazione, quanto più ne conosce e condividete i valori, le politiche, le pratiche, i linguaggi, tanto più trova motivazione e significato nel suo lavoro. Tanto più produce. Questo risultato (in termini di “senso di appartenenza”) può essere raggiunto solo da strutture il cui “clima interno” sia sereno e partecipativo, la cui popolazione sia soddisfatta e abbia un buon grado di soddisfazione personale e di riconoscimento e valorizzazione delle proprie specificità e del proprio apporto, tanto da rendere quelle realtà anche più efficienti in termini di performances e di legalità.

Ecco come, aspetti apparentemente lontani dalla esecuzione quali-quantitativa della prestazione - quali il rispetto della diversità, la libertà di espressione della propria peculiare personalità, la conciliazione lavoro-vita privata, la motivazione, la collaborazione, il coinvolgimento, la corretta circolazione delle informazioni, la flessibilità e la fiducia delle persone - divengono elementi dalla duplice valenza: migliorano la salute mentale e fisica dei lavoratori ed enfatizzano la soddisfazione dei clienti e degli utenti e, quindi, aumentano la produttività.

Dovendo guardare alla gestione all’interno della singola struttura organizzata, non possiamo non ritenere che il processo di valutazione e quello successivo della elaborazione delle misure (collettive e individuali) di gestione degli esiti/effetti (azioni preventive e/o di miglioramento) va gestito in modo competente e certamente multidisciplinare, anche tramite l’ausilio di metodologie ad hoc, ad esempio tramite la creazione di buone pratiche, e ancor di più tramite l’allargamento soggettivo delle figure professionali di cui il datore di lavoro può avvalersi. Sarebbe auspicabile, l’utilizzo di figure specificamente formate e addestrate all’utilizzo dei diversi strumenti di indagine, di carattere oggettivo (es. politiche di gestione delle risorse umane, pianificazione programmazione e controllo ad esempio degli obiettivi) e soggettivo (es. per tramite sociologi e psicologi del lavoro, esperti in pratiche motivazionali).

E allora, come predisporre un buon piano di prevenzione e gestione del rischio discriminazioni/molestie/ritorsioni?

La risposta, come per tutta la materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, non può che venire dall’esame della singola realtà fattuale. Per quanto riguarda i rischi per la “salute fisica”, le soluzioni più adeguate saranno trovate - anche con l’aiuto del medico competente e del RSPP, ma anche con il supporto collaborativo del RLS - in ragione degli specifici rischi lavorativi, come emersi nella loro super specificità in ragione dei differenziali valutati.

Sicchè, potremmo avere una differente calendarizzazione delle visite periodiche; la previsione di una particolare assistenza medica specialistica al medico competente;

prescrizioni o limitazioni particolari;

differenti DPI (dispositivi di protezione individuale);

sostituzione di sostanze;

formazione e informazione adeguate (pensiamo, alla formazione in lingua madre per un lavoratore di provenienza diversa rispetto alla generalità dei lavoratori di quella struttura); ecc.

Per quanto attiene, invece, ai rischi che incidono sulla “salute psico- sociale” e per prevenire le fonti di “discriminazione” - rispetto ai quali gioca un ruolo fondamentale la funzione consultiva ma soprattutto propulsiva del RLS - si dovranno privilegiare le misure collettive su quelle individuali, anche specifiche per singola fonte o gruppi di fonti di rischio (es. genere, status familiare, provenienza geografica, tipologia contrattuale); si potrà attuare una vera e propria politica “anti-discriminazione” dell’organizzazione in generale che, però, ad onor del vero, andrebbe integrata (e incentivata) da politiche di formazione e “educazione” alla equità e rispetto della diversità della popolazione lavorativa. A voler tracciare un minimo di demarcazione tra le misure collettive e quelle individuali di prevenzione del rischio “discriminazione”, diremo che:

? le misure collettive avranno la funzione di evitare situazioni di incertezza e di disparità di trattamento generalizzate, che a loro volta generano discriminazioni e tenderanno al miglioramento della comunicazione, della trasparenza e obiettività delle decisioni, degli aspetti gestionali (definendo con chiarezza obiettivi, ruoli), delle condizioni ambientali (sia dal punto di vista fisico che organizzativo), ad accrescere il livello di responsabilità e di controllo sul lavoro. Tra le misure collettive, troviamo i Codici di condotta e codici etici, che sono strumenti di auto-normazione utilizzati sia nel lavoro privato che in quello pubblico. Possono essere di adozione spontanea o previsti dalla legge; si osserva, tuttavia, che risultano inefficaci senza modalità e soggetti di attuazione quali i consiglieri di fiducia. A tale proposito, è il caso di prevedere un organo di vigilanza diverso da quello dei responsabili (o delle responsabili) delle strutture e degli uffici (visto che, in ipotesi, potrebbero essere proprio questi i molestatori); In questi casi, specie in aziende strutturate, dovrebbero essere inseriti e previsti i Comitati, che nelle ipotizzate violazioni del Codice di Condotta, facciano proposte finalizzate alla soluzione del caso e, qualora individuino responsabilità da parte di singoli o di gruppi, segnalino il caso al titolare del potere disciplinare. Il D.Lgs 81/2008 fa espresso riferimento, in più norme, ai codici etici e all’impresa socialmente etica quali strumenti di prevenzione: all’art.6 - Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, che ha tra i suoi compiti: h) valorizzare sia gli accordi sindacali sia i codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria che, in considerazione delle specificità dei settori produttivi di riferimento, orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente; all’art. 15.- Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono….. t) la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, anche attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi; all’art. 35, per il quale, nelle aziende e nelle unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, il datore di lavoro, direttamente o tramite il servizio di prevenzione e protezione dai rischi, indice almeno una

volta all’anno una riunione… nel corso della quale possono essere individuati: a) codici di comportamento e buone prassi per prevenire i rischi di infortuni e di malattie professionali;

? le misure individuali, invece, avranno la funzione principale di raggiungere la singola/il singolo lavoratore interessato per migliorarne la consapevolezza percezione individuale del rispetto della sua diversità (cioè della percezione soggettiva del problema), attraverso soprattutto la formazione a saper riconoscere e gestire le potenziali fonti di rischio e i campanelli di allarme del trattamento non equo; altro strumento sono interventi di tipo individuale per evitare che i lavoratori interessati si trovino impreparati e soli ad affrontare le discriminazioni, le molestie e, perciò, ad esempio, si potrà lavorare  anche sul miglioramento delle relazioni intercorrenti sul lavoro tra i lavoratori e le lavoratrici tra loro e tra essi e le funzioni gerarchicamente sovra-ordinate, sino alla direzione.

 

III. Conclusioni

Le radici giuridiche del tema delle “differenze” sono da rintracciarsi nell’evoluzione del concetto di uguaglianza e delle sue innumerevoli sfaccettature in un concetto di equità. Ogni diritto delle lavoratrici e dei lavoratori può essere letto e interpretato come strumento per garantirgli l’eguaglianza sostanziale, l’equità, espressa dal 2° comma dell’art. 3 della Costituzione, e come norma programmatica (indirizzata a chi di volta in volta entra in contatto con quel diritto) per rimuovere gli ostacoli, economici e sociali, che impediscono il suo pieno sviluppo e la sua effettiva partecipazione all’organizzazione del Paese. Infondo, come ci ricorda l’art. 4 della Costituzione, ogni cittadino ha anche il “… dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità

e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Sicchè, è evidente, il nostro sistema giuridico non conosce posizioni neutre. Al contrario, riconosce e tutela la diversità. Trattare della dimensione collettiva della salute e sicurezza del lavoro oggi, anche in una ottica di genere e di diversità, però, non può riferirsi più e solo alle questioni - seppur di elevata importanza - attinenti alla rappresentanza dei lavoratori “diversi” in azienda e alla tutela intra-aziendale dalle discriminazioni/molestie/ritorsioni. Questo sarebbe riduttivo e, forse, in parte insufficiente a raggiungere compiutamente lo scopo.

La dimensione collettiva della salute e sicurezza del lavoro in ottica di diversità, per essere al passo con le mutate condizioni del lavoro e con le “nuove” esigenze di tutela, deve rivolgere uno sguardo sempre più diretto alla materia della contrattazione, poiché questa può incidere sensibilmente sulle politiche della prevenzione e sulla effettività ed efficacia delle stesse. In questo senso, potremmo sostenere, si realizza una rappresentanza collettiva per la tutela del benessere delle lavoratrici e dei lavoratori, diversa e ulteriore rispetto a quella che si esercita nei luoghi di lavoro e che può offrire ad essa notevole sostegno. Notevole sostegno, perché può anticiparla.

Infatti, a ben guardare, nella tutela della salute e sicurezza del lavoro, gli spazi per la contrattazione non sono certamente ridotti, soprattutto là dove si consideri che la salute e sicurezza del lavoro (anche rispetto alle “diversità”) è un “valore” oltre che “materia in senso tecnico” e, perciò, rappresenta una materia trasversale.

Vanno, dunque, considerati due ambiti di incidenza della contrattazione sulla salute e sicurezza del lavoro: gli ambiti direttamente ricadenti nelle questioni regolamentate dalla disciplina prevenzionale e gli ambiti che - seppur  apparentemente “estranei” alla prevenzione intesa in senso tecnico

- su quella incidono inevitabilmente.

In particolare, per quanto attiene agli ambiti in cui la contrattazione incide in maniera diretta sulle materie strettamente “prevenzionali”, non possono trascurarsi ulteriori spazi di azione per il sindacato, come la pianificazione concordata, soprattutto a livello aziendale, di investimenti in prevenzione, oppure la definizione di protocolli, di modalità e strumenti per affrontare e gestire al meglio rischi e patologie nuove, come lo stress lavoro correlato; oppure, ancora, l’elaborazione di modalità e percorsi mirati di inserimento e/o di supporto per alcune categorie di lavoratori particolarmente a rischio discriminazione. Per quanto attiene, invece, al secondo aspetto evidenziato, innegabilmente la contrattazione collettiva gioca un ruolo decisivo anche quando non si occupa direttamente di temi strettamente prevenzionali.

Ci è sufficiente pensare alle volte in cui la contrattazione si occupa di tematiche legate all’organizzazione del lavoro, alla regolamentazione dell’orario, alla mobilità del personale, alle forme flessibili e/o dislocate di prestazione per la conciliazione lavoro vita privata, alle previsioni in materia di progressioni di carriera, alla valutazione delle performances individuali, ai piani di formazione dei lavoratori. A tale ultimo proposito, risulterebbe utile investire nella formazione in termini di “diversità” (non solo di genere) degli addetti ai lavori e delle figure del sistema aziendale e dell’organigramma della prevenzione: la formazione, infatti, è un importante leva strategica di medio periodo, in grado di incidere sulla scala valoriale e sui comportamenti di una collettività.

Una formazione tanto più incisiva quanto più capace di coinvolgere anche della componente sindacale e collettiva, anche per fornire gli strumenti tecnici e metodologici per agire nella contrattazione dell’organizzazione del lavoro, degli orari, della salute e sicurezza e, a cascata, nella contrattazione di secondo livello, in modo non più neutro. Inoltre, bisognerebbe dare continuità all’azione sindacale nei luoghi di lavoro e nel territorio, affinché la prevenzione, la tutela della salute e i diritti del lavoro (che non possono sintetizzarsi nella mera opportunità di averne uno e a qualsivoglia condizione) tornino al centro delle politiche pubbliche e dell’azione politico-sindacale.

Infine, non da ultimo, sarebbe necessario provare a ridurre la discriminazione/segregazione orizzontale e verticale nei luoghi di lavoro, anche attraverso la scelta e il ruolo dei RLS (rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza), in cui deve essere favorita la presenza femminile e di appartenenti ad altre “diversità” (es. componente fattore età, fattore tipologia contrattuale, fattore provenienza da altri Paesi) non solo e in termini banali di “quota di presenza”, bensì in termini sostanziali di apporto di una “diversa” consapevolezza e sensibilità e di un “diverso” approccio. Sicché, molto possiamo fare per appianare le ingiustificate differenze di tutela e recuperare il valore della diversità.

E la prevenzione non conosce deroghe: se possiamo, dobbiamo.

 

1 A queste finalità, possono rispondere modelli di SGSL già esistenti e collaudati, integrati con il rischio discriminazione/molestia/ritorsione.

2 L’espressione “diversity management” è apparsa per la prima volta nel 1987 contenuta all’interno di una trattazione riferita allo studio di previsione per il nuovo millennio sugli scenari lavorativi nel territorio statunitense. Gli autori William B. Johnston e Arnold E. Packer pubblicarono le proprie riflessioni in materia nel testo Workforce 2000: Work and Workers for the 21st century. Secondo il loro parere i cambiamenti economici e sociali in atto negli ultimi decenni del Novecento avrebbero modificato irreversibilmente il mercato del lavoro, a partire dalla trasformazione della forza lavoro americana. Il lavoratore tipico maschio-bianco-etero nel nuovo millennio avrebbe costituito soltanto una minoranza della forza-lavoro, rispetto ad una maggioranza resa molto più variegata per genere, origini culturali, orientamento sessuale, età e nazionalità. Gestire la differenza all’interno dell’ambiente lavorativo tramite delle misure di intervento mirato risultava essere così per gli autori una possibile risposta strategica al cambiamento in atto dal quale poterne trarre vantaggi competitivi per l’intera organizzazione.

3 Come osservato dal MONTUSCHI, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, con la rivoluzione “culturale” operaia della fine degli anni ’60 arriviamo ad “una sensazionale rivolta contro quelle statiche e sonnolenti interpretazioni della normativa” di sicurezza, grazie alla quale “all’oggettività del modo di produrre (che in realtà è soggettività padronale connessa alla legge del profitto) si contrappone così polemicamente la soggettività operaia, il giudizio dei lavoratori circa la tollerabilità delle condizioni nelle quali sono chiamati ad adempiere la loro obbligazione”.

4 In tal senso, a proposito dell’art. 41 Cost., BIANCHI D’ URSO, Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di lavoro, testualmente: “…Il quale, per un verso, consacra ed esalta la liberà dell’iniziativa economica privata e, per un altro, ribadisce con fermezza i confini esterni del suo esercizio con riguardo ai valori di libertà, dignità e sicurezza. Si potrebbe allora affermare che, mentre la linea compromissoria – quella tendente a considerare l’opportunità di un contemperamento tra i valori configgenti in cui l’interesse dell’impresa esca al più condizionato, ma non subordinato ai controinteressi – appartiene al passato, l’altra prospettiva – quella volta a realizzare una rivoluzione copernicana nella dialettica tra i valori di cui all’ art. 41 Cost. – guarda al futuro”.

5 L’Organizzazione Mondiale della Sanità ufficialmente attiva e operante dal 1948, definì così la salute, già nel suo atto costitutivo del 1946, (Constitution of WHO, 1946-1948). Questa nozione è stata trasfusa quasi pedissequamente nell’art. 2, comma 1, lett. o, del d.lgs. n. 81/2008 nel quale si prevede che la salute è lo «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità».

6 Così, testualmente, la Raccomandazione del 1959 dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO).

7 Nel 1978, in occasione della Conferenza sull’assistenza sanitaria primaria di Alma Ata, l’OMS ribadì questo concetto primo punto della Dichiarazione. Declarationof

8 Alma Ata, 1978.  8 A tal proposito, nella Carta di Ottawa del 1986 (WHO, 1986), si afferma che per raggiungere uno stato di completo benessere “un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte (…). La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere (…). La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche”.

Il principio di adeguatezza opera tanto sul lato soggettivo (delle decisioni e dei comportamenti dei soggetti) quanto su quello oggettivo degli strumenti di tutela e prevede che il sistema di prevenzione (in termini di organigramma e di misure di tutela) adottato in una determinata realtà organizzativa debba essere congruo rispetto a quella specifica situazione e alla natura ed entità dei rischi valutati; questo esclude che possa esistere un sistema di prevenzione astrattamente valido per ogni realtà, seppur individuate per fasce analoghe di rischio, bensì suggerisce l’adozione e l’efficace attuazione di un sistema che abbia come presupposto i rischi valutati in quella specifica organizzazione sui quali, in termini di eliminazione o riduzione al minimo, sia in grado di intervenire efficacemente. Il principio di adeguatezza, evidentemente, è consequenziale al decisivo cambio di rotta dell’approccio normativo e gestionale alla prevenzione: si è passati, infatti, da un meccanismo di stretta regolamentazione (attraverso norme specifiche e altamente tecniche), in cui l’adempimento coincideva con il pedissequo e formale adeguamento a norma, ad un meccanismo di autoregolamentazione (attraverso norme generali, integrate dalle misure tecnico-organizzative ritenute idonee) che vede nella valutazione dei rischi il perno del sistema di tutela e in cui l’adempimento coincide con l’elaborazione, l’adozione e l’efficace attuazione proprio di un sistema adeguato a quei rischi valutati.

10 ll datore di lavoro pubblico e privato, si può (se necessario, si deve, in caso di struttura organizzata complessa della PA) avvalere, per organizzare la sicurezza, di una pluralità di soggetti. Le figure del sistema di prevenzione di cui si avvale il datore di lavoro sono suddivise in due distinte tipologie a seconda del ruolo, e dunque delle responsabilità, che hanno in ambito prevenzionale.

Posto il datore di lavoro al vertice della struttura (e del sistema di sicurezza), abbiamo:

? una linea operativa, nella quale troviamo l’eventuale delegato, il dirigente, il preposto e il lavoratore;

? e una linea consultiva, dove oltre alle figure del servizio di prevenzione e protezione, dalla funzione prevalentemente tecnica (composto da RSPP - responsabile del servizio di prevenzione e protezione e addetti), abbiamo il medico competente - MC, con funzione di consulenza e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza - RLS, che garantisce l’esigenza di massima partecipazione e condivisione possibile delle scelte organizzative in ambito prevenzionale.

A questi soggetti, possono aggiungersi (se chiamati a collaborare dal datore di lavoro) i progettisti (dei luoghi di lavoro, dei posti di lavoro e degli impianti), i fornitori di attrezzature di lavoro e di dispositivi di protezione individuali ed impianti, gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro e altri mezzi tecnici. Poiché l’organizzazione della sicurezza, per essere adeguata e dunque efficace, deve essere compiuta e modulare, la stessa va adeguatamente elaborata dal datore di lavoro (avvalendosi della linea consultiva), in base ai principi della buona tecnica organizzativa applicata alla sicurezza sul lavoro. In tal senso, specie con riferimento ai c.d. “nuovi rischi” (es. lo stress lavoro correlato), il datore di lavoro potrebbe essere efficacemente assistito anche dalla Funzione interna specializzata nella programmazione e controllo delle attività e nella gestione delle risorse umane. Il principale “luogo” e “momento” di dialogo tra le figure del sistema di sicurezza è la riunione periodica, che rappresenta un momento estremamente importante oltre che un efficace strumento per programmare gli interventi di prevenzione e protezione da attuare.

11 Da intendersi, tanto il Codice delle Pari Opportunità come novellato dal D. Lgs. 5/2010 (art. 25, commi 1,2, 2 bis; art. 26, commi 1,2, 2 bis e 3, Codice PO) quanto il combinato disposto dei Decreti Legislativi nn. 215 (art. 2, comma 1, comma 1 lett. a, b e art. 2, commi 3 e 4) e 216 del 2003 (art. 2, comma 14, comma 1 lett a, b, art. 2 commi 3 e 4) per andare oltre la questione meramente di genere.

12 Le misure generali individuate dal “Testo Unico” 81/2008 sono:

? il documento di valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza possibili;

? l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico;

? la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso;

? il controllo sanitario di idoneità al lavoro per ciascun dipendente;

? l’informazione e formazione adeguate per tutti i soggetti operanti in azienda: lavoratori, datore di lavoro, addetti al servizio di prevenzione e protezione, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;

? la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, anche attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi;

? la definizione delle misure di emergenza da attuare in caso di primo soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori e di pericolo grave e immediato;

? la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti;

? l’utilizzo corretto da parte dei lavoratori degli attrezzi, dei macchinari di lavoro e degli strumenti di sicurezza a loro disposizione.

13 Linee guida OSHA - Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (European Agency for Safety and Health at Work).

14 In merito, Salute e Sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere, Quaderno Tematico della Rivista degli infortuni e delle malattie professionali, Volume 4, Inail, 2013.

15 Peraltro, anche l’Europa riserva attenzione alle questioni di genere nel contesto lavorativo; ricordiamo, La “Strategia comunitaria per la SSL (2002)” introduce il tema della differenza di genere; Il “Piano strategico Comunitario 2007- 2012” conferma che “per migliorare l’attitudine occupazionale delle donne e degli uomini e la qualità della vita professionale, occorre fare progressi nel settore della parità tra i sessi in quanto le disparità, sia all’interno che all’esterno del mondo del lavoro, possono avere conseguenze sulla sicurezza e la salute delle donne sul luogo di lavoro”.

16 Un esempio classico è quello relativo agli effetti diversi (osservati dalla medicina di genere) che si producono a (parità di esposizione) su esposti ai rischi “specifici” - chimico, fisico, biologico, ergonomico, e di sovraccarico muscolo-scheletrico: tra uomini e donne esistono numerose differenze nell’assorbimento, nel metabolismo e nell’eliminazione degli agenti chimici che, a parità di esposizione, possono modificare il rapporto “soglia di esposizione” ritenuta accettabile. Tuttavia, i limiti espositivi previsti dalla norma sono tuttora elaborati in modalità “neutra.

17 In merito, Salute e sicurezza sul lavoro, una questione anche di genere INTEGRAZIONE DI GENERE DELLE LINEE GUIDA PER UN SGSL. Quaderno della Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali, Direttore editoriale, Massimo De Felice Direttore responsabile, Marco Stancati. Il Quaderno è a cura di Paola Conti e Antonella Ninci.

 

 

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