Quello che ci manca è un rinnovato impegno politico. L´indagine del Rapporto Censis
FEBBRAIO 2018
Società
Quello che ci manca è un rinnovato impegno politico. L´indagine del Rapporto Censis
di   Piero Nenci

 

 

La ripresa c’è e l’industria va, ma l’Italia non ha ancora risolto tutti i suoi problemi. Nell’ultimo decennio sono sparite più di 100 mila aziende del comparto manifatturiero, si sono volatilizzate più di 800 mila unità di lavoro e il valore della produzione si è contratto per 32,5 miliardi di euro, cioè del 12,4%. Nell’ultimo anno tuttavia la discesa si è rallentata fino quasi a fermarsi, ha continuato a macinare quasi solo le microimprese. Stando ai dati del primo trimestre 2017 l’Italia è popolata da un milione 260 mila aziende, il 40% delle quali hanno carattere manifatturiero e quasi il 70% di loro operano in quattro importanti settori del made in Italy: 61 mila 890 in quello alimentare e bevande, quasi 94 mila nell’abbigliamento/moda, 28 nell’arredamento casa e 151 mila 669 nell’automazione e meccanica. Il rallentamento della discesa ha cominciato a concretizzarsi dal 2015 con una crescita costante culminata nel primo semestre 2017 con una variazione positiva del 2,3%: la performance migliore tra i maggiori Paesi europei, sottolinea il Censis.
 
Come si spiega questa resuscitazione? Intanto si spiega con le politiche  monetarie espansive europee ma il ruolo più forte le è stato impresso da un “inatteso recupero di efficienza del nostro sistema manifatturiero”; la crisi ha mandato fuori mercato le aziende più piccole e più deboli, incapaci di far fronte alle sfide delle innovazioni e dell’internazionalizzazione e questo ha favorito un innalzamento della competitività e delle performance medie delle imprese nel loro complesso. Clima favorevole anche sotto il profilo del valore in borsa, anche se il rapporto tra capitalizzazione e pil – tutt’ora sotto il 40% - è ancora lontano da quanto si è verificato nel contesto internazionale dove i valori complessivi di borsa hanno ormai raggiunto il valore del pil mondiale, riproponendo la situazione anticrisi del 2007. Un’altra caratteristica delle nostre imprese è stata la rapidità con la quale hanno ripreso quota; secondo un’indagine del Financial Times il 18,6% delle imprese europee che sono risalite più rapidamente sono proprio quelle nostrane, ora al terzo posto dopo quelle tedesche ed inglesi. In base a queste osservazioni – osserva il Censis – è possibile dire che la nostra economia produttiva è più in luce che in ombra.
 
E tuttavia, siccome i ritmi di crescita potrebbero subire nuove accelerazioni, per restare competitivi “occorre un cambio di passo di tutto il sistema: da un lato le aziende, dall’altro i soggetti preposti a supportarne l’azione”. Qualcosa sta già avvenendo: sul piano degli elementi abilitanti al commercio estero abbiamo recuperato varie posizioni: dal 51° posto del 2010 siamo saliti al 36° del 2016. Gli elementi che ancora ci frenano sono le infrastrutture invecchiate e le inefficienze delle istituzioni cui si aggiungono la problematicità dell’accesso ai finanziamenti e la scarsa disponibilità di servizi di trade finance, tema legato ai modi con cui le piccole e medie industrie italiane esportano e si internazionalizzano. L’altro grande settore che ha ripreso a salire è quello dei consumi delle famiglie; anche qui si sono evidenziati segni di ripresa: tra il 2013 e il 2016, la spesa per consumi è cresciuta di 42,4 miliardi di euro, cioè del 4%.
 
Per cambiare l’auto si è speso quasi un 40% in più rispetto agli anni della crisi e per cambiare il vecchio cellulare e passare allo smartphon quasi il 20% in più. Poi la casa: il fatturato del settore immobiliare da 72 è salito ad 89 miliardi. Insomma l’Italia “vive un quieto andare nella ripresa”. Infatti tra il 2014 e 2016 gli italiani hanno speso complessivamente 194 miliardi di euro (+ 4,6%): 80 per ristorazione e vacanze, 29 per cultura e spettacoli, 28,5 per servizi necessari alla casa e alla famiglia e più di 25 per il benessere personale e soggettivo. Tutto bene, allora? Attenti, ammonisce il Censis: sta crescendo anche un elemento non materiale e tuttavia molto corrosivo, il rancore. “Il rancore è di scena da tempo nella nostra società, con esibizioni di volta in volta indirizzate verso l’alto, attraverso i veementi toni dell’antipolitica, o verso il basso, a caccia di indifesi e marginali capri espiatori: dai senza tetto agli immigrati (che stanno distruggendo la razza bianca, come ha affermato un tizio di Milano che vorrebbe farsi eleggere al Parlamento).
 
Il rancore – spiega il Rapporto Censis – è un sentimento che nasce da una condizione strutturale di blocco della mobilità sociale, che nella crisi ha coinvolto pesantemente anche il ceto medio, oltre ai gruppi della parte più bassa della piramide sociale”. Insomma l’ascensore sociale si è fermato e il meccanismo cumulativo delle risorse si è bloccato cristallizzando le energie sociali nell’immobilismo. Il fenomeno si evidenzia drammaticamente quando entrano in gioco i figli, è lì che il meccanismo di ascesa verticale si è visibilmente imbrigliato e rischia addirittura il moto in discesa, la retromarcia sociale: “questo è il clima che genera il rancore”. E le violenze che registriamo, purtroppo, quotidianamente e il rumore che sta già generando la appena iniziata campagna elettorale lo rendono molto evidente. Scrive il Rapporto: “Le profonde radici del rancore nella composizione sociale e nella psicologia collettiva lo rendono un sottofondo emotivo continuamente sollecitato da imprenditorie politiche dedicate, che provano a costruire consenso rendendolo protagonista sul piano socio-politico. 
 
Al contempo, l’origine del rancore sociale segnala che non bastano gli appelli a parole per sciogliere i grumi rancorosi, se non entra in gioco il fluidificante sociale per eccellenza, cioè la possibilità di migliorare effettivamente la propria condizione socio-economica, di realizzare i propri progetti di vita”. Questo il contesto nel quale le reazioni della psicologia infettata dalla disillusione sono imprevedibili e contagiano le relazioni interpersonali. Così diventa quasi naturale incolpare delle proprie disillusioni le persone che ti trovi davanti, soprattutto quelle verso le quali nutri dei pregiudizi: una volta erano gli ebrei, oggi possono essere gli immigrati, quelli che hanno abitudini di vita o pratiche religiose diverse dalle tue, quelli che hanno colore diverso della pelle.
 
E questi “diversi”crescono di numero, soprattutto in proporzione rispetto a noi, perché le famiglie italiane mettono al mondo sempre meno figli e i suoi membri diventano sempre più vecchi. Ne sono una spia, le opinioni espresse sull’aiuto da offrire ai rifugiati: il 53% degli operai (una volta famosi per la loro solidarietà verso i meno fortunati) sono contrari; è così il 64% delle casalinghe (le donne pronte a commuoversi e a prestare aiuto) e la metà dei disoccupati (che in altri tempi condividevano la sorte dei loro simili). Contrari anche il 45% dei pensionati che temono di veder svanire il proprio accredito mensile e il 42% dei lavoratori autonomi che temono la forza di volontà e di sacrificio di questi nuovi arrivati. E se covi rancore prima o poi esplode e colpisce dove capita. Si possono far entrare in questa casistica i fenomeni di violento teppismo delle baby gang di queste settimane?
 
Questo clima rancoroso si evidenzia anche tra classi d’età diverse e diversità di condizioni territoriali poiché alcune regioni mostrano chiari segni di spopolamento: Basilicata -5,8 per mille abitanti, Molise -5, Liguria e Marche -3,7, Sicilia e Valle d’Aosta -3,5. Meno gente, società più deboli, meno lavoro. Invece sembra crescere mostruosamente il numero delle facce diverse che – si teme – possono portarti via terra, occupazione e benessere. E magari anche quel residuo di tradizione e folclore che ancora ci è rimasto. Ha un futuro un Paese del genere? Un Paese con sempre più carenza di capitale umano qualificato sia tra i nativi che tra gli immigrati. È noto che da noi i laureati sono di numero inferiore rispetto a molti nostri partner europei e a quelli che non emigrano non vengono presentate interessanti offerte di lavoro e tanto meno ne vengono offerte agli stranieri per attrarli nel nostro Paese. Infatti il 46% della popolazione italiana ha conseguito al massimo la licenza della media inferiore. Tra gli immigrati la percentuale di quel limite di studio è del 55% e per tutti gli altri si è ad un limite inferiore o si tratta di analfabeti. Nel lungo elenco di cittadini non comunitari con livello di istruzione di tipo terziario presenti nei Paesi della Comunità si va dal 50,6% registrato in Gran Bretagna (2° posto), al 26,7 registrato in Francia (19° posto), al 22,2 della Germania (22° posto), all’11,8% da noi (26° posto). In Italia si presenta quindi uno scenario di dura competizione tra i meno istruiti in cerca di un lavoro qualsiasi e a salario ridotto. Dunque un clima di rabbia dove il rancore prospera, dove diventa difficile fare ogni cosa. L’immaginario collettivo – scrive sempre il Rapporto – ha perso la sua forza propulsiva.
 
Sono ormai storia antica l’idea che spinse gli italiani a ricostruire un Paese dilaniato dalla guerra e l’idea di realizzare conquiste sociali che pur di segno diverso spingevano in avanti il Paese. La televisione e il cinema che ci affratellavano nella lingua e nei costumi e a loro modo ci spingevano ad ammodernarci ed emanciparci sono ormai trapassati. Oggi il 25% degli italiani punta sul possesso di uno smartphone e il 34% di chi ha fra i 30 e il 44 anni pone al primo posto i social network. Solo il 14% degli italiani ritiene centrale un buon titolo di studio. Se vi si aggiunge che l’84% si dichiara sfiduciato verso i partiti politici, il 78 verso il governo centrale, il 76 verso il Parlamento; che il 70% non si fida dei governi locali come Comune e Regione e il 67 dell’Amministrazione pubblica e che nell’ultimo anno le tessere sindacali sono calate di 180 mila e che una massa cospicua dichiara di non voler votare tanto non serve a niente c’è da aver paura dei risultati delle prossime elezioni politiche. 
 
Aggiungiamo qualche altro dato tra i moltissimi presentati nel Rapporto di quest’anno per precisare la situazione: se nel 2000 si vendevano quasi cinque milioni e 700 mila copie di quotidiani oggi se ne vendono tre milioni in meno. Se nel 2013 i lettori di libri erano il 53%, oggi sono il 7% in meno e per i testi cartacei il calo è stato superiore al 9. Solo la metà dei più giovani, quelli nell’età della formazione, in un anno è riuscito a leggere uno o due libri e solo un quinto è arrivato a leggerne almeno sei (uno in due mesi). Invece la nuova bibbia degli smartphone nel decennio 2007-2017 ha avuto un incremento di fedeli del 54,6%, quella di internet del 30 e quella della mobile tv del 21%. Così si può concludere che gli adulti si sono giovanilizzati. Il che, purtroppo, non corrisponde a maturizzati. Allora dove sta andando l’Italia? Il Censis risponde: “Senza un rinnovato impegno politico e un diverso esercizio del potere pubblico, senza la preparazione di un immaginario potente, resteremo nella trappola del procedere a tentoni, alla ventura, senza metodo o obiettivi, senza ascoltare e prevedere il lento, silenzioso progredire del corpo sociale”. Peccato, se sarà così.
 
 
 
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