La propaganda del fatto compiuto
GIUGNO 2019
Inserto
La propaganda del fatto compiuto
di   Piero Nenci

 

 

Le parole, i discorsi, i dibattiti, i manifesti, i libri: non bastano. Se vuoi innescare una rivoluzione occorrono fatti concreti. Se vuoi far esplodere la società devi innescare l’esplosivo. Un dittatore, solo col pugnale potrai fermarlo. Così la pensavano i congiurati che abbatterono Cesare, così tutti i tirannicidi che ebbero il coraggio di assaltare re, imperatori, presidenti, capi giudicati tiranni. Perché il tiranno deve morire. Allo stesso modo agì Carlo Pisacane quando nel 1587 tentò di sollevare con l’esempio dell’azione armata il meridione dominato dai Borboni. Così agirono anche i comunisti italiani che nel ’45 cancellarono gli uomini del passato regime con la fucilazione. Raccontiamo in queste pagine una serie di tirannicidi. Non è un discorso fuori contesto col nostro tempo: molti hanno puntato una pistola contro un supposto tiranno che esisteva solo dentro le loro paure ma in altri casi guizzi di vera tirannia (spesso cialtrona, è vero) si sono accesi qua e là. Si è tornati anche a discutere se un attentato contro Hitler sarebbe stato in grado di soffocare la guerra. E anche gli anarchici non hanno smobilitato; solo che oggi invece di affrontare il tiranno a mano armata preferiscono servirsi delle poste e spedire plichi esplosivi.
 
 
 

 

Libertà!, Liberazione! La tirannia è morta! Proclamatelo per le strade. Andate alle pubbliche tribune a gridare: liberazione, libertà e affrancamento!”. Così vociavano i congiurati la mattina del 15 marzo 44 aC dopo aver pugnalato Giulio Cesare sulla soglia del Senato. Poi davanti al popolo frastornato e sgomento uno dei pugnalatori – Bruto, quel Bruto cui Cesare prima di cadere disse: anche tu Bruto? – spiegò: “Anch’io amavo Cesare, come tutti voi; se mi sono sollevato contro di lui questa è la spiegazione: amavo di più Roma. E voi, avreste preferito che Cesare vivesse e voi moriste tutti schiavi o piuttosto che Cesare morisse perché voi poteste vivere tutti da uomini liberi? Poiché Cesare mi amava piango per lui, perché è stato fortunato me ne rallegro, perché è stato valoroso lo onoro, ma poiché era ambizioso l’ho ucciso”. Così Shakespeare nella sua tragedia. Quando scrisse il De vita Cesarum (circa 160 anni più tardi) Caio Svetonio accusò Cesare di sprezzare il Senato, di voler essere acclamato re, di voler depredare i beni della Repubblica per andarseli a godere alla corte di Cleopatra. Dunque Cesare era un tiranno, stava per diventarlo. “Parecchi congiurati erano stati suoi collaboratori, alcuni suoi congiunti, taluni erano stati da lui beneficiati ma tutti lo odiavano: per motivi di casta, per ragioni spirituali o morali o per motivi politici, hanno in seguito sintetizzato alcuni storici. Stava diventando un tiranno, dunque doveva morire”. Un tiranno è un dominatore, un principe assoluto, un tizio che illegittimamente si arroga il potere, lo esercita a proprio arbitrio e per riuscirci lo fa anche per mezzo della violenza: così spiegano i dizionari. Il termine tiranno era sconosciuto ai tempi di Omero, forse ebbe origine più tardi nelle colonie greche dell’Asia minore. Il tiranno spesso era un nobile che al declinare di un governo aristocratico riusciva a conquistare il potere e lo esercitava senza alcun vincolo. Ciò avvenne in varie luoghi della Grecia tra il VII e VI secolo aC. Spesso questi tiranni avevano fatto prosperare le città sulle quali avevano spadroneggiato. Anche allora il tiranno era capace di fare “cose buone”! In genere quando le democrazie non riuscivano più a difendere le proprie istituzioni, succedeva che cadessero sotto il dominio di uno solo, come capitò a Siracusa con Dioniso I, in Tessaglia o in Asia minore. E come successe poi in molti altri angoli della società umana. 
 
 
Anche nella penisola italica.
 
 
La tirannia La tirannia è una particolare forma di governo: dispotica e oppressiva dei diritti dei cittadini. Platone nella Repubblica spiega che la tirannia nasce come conseguenza della dissoluzione del regime democratico, caratterizzata dalle continue lotte dei molti (i poveri) contro i pochi (i ricchi). Chi in queste lotte riesce ad accattivarsi la simpatia del popolo, prima o poi si impadronisce del potere e dopo averlo consolidato con una politica apertamente favorevole al popolo (distribuzione di terre, cancellazione di debiti, elargizione di cibo e di divertimenti…) lo esercita sulla base del puro arbitrio personale; impegna spesso il popolo in guerre più o meno inutili per distoglierlo dalla politica interna e per immiserirlo affinché non possa ribellarsi; sistematica la distruzione delle famiglie e dei gruppi più ragguardevoli che potrebbero scalzarlo dal potere e la rovina degli stessi amici che lo hanno aiutato ad impadronirsi dello Stato. Una maggior precisazione della tirannia sul piano dell’ordinamento costituzionale ce l’ha consegnata Aristotele: si tratta del governo di uno solo, volto al proprio interesse personale e non della comunità; tre i punti base della tirannia: la sfiducia dei cittadini tra di loro, la loro incapacità ad operare, la loro bassezza d’animo. Anche Cicerone nel De Republica ne trattò, inquadrando la tirannia in una visione giuridica dello Stato; la comunità statale – scrisse – ha il suo fondamento nel popolo, inteso come una comunità di individui fondata sul diritto. Il potere – la summa potestas – deve restare nelle mani del popolo, quindi lo Stato deve essere repubblicano. La tirannia invece, attribuendo la summa potestas ad uno solo annulla il vincolo giuridico, priva del suo diritto alla personalità il popolo, lo riduce ad una caotica accozzaglia di individui e quindi distrugge la comunità statale. Per cui è giusto far guerra a coloro contro i quali nulla può la legge. Il concetto ciceroniano fu distinto e precisato dai giuristi del medioevo in due formulazioni: la tirannia nata dall’usurpazione del potere e la tirannia di chi pur detenendo legittimamente il potere lo esercita in modo oppressivo. È comunque lecito, equo e giusto uccidere i tiranni perché – scrisse Giovanni di Salisbury verso il 1160 – “chi si appropria della spada merita di morire di spada: chi usurpa il potere sopprime la giustizia e pone le leggi sotto la propria volontà. Dunque la giustizia si armerà legittimamente contro chi disarma la legge e il potere pubblico tratterà con durezza quanti cercano di aggirarlo”. Nella seconda metà del ‘300 Coluccio Salutati nel Del tiranno sostenne che quando un sovrano governa contro giustizia e contro il bene del popolo è tirannico, per cui ogni forma di resistenza, fino al tirannicidio, è legittima sia da parte del popolo che di singoli cittadini. E alla fine del ‘400 Salamonio degli Alberteschi insegnava che il fondamento del potere politico consiste nell’espressione della volontà del popolo, che è l’unione dei singoli individui tramite un accordo che assume la forma di un vero e proprio contratto. Per cui il Princeps che governa è il mandatario del popolo che gli ha affidato il potere. Al tempo della Riforma e della Controriforma si affermeranno poi i principi giusnaturalistici che sfoceranno nella necessità delle Carte costituzionali per garantire solennemente i diritti di tutti i cittadini. “L’umanità stessa sarebbe ben poco al sicuro se i tiranni godessero di immunità per le loro scelleratezze e protetti dalla grandezza stessa dei propri crimini. Le nostre leggi, allora, non sarebbero che ragnatele, buone per prendere le mosche ma inutili a trattenere i calabroni”. “Chi si sottrae alla giustizia nei tribunali deve aspettarsi di trovarla nelle strade”, argomentava nella metà del ‘600 Edward Sexby. Anche Vittorio Alfieri, nella seconda metà del ‘700, scrisse su questo tema (Della tirannide): “Ogni qualunque governo in cui chi è preposto all’esecuzione delle leggi può farle e distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle o anche solo deluderle con sicurezza d’impunità è tirannico”. E “quando una nazione è stata costretta a ricorrere al diritto di insurrezione, rientra nello stato di natura riguardo al tiranno. Come potrebbe questi invocare il contratto sociale? Egli stesso l’ha annientato. La nazione, se giudica opportuno, può ancora conservarlo nei rapporti dei cittadini tra loro; ma l’effetto della tirannia e dell’insurrezione è di romperlo interamente in rapporto al tiranno, di stabilire un reciproco stato di guerra”.
 
 
Morte al tiranno!
 
 
Come Cesare quanti altri? L’elenco è lunghissimo e alcuni antichi tirannicidi in realtà furono degli assassinii politici. Si ricordano dei nomi: il faraone Amenemhat I che aveva consolidato il suo potere con vittoriose campagne militari in Nubia e nel Sinai dove fece costruire un lunghissimo muro (già allora) per difendere i confini dalle scorrerie dei predoni del deserto e che fu ucciso durante una congiura di palazzo forse nel 1964 aC. Mursili I, re degli ittiti, che aveva saccheggiato e distrutto Babilonia arricchendo il suo regno con grande bottino, e che fu assassinato dal marito di sua sorella che gli usurpò il trono circa 1500 anni aC. Qualcosa del genere capitò anche ad un altro faraone, Ramses III ucciso a coltellate verso il 1155 durante la congiura dell’harem, ordita dalla sua terza moglie che voleva salisse al trono il figlio che aveva avuto da Ramses stesso. Più noto del loro fu l’omicidio di Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno, pugnalato dalle sue stesse guardie del corpo durante il banchetto di nozze di sua figlia, quando stava già organizzando assieme ai greci una spedizione contro l’antico nemico persiano. L’omicidio politico segna l’inizio stesso della storia di Roma, quando la banda di Romolo ebbe la meglio su quella di Remo. Il quasi regicidio più noto e discusso è rimasto senz’altro quello di Cesare ma da Augusto in poi, nell’età imperiale, l’assassinio del princeps fu molto utilizzato come metodo di successione anche se l’imperatore regnante non era proprio un tiranno: nella lista dei 105 imperatori romani (tra il 27 aC e il 476 dC) le morti violente arriverebbero al 70 per cento dei casi. Il primo fu Caligola, assassinato dai suoi pretoriani quando aveva appena 29 anni; il secondo fu Claudio, avvelenato a 44 anni da Agrippina minore che voleva salisse al trono suo figlio Nerone, il quale la ringraziò facendola strangolare; poi nel 68, quando il senato lo dichiarò “nemico pubblico”, si suicidò. Dei tre imperatori successivi Galba fu ucciso dai pretoriani, Otone si salvò suicidandosi e Vitellio fu assassinato dai sostenitori di Vespasiano che gli succedette. Anche Domiziano fu ucciso in una congiura quando aveva 45 anni. Dopo di lui sei imperatori morti di morte naturale, poi nel 192, Commodo, eletto imperatore da suo padre Lucio Vero, fu ucciso da Narcisso a 45 anni. Anche i suoi due successori – Pertinace e Didio Giuliano – subirono morte violenta. Settimio Severo morì di vecchiaia a 65 anni: aveva nominato imperatori i suoi due maschi, Caracalla e Geta, il primo assassinò il secondo poi cadde sotto le daghe dei pretoriani. E così via: Alessandro Severo finì la vita a 27 anni per mano dei pretoriani. Dopo di lui fu eletto imperatore di Roma dai suoi soldati Massimino il Trace che a Roma non ci mise mai piede, che il senato bollò come “nemico pubblico” e che finì pugnalato. Seguirono otto imperatori tutti trapassati per morte violenta, finalmente Ostiliano nel 251 morì di peste. Altra serie di morti omicide fino a Marco Aurelio Caro che fu colpito da un fulmine. Diocleziano fu fortunato, spirò per vecchiaia a 67 anni. Massimiano che gli succedette finì suicida a 60 anni. Massenzio cadde in battaglia nel 312 e l’ultimo, il ragazzo Romolo Augustolo, nominato imperatore a 13 anni da suo padre Flavio Oreste che era comandante della cavalleria di Giulio Nepote (assassinato da Odoacre) fu deposto da Odoacre stesso che era a capo delle milizie barbare che militavano nell’esercito romano. Nel 572 il re longobardo Alboino finì i propri giorni per ordine della moglie Rosmunda, offesa a morte perché – racconta Paolo Diacono – il marito l’aveva obbligata a bere nel teschio di suo padre. Un salto di qualche secolo: tra la fine del 1587 e il 1793 in Europa ben sei regnanti subirono una fine violenta: Maria Stuart regina di Scozia per ordine di Elisabetta I d’Inghilterra, Enrico III di Francia (figlio di Caterina de Medici) coinvolto nelle guerre di religione, per mano del frate Jacques Clément ed Enrico IV, che era calvinista, colpito dal cattolico fanatico Francois Ravaillac. Carlo I d’Inghilterra venne tradito dagli scozzesi, consegnato al Parlamento di Londra e mandato a morte dalla corte di giustizia rivoluzionaria inglese nel 1649. Poi Gustavo III di Svezia assassinato nel 1792 da Johan Anckarstrom. L’anno dopo la mania regicida colpì Luigi XVI e sua moglie Maria Antonietta d’Austria, condannati dalla Convenzione rivoluzionaria a passare sotto la lama della ghigliottina. Luigi non ebbe neppure un processo: “Un re, quale egli sia, è condannato dalla natura. Non si può regnare innocentemente: ogni re è un ribelle e un usurpatore” sentenziò nella sua arringa il Saint-Just. Altro che un consacrato, un re è un tiranno. E un tiranno deve morire. Tanto che l’ampolla dell’olio crismale con cui si ungevano le teste dei re francesi al momento della elevazione al trono venne pubblicamente distrutta il 7 ottobre 1793 sulla piazza principale di Reims: scagliata da un membro della Convenzione contro la base di una statua di Luigi XV già abbattuta.
 
 
L’anarchia Pochi anni dopo la rivoluzione francese maturarono nuove teorie e un nuovo termine, anarchia. Era comparso la prima volta nel ‘700 con J. Meslier che aveva delineato un sistema di comunità comunisticoagrarie autonome, senza altre istituzioni sovrapposte: re e principi non erano più necessari. Verso la fine del medesimo secolo W. Godwin aveva parlato della necessità e legittimità di dissolvere ogni forma di governo e ogni tipo di Stato che sarebbero stati sempre illegittimi, non avendo la loro origine che da una prevaricazione della libertà. La formulazione più precisa dell’anarchia si ebbe nell’800, per opera dei francesi Fourier e soprattutto di Proudhon; questi sosteneva che la società dovesse avere una base socialista umanitaria e giuridica, opponendosi ad ogni forma di statalismo oppressore e a impostazioni collettivistiche, e ponendo la federazione economica a presupposto di quella politica. Al lavoro dovevano sottostare sia il capitale che lo Stato. Ogni società – scrisse – progredisce per il lavoro; nei gruppi organizzati l’individuo si sente persona e famiglia, cittadino e popolo. Vagheggiò una nuova società dei servizi che doveva trovare alimento nelle forze extrapolitiche permanenti: cultura, mondo religioso, tradizione giuridica. Le sue idee furono riprese e sviluppate da altri autori ed ebbero un interprete in Bakunin e, sotto un aspetto di misticismo individualistico, anche da Tolstoj. Secondo Proudhon la società saprebbe armonizzarsi da sola se non intervenisse l’autorità della legge e dello Stato. Bisogna dunque abbattere questi legami: liberare l’umanità dovrebbe essere lo scopo e l’impegno degli uomini, destinati a vivere sì in comune ma senza legami, solo con particolari organismi sociali autonomi. Portando avanti questo discorso Stirner sostenne che l’individuo, essendo attività, compiuta affermazione di sé, non dovrebbe riconoscere altri fuori da se stesso, il mondo dovrebbe esaurirsi in lui. E Bakunin denunciò l’autorità come un principio maledetto dal quale derivano tutte le ineguaglianze; Stato e diritto non sarebbero che violenza organizzata, dovrebbero sparire. E la violenza va contrastata con altra violenza. Gli fece eco Kropotkin: distruggere tutto, abolire con ogni mezzo tutti gli ordinamenti, con la guerra civile, col terrorismo, con le stragi. Quando queste teorie si diffusero e vennero conosciute, i rappresentanti delle nazioni, le autorità in genere e chiunque detenesse un potere su una collettività entrò nel mirino degli attentatori
 
 
 
Così l’800 registrò un nutrito numero di attentati anarchici.
 
 
L’insanguinato ottocento Nel 1854 toccò al duca di Mantova Carlo III di Borbone. Mancava poco alla data del plebiscito con cui anche il ducato mantovano avrebbe chiuso i battenti per passare all’Italia unita quando questo Borbone, sempre smanioso di menar le mani e che si era fatto odiare da tutti i suoi sudditi per aver militarizzato il ducato venne assassinato. Era un tipaccio che aveva sì abolito la pena di morte ma si divertiva a far bastonare e frustare la gente. Lo uccise un certo Antonio Carra, di professione sellaio, però non si sa se per odio al tiranno o per vendetta privata. Quattro anni dopo, il 14 gennaio, la vittima designata fu Napoleone III contro la cui carrozza un gruppetto di anarchici italiani, guidati da Felice Orsini, lanciò delle bombe. Motivo: l’aver tradito il giuramento carbonaro di favorire l’unità d’Italia. La carrozza era blindata, solo l’imperatrice Eugenia venne ferita, sbalzata sulla strada  tra le vittime (12 morti e più di cento feriti). Orsini fu arrestato e mandato alla ghigliottina. Nel 1878 le vittime illustri furono addirittura tre: Guglielmo I in Germania, Alfonso XIII in Spagna e Umberto I in Italia. L’11 maggio a Berlino l’imperatore Guglielmo I stava rientrando a palazzo dopo una passeggiata; in carrozza con lui la figlia e il genero. Oltrepassata la Porta di Brandeburgo si entra nella famosa Unter den Linden, è lì che si odono due esplosioni. L’imperatore si chiede se quei colpi siano per lui, sua figlia sviene. Guglielmo non ha paura, è già la terza volta che qualcuno attenta alla sua vita: rientrato a palazzo presiede una riunione e la sera va all’opera. L’attentatore, un certo Emilio Hodel di mestiere lattoniere viene arrestato, gli mettono le catene ai polsi e alle caviglie e lo sbattono in carcere. Era di Lipsia, aveva aderito ai socialdemocratici che lo avevano deluso. Passato da un lavoro all’altro e vagabondo da una città all’altra aveva fatto propaganda politica di tipo socialista ed anarchica. Poche ore prima dell’attentato aveva incontrato in un giardino un suonatore cieco, gli aveva confidato: “C’è una grossa testa da far scoppiare e dopo si starà meglio”. Processato, dichiara di essere dispiaciuto d’aver sbagliato mira e ammette di essere un agitatore anarchico. Alcuni testimoni riferiscono d’avergli sentito dire: di imperatori, re e principi non abbiamo bisogno; riguardo alla condizione degli operai aveva detto: andrò io stesso a protestare dal vecchio Guglielmo. Sosteneva: non abbiamo bisogno di nessun imperatore, di nessun governo, via tutti! Vogliamo essere liberi, dobbiamo dividere tutto, dobbiamo tutti lavorare egualmente, solo due ore al giorno”. Il 16 luglio, venne decapitato. Non era ancora stato giustiziato che l’imperatore subì nella stessa strada un nuovo attentato: Carlo Nobiling da una finestra gli sparò due colpi a pallini che lo ferirono ad una guancia, al fianco e ad un braccio. Tre medici lavorarono ore per estrarglieli e fermare l’emorragia. La testa fu salva perché quel giorno Guglielmo aveva indossato l’elmo per farsi bello, si disse, con lo scià di Persia che era in visita. Anche in questo caso l’attentatore venne subito arrestato ma fece in tempo a spararsi senza tuttavia uccidersi. Con sorpresa si scopre che non è un disoccupato o un operaio sottopagato ma un filosofo. La polizia lo interroga, vuol sapere se ha agito da solo o se si tratta di una congiura. Indagano nella sua vita, nella camera dove abitava trovano sul tavolo una decina di bicchieri vuoti: ne deducono che fu una congiura. Si scopre che si è laureato a Lipsia, che frequentava circoli politici di sinistra, vengono arrestati ma poi rilasciati il fratello e un amico. Poco dopo Nobiling muore. Due attentati che il cancelliere Bismark sfrutterà abilmente per emanare “leggi eccezionali contro la democrazia socialista”, per sopprimere la libertà di stampa e di riunione. Il Parlamento le boccia ma il cancelliere non demorde: vengono proibiti i congressi, sciolte molte associazioni, operate perquisizioni, sequestrati giornali; la violenza si scatena soprattutto sul partito socialista: si inventano cavilli d’ogni genere per impedirgli di affittare una sala per le riunioni (bastava una finestra aperta per far diventare pubblica una riunione privata, o la presenza di un cane per affermare che non si trattava più di una riunione, o perché era presente un numero eccessivo di persone). Si arrivò a vere assurdità: provocatori si presentavano alle riunioni socialiste o sindacali e all’improvviso gridavano ”viva l’imperatore!” Chi non si scopriva il capo o non si alzava a ripetere a sua volta l’evviva poteva essere denunciato e arrestato. Tanto che per liberarsi di un concorrente in amore bastava segnalarlo alla polizia come anarchico o sovversivo. Ad ottobre è il re di Spagna Alfonso XIII a correre pericolo. Il bottaio Oliva Moncasi ha deciso di abbattere la figura che impersona l’autorità; perde un paio di occasioni favorevoli ma il 25 ottobre, quando il re arriva a Madrid è pronto e nel momento in cui l’ufficiale imparte l’ordine di presentare le armi perché il corteo col re si sta avvicinando, Moncasi arma la sua pistola e non appena il re gli passa davanti fa fuoco. Il colpo finisce contro un muro, l’attentatore prova un secondo colpo ma viene circondato dalla folla che lo atterra e lo consegna alla guardia reale. Lui dichiara subito di appartenere all’Internazionale, di essere stato spinto al suo gesto dalla miseria, dalle sue convinzioni politiche e dagli esempi di Hodel e Nobiling. Viene condannato alla garrota, il suo avvocato lo invita a chiedere la grazia ma il bottaio rifiuta, non si pente, non chiede scusa a nessuno. Al suo supplizio sulla pubblica piazza una grande folla. Il suo corpo rimane esposto tutto il giorno perché serva d’esempio. Il 17 settembre, a Napoli, fu la volta di Umberto I. Il re vi era arrivato in treno con la moglie Margherita e il principino Vittorio Emanuele poi, in carrozza col ministro Cairoli, stavano attraversando la città scortato dai corazzieri a cavallo tra due ali di folla festante quando, in via Toledo, un giovane esce di tra la gente, sguscia tra i carabinieri brandendo nella sinistra un foglio che sembra una supplica, si avvicina alla carrozza, sale sul predellino ed estrae con la destra un pugnale coperto con un fazzoletto rosso; riesce solo a sfiorare Umberto gridando: viva la Repubblica universale. Il re si difende assestandogli una piattonata con la spada, la regina grida a Cairoli di salvare il re e butta in faccia all’attentatore il mazzo di fiori che reggeva. Il primo ministro riesce ad afferrarlo per i capelli ma riceve una pugnalata ad una gamba, interviene un corazziere e stende quel giovane a terra dove due poliziotti e alcuni spettatori lo bloccano. Poi si saprà il suo nome: Giovanni Passanante, 31 anni, nato in una famiglia povera di Salvia in Basilicata; era stato cuoco, forse era emigrato in Francia; a Bologna il sindacato gli aveva trovato un posto di lavoro come manovale alla stazione; aveva fatto il cuoco in casa di un prete, aveva lasciato il lavoro; arrivato a  Napoli era stato arrestato per aver diffuso manifestini antimonarchici, era noto come iscritto ai sindacati e a circoli internazionalisti. Dichiara di non aver voluto colpire la persona di Umberto ma “la figura del re”. In una lettera inviata al Secolo aveva affermato: “Bisogna sopprimere il re, i ministri e i generali, i prefetti e gli agenti di Ps. Sopprimere l’avarizia, l’ipocrisia e l’usura; pensionare le vedove e le donne incinte, stabilire una tariffa per tutti i generi alimentari, abbruciare tutti i frodatori”. In una lettera scritta alla madre affermava: “Ho difeso l’umanità contro i tiranni che si sono fatti tutti ricchi. Questi carnefici scompariscono con la Repubblica Universale. Mandatemi la santa benedizione”. In seguito ebbe occasione di affermare: “I re sono tiranni. Si dirà che io non doveva farlo ad Umberto, ma egli è nato da quel padre tiranno del popolo, usurpatore dei diritti del popolo, cacciatore delle figlie del popolo, che si arricchiva e per sostenersi sacrificava il popolo con la tassa del macinato”. Al processo la perizia psichiatrica risultò negativa, la tesi del complotto venne esclusa; a Passanante venne impedito di esporre, come lui chiedeva, le sue idee. Tre giorni di dibattito: grande pubblico, sfoggio oratorio e vistose toilette. Dieci minuti di camera di consiglio e condanna a morte. La Cassazione respinse il ricorso ma Umberto lo graziò. Passanante visse fino al 1910 tra carceri e manicomio criminale. Non solo a Napoli la ribellione; le cronache del tempo riferiscono: “A Carrara si manifestò in modo indegno contro il re”; a Livorno “alcuni sconsiderati fondano un circolo Nobiling”; a Bologna si scopre un complotto alla vita di sua maestà. Ad Imola circola un volantino indirizzato al popolo che spiega: “Viva il… non è grido italiano; è grido di cortigiani che intendono importare tra noi le orge monarchiche. Viva il… non è il grido della forte Romagna e lo sanno i cortigiani; infatti il… fugge e non tocca la sacra terra dei reprobi. Viva il… che dietro il suo passaggio lascia gli spurii, miserie e maledizioni! Noi di Romagna diciamo che triste è il …, fatalmente triste la famiglia dei…, tristi i giullari di corte. Ed ora a voi il nostro grido: maledetto il…!”.
 
 
Anche nella santa Russia
 
 
Nel 1881 il tiranno colpito fu Alessandro II, figlio del tiranno suo padre, il terribile zar Nicola. Aveva cominciato il regno ascoltando i ministri riformatori che intendevano alleggerire il giogo dei servi della gleba ma la riforma adottata fu del tutto insufficiente e l’insoddisfazione dei contadini si inasprì. Allora Alessandro cambiò tattica e colpì duro quei servi che invece di baciargli la mano continuavano a protestare: si moltiplicarono i processi a interi gruppi di cittadini e pesanti furono le condanne: bastava essere scoperti con un volantino socialista per incorrere nella condanna a dieci d’anni di lavori forzati in Siberia. Il territorio russo diviso in tanti distretti fu affidato a governatori che avevano potere di vita e di morte. La protesta quindi crebbe in maniera proporzionale, l’attività dei socialisti, degli anarchici e di altri gruppi politici si fece sempre più decisa, gli attentati contro lo zar si moltiplicarono: cinque in 14 anni, particolarmente distruttivo l’ultimo (17 aprile 1880) perpetrato con la dinamite che fece undici vittime tra i militari e ferì gravemente altri soldati e vari inservienti ma non colpì lo zar. Tutti gli attentatori, scoperti, furono mandati alla forca tuttavia lo zar non riuscì più a vivere tranquillo; si racconta che sparò anche al proprio attendente che aveva compiuto un movimento imprevisto e improvviso. Alessandro ora vive nel terrore: sempre chiuso nel palazzo accerchiato da innumerevoli guardie armate e quando esce la carrozza è chiusa, la gente è tenuta lontana, cosacchi  e circassi caracollano attorno alla vettura. La vendita di dinamite è severamente proibita e tuttavia e i congiurati riescono a procurasela e a tenerla pronta in due diversi passaggi che lo zar è solito percorrere. Il 13 marzo 1881 lo zar va ad una gara al maneggio, al ritorno passa a salutare la cugina Caterina e poi via al trotto per tornare a castello. La prima esplosione uccide un militare e un ragazzo che camminava lungo la carreggiata, lo zar resta ferito ad una gamba e insiste per scendere dalla carrozza e osservare di persona. Nella confusione si avvicina un secondo kamikaze che non manca l’obiettivo. Vengono arrestate e processate sei persone (due sono donne). “Quando la civiltà non ha altre risorse – dicono ai giudici – la libertà si cerca nello scoppio della dinamite che se la ride dei formidabili baluardi, che rende inutile la folla degli sbirri, che compie implacabile la sentenza della giustizia popolare, schiudendo il varco alla speranza, al coraggio, alla rivoluzione sociale”. Cinque condanne a morte, una congiurata ai lavori forzati.
 
 
L’anarchico italiano a Lione Si chiamava Sante Caserio era un contadino della pianura milanese il cui padre brutalizzato dagli austriaci era diventato pazzo lasciando nella miseria la moglie e sei figli. Sante era andato a Milano a lavorare al forno delle Tre Marie, in città aveva conosciuto gli anarchici ed era diventato un attivista. Fu arrestato e condannato, espatriò clandestinamente in Svizzera, a Lugano entrò nel circolo anarchico di Pietro Gori sognando l’utopia dell’uguaglianza sociale. Lì seppe dell’esecuzione dell’anarchico Vaillant che nel dicembre 1893 aveva gettato una bomba dentro il Parlamento di Parigi per protestare contro la politica repressiva del governo Perier. Vari deputati erano rimasti feriti, l’attentatore subito arrestato fu condannato alla ghigliottina, il Presidente della Repubblica francese Sadi Carnot aveva negato la grazia. Caserio decise di vendicare Vaillant e di punire Carnot. Il 24 giugno dell’anno successivo il presidente è a Lione per inaugurare l’Esposizione universale; alle nove di sera esce dal palazzo del commercio per andare a teatro, fa caldo, rifiuta di indossare il corpetto di metallo che porta di solito in pubblico, d’altra parte i lionesi erano così cordiali, nessuno sospetta un atto di violenza. Invece il panettiere milanese è già lì che l’aspetta con un lungo pugnale nascosto dentro un rotolo di carta. La carrozza procede lentamente, non è difficile per Caserio saltare sul predellino e vibrare il colpo gridando: Viva l’anarchia! Pochi s’accorgono di quanto succede: è abbastanza buio, c’è la confusione della festa, scoppiano i mortaretti. La ferita è profonda ed interessa vari visceri, la carrozza viene fatta ripartire di corsa, si chiama l’arcivescovo per l’estrema unzione, il telegrafo comunica la notizia a Parigi, la moglie e i figli arriveranno che il presidente è già morto. I giornali del mattino titolano “Un anarchico italiano ha ucciso il nostro Presidente” e scoppia l’ira dei francesi. Negozi e fabbriche di italiani assaltati, alcuni caffè parigini gestiti da italiani saccheggiati, un circo equestre dal nome italiano deve levare subito il tendone, alcune fabbriche licenziano gli operai emigrati dall’Italia. In Francia e altrove si osserva con interesse quanto scompiglio sia in grado di provocare anche un solo anarchico. Gli arresti si moltiplicano, in Svizzera viene fatta sgombrare la centrale degli anarchici italiani. Il processo all’attentatore dura due giorni: ancora prima del dibattito il presidente dell’assise invita i giurati a condannare l’italiano Caserio. Interrogato, l’imputato non risponde; dice di essere un semplice panettiere, non una spia. Rifiuta il suggerimento del difensore di affermare che suo padre non era sano di mente. Viene letto un suo memoriale che parla di contadini che muoiono di fame e di pellagra e di ricchi che vivono nell’ozio, accusa la società del suo tempo. Il presidente del tribunale ordina che lo scritto venga distrutto. Il 3 agosto la condanna a morte. Sante grida: “Viva la rivoluzione sociale! Coraggio compagni, viva l’anarchia!” Viene eretta una ghigliottina e il 15 agosto l’italiano 
 
 
 
viene fatto salire sul palco dell’esecuzione: mentre lo inginocchiano davanti ceppo grida di nuovo “Coraggio compagni, viva l’anarchia!”
L’ignara Sissi Il 10 settembre 1898 la vittima è Elisabetta di Wittelsbach, imperatrice d’Austria, la bella Sissi. È in vacanza a Ginevra con qualche amica e poca servitù; all’una e mezzo del pomeriggio, con una dama di compagnia sta andando verso l’imbarcadero quando sbuca un uomo armato di coltello che la colpisce al petto. Cade ma si rialza, dice che non è niente, che bisogna affrettarsi perché il battello sta per partire ma appena salita a bordo crolla. Sono i cocchieri fermi al posteggio che bloccano l’attentatore, è un italiano. Il giorno dopo il Corriere della Sera scriverà: “Tutti i rivoluzionari della peggior specie continuano a trovare nella Svizzera il loro miglior rifugio e là stampano i loro giornali incendiari e vi combinano i loro ritrovi. Fu appunto a Ginevra, ora profondamente indignata e commossa, che nel 1882 fu permessa liberamente una conferenza di anarchici, che poi si sciolse al grido: “Abbasso Dio, abbasso la patria, i governi, i borghesi. Nemico nostro è tutto ciò che regna”. L’attentatore di Sissi, Luigi Lucheni, è italiano di Parma ma nato a Parigi, è anarchico. Confessa che non aveva un motivo personale o patriottico per assassinare l’imperatrice; era esasperato per la sua amara sorte e motivato ideologicamente. Figlio di una ragazza madre, una bracciante emiliana che era andata a partorirlo a Parigi e lì l’aveva abbandonato. Il bambino crebbe dunque solo, in un orfanotrofio, divenne necessariamente un ribelle e un vagabondo. Lavorò come manovale in Italia e in Svizzera covando un astio verso quanti erano più fortunati di lui e maturando un irrefrenabile desiderio di vendicarsi su qualcuno delle caste superiori che considerava responsabili della vita grama dei poveri. Nel settembre 1837 lavorava a Ginevra; seppe da un cocchiere dell’arrivo dell’imperatrice d’Austria che viaggiava in incognito, sempre vestita di nero (aveva perso tragicamente due figli e una sorella) e per caso la incrociò mentre correva verso l’imbarcadero. Estrasse un coltellaccio (o una lunga lima) e la colpì con un solo fendente al cuore. Subito arrestato, il Lucheni a chi lo interrogava rispose d’aver colpito l’imperatrice: “perché sono anarchico, perché sono povero, perché amo gli operai e voglio uccidere chi è ricco”. Aggiunse che avrebbe preferito compiere un attentato a Lucerna perché in quel Cantone era in vigore la pena di morte. Quale profitto s’aspettava dal suo gesto? “Colpire i perseguitori degli operai”, rispose. Potendo tornare indietro rifarebbe quel gesto? “Lo rifarei”, concluse. Venti minuti di camera di consiglio poi la sentenza: ergastolo. “Viva l’anarchia, morte alla società borghese! grida il condannato.
 
 
Di nuovo Umberto I Gli ultimi anni del 1800 furono assai travagliati per il nostro Paese: condizioni economiche difficili, alto tasso di senza lavoro, situazione degli operai e dei contadini pessime. Nel giugno 1894 fu il presidente del Consiglio Francesco Crispi a subire l’assalto di un anarchico, Paolo Lega, che però sbagliò bersaglio e rafforzò il potere dell’allora primo ministro. Re Umberto aveva ormai perso l’aureola di “re buono” e la moglie Margherita aveva contribuito al declino coi suoi sentimenti antidemocratici, autoritari e imperialisti che non cercava neppure di nascondere (più avanti caldeggerà l’ascesa dell’uomo forte Mussolini). Il proletariato ribolle: rivolta operaia e contadina in Sicilia, attentati dinamitardi, insurrezione armata in Lunigiana, colpi di pistola contro Crispi, lo stillicidio della guerra d’Africa. L’esasperazione è al culmine. Il 22 aprile 1897 grande festa al Quirinale per l’anniversario delle nozze del re poi tutti in carrozza all’ippodromo delle Capannelle. Poco dopo Porta San Giovanni dalla folla sbuca un tizio col pugnale pronto, riesce a salire sul predellino e ad aggrapparsi alla carrozza ma il re è lesto a scansarsi (solo uno spacco sul sedile) e l’attentatore è subito catturato.
 
È un velletrano che gestiva una bottega di ferramenta, si chiama Pietro Acciarito; gli affari vanno male, costretto a vendere l’attività, non trova un altro lavoro. Il pugnale se l’è costruito da sé, sull’impugnatura è incisa una A. Al processo gli chiedono il perché dell’attentato; risponde: Si buttano milioni in Africa e qui c’è la fame. Non ricordate quanto è successo in Sicilia? Il processo dura un giorno e mezzo, il tempo per decidere l’ergastolo è di soli tre minuti. Al termine Acciarito dichiara: “Oggi a me, domani al governo borghese. Viva la rivoluzione! Viva l’anarchia!”. Passano pochi mesi e la rivolta si riaccende: stato d’assedio a Roma, Firenze in mano ai cittadini per un giorno intero, disordini nelle Marche e in Romagna, in Campania, in Puglia, in Sicilia; migliaia gli arrestati, i deputati socialisti asserragliati a Montecitorio per evita re il carcere. E Umberto gioca a fare il duro appoggiandosi ai generali che approvano il governo forte. Il 6 maggio arriva la notizia che le forze dell’ordine a Pavia hanno sparato ad uno studente socialista. Scoppia lo sciopero generale, gli imprenditori rispondono con la serrata. Corrono voci incontrollabili del ritorno di parecchi emigrati, di studenti che convergono su Milano, tutti scendono in piazza. Il responsabile dell’ordine pubblico, generale Bava Beccaris proclama lo stato d’assedio, i militari possono sparare a vista, arrivano persino a catturare i frati che distribuiscono la minestra ai senzatetto. Due giorni di scontri poi il generale telegrafa al re: rivoluzione stroncata, solo due perdite tra le forze dell’ordine. Il re lo promuove e gli concede un’onorificenza. Ma tra la gente si contano 80 morti e 450 feriti. “Che illuminati governanti!” gridano al circolo anarchico di Paterson (New Jersey) giurando di farli rinsavire. Il circolo è guidato da un ex giornalista dell’Avanti! uscito dal partito su posizioni estremistiche ed anarchiche ed emigrato oltreoceano. L’attentatore è estratto a sorte: Gaetano Bresci, ex operaio dei dintorni di Prato. Un bravo stampatore su seta, un membro del circolo anarchico di questa città che ha conosciuto il carcere (un anno al confino per aver offeso una guardia municipale), che il padrone non vuole riassumere, che la crisi costringe all’espatrio. Ad aprile del 1900 la Francia offriva uno sconto a chi acquistava un biglietto per visitare la l’Esposizione universale, Bresci ne approfitta, poi parte per Genova, va a Prato a trovare gli ex compagni poi a Milano perché il re Umberto si è spostato a Monza per le ferie estive. La sera del 29 luglio va al campo sportivo dove il re assiste ad un saggio ginnico e premia i vincitori. La società organizzatrice si chiama “Forti e Liberi” (!). Il Bresci è in tribuna e quando il re lascia il suo palco e sale in carrozza gli si avvicina e spara tre colpi di pistola che vanno a segno. La fine di Umberto è immediata. I poliziotti saltano addosso all’attentatore e lo sottraggono al linciaggio. A chi gli grida assassino! risponde: “Non ho ucciso Umberto, ho ucciso un re!” Parte un’inchiesta, vengono inquisiti parenti ed amici, si cercano i membri del complotto. Il processo si tiene a Milano il 30 agosto, l’avvocato difensore di Bresci è Saverio Merlino, simpatizzante socialista, indicato da Turati. Merlino chiede un rinvio per alcune manifeste irregolarità processuali, rinvio respinto. Il difensore parla delle condizioni dei lavoratori, delle posizioni dei socialisti, dell’impossibilità di manifestare pacificamente le proprie idee ma viene ripetutamente azzittito. Il presidente fa mettere a verbale che “l’avvocato Merlino tenta di giustificare le teorie del regicidio”. Merlino ribatte come “l’ambiente e la situazione possano determinare cause di indole generale delle quali bisogna tener conto nella valutazione del delitto medesimo”. Quando gli danno la parola Bresci dichiara di essere l’unico ideatore ed esecutore dell’attentato, di non aver complici. “L’idea mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati. Bisogna essere all’estero per vedere come sono considerati gli italiani, vengono chiamati persino maiali”. Conclude: “La mia condanna mi lascia indifferente, sono convinto di non essermi ingannato. Mi appello alla prossima rivoluzione”. La Corte prese le sue decisioni in nove minuti: ergastolo, di cui sette anni di segregazione cellulare continua, perdita di ogni diritto e confisca di ogni bene. Bresci morì nel carcere di Santo Stefano a Ventotene in circostanze oscure dopo appena quattro mesi. Il suo corpo e le sue cose sparirono, i documenti che riguardavano il suo processo andarono persi, la pistola con cui sparò è invece in mostra al museo criminologico di Roma. La sua famiglia e la sua città furono umiliate in malo modo ma Prato si rifece intitolandogli una strada e Carrara – capitale morale degli anarchici – nel 1986 gli eresse una grossa stele, nonostante l’opposizione del ministro dell’interno Scalfaro, perché l’uccisione di Umberto “non fu un atto terroristico ma simbolico”. Nel febbraio 1908 le vittime furono Carlo I re del Portogallo e suo figlio; gli attentatori subito inseguiti furono uccisi durante lo scontro a fuoco con la polizia. Nel marzo 1913 toccò a Giorgio I re di Grecia a Salonicco. L’autore del gesto fu arrestato e torturato ma si suicidò lanciandosi – come fu detto – da una finestra. Nel 1921 l’attentato dinamitardo al teatro Diana di Milano  per colpire, pare, un questore che invece restò incolume ed arrestò l’anarchico Antonio Pietropaolo e una decina di sospettati, alcuni dei quali finirono all’ergastolo. Anche l’ultimo tiranno d’Italia subì diversi attentati, alcuni veri, altri fasulli. Quello di piazza Loreto a Milano, il 29 aprile 1945, gli fu fatale. Chiudiamo questa lunga serie di violenze contro i tiranni con l’attentato a Luìs Carrero Blanco, il capo di governo di Franco, colui che doveva succedergli e che fu fermato dagli autonomisti baschi nel 1973. 
 
 
La forza dell’azione Lo sosteneva Carlo Pisacane: la politica, la propaganda, i libri servono a poco; per dare forza ad un’idea occorre l’azione. Convinzione che volle dimostrare vera con la famosa spedizione di Sapri del 1857 e che in seguito fu alla base di molti attentati anarchici. Nel 1877 l’esempio di Pisacane fu seguito dalla banda del Matese capeggiata da Cafiero, Malatesta e Ceccarelli che andavano per i Comuni di quella regione assaltando gli uffici municipali per distruggere la “carta bollata”: i registri catastali, gli schedari delle tasse, gli atti delle ipoteche; volevano far capire che si potevano abolire tutti i cosiddetti “i diritti dello Stato e della proprietà privata”. La loro azione dimostrativa durò cinque giorni poi furono bloccati dai bersaglieri, catturati, processati e condannati; ma a pene poco pesanti. L’idea di Pisacane fu accolta e fatta propria nel 1881 dal congresso internazionale anarchico di Londra che annunciò di voler adottare “la strategia della propaganda col fatto”. Anche il duce del fascismo a suo modo utilizzò la “propaganda col fatto”: accettando e proteggendo l’azione dei sansepolcristi contro le sedi socialiste e sindacali, contro i loro giornali, contro i loro rappresentanti, a cominciare da Giacomo Matteotti che di quel tipo di propaganda fu un’illustre vittima. Poi cambiarono i tempi, subimmo l’amara lezione della guerra e, forse, maturarono anche le persone e l’anarchismo si affievolì. Quello ufficiale fu rappresentato dalla Federazione anarchica italiana (Fai) che pur rinunciando a metodi violenti inscenò spesso atti dimostrativi. Alcune frange però continuarono la scia del sangue: pare che l’uccisione di Carlo Falvella, militante del Fuan, accoltellato nel 1972 dall’anarchico Giovanni Marini, sia stato uno degli ultimi attentati vecchio stampo prima degli anni di piombo. Dopo di lui nel 1973 l’anarco-individualista Gianfranco Bertoli andò a lanciare bombe davanti alla questura centrale di Milano: una quarantina i feriti, quattro i morti (tutte persone che erano lì per caso). La sua azione –sostenne – voleva essere una protesta contro l’allora ministro Mariano Rumor che aveva inaugurato un busto commemorativo del commissario di Ps Luigi Calabresi, assassinato l’anno precedente da un gruppo di Lotta continua perché ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, il quale era stato arrestato perché ritenuto coinvolto nella strage di piazza Fontana del 1969. È noto che, durante l’interrogatorio, il Pinelli era (o sarebbe?) caduto da una finestra del quarto piano della questura. Sulla scena dell’Italia degli scontenti è poi arrivata una Fai insurrezionalista che non ripudia l’azione armata o gesti dimostrativi più o meno violenti. Nel 2003 una campagna dinamitarda contro Istituzioni dell’Ue allo scopo di colpire “gli apparati di controllo e repressione del nuovo ordine europeo” attraverso l’invio di pacchi-bomba. Nello stesso anno un attentato contro Romano Prodi, presidente della Commissione europea la quale aveva introdotto “nuove pratiche di sfruttamento e di dominio”. Nel dicembre 2008 fu collocato un chilo d’esplosivo ai piedi di una guglia del duomo di Milano che però non esplose perché un operaio la notò e gli artificieri la disinnescarono. Nel dicembre dell’anno dopo ancora una bomba, dentro l’università Bocconi, per chiedere la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione. Nel 2010 fallito attentato contro la Lega Nord, una lettera con proiettili al presidente del consiglio Berlusconi e lettere esplosive alle ambasciate di Svizzera, Cile e Grecia. L’anno dopo pacco bomba ad Equitalia (Roma) per protestare contro le misure economiche imposte dal governo Monti che provoca due feriti. Nel maggio 2012 la protesta più grave: la gambizzazione di Roberto Adinolfi, Ad dell’Ansaldo nucleare di Genova, per aver favorito il rientro del nucleare in Italia. Sempre a Genova, ma dieci anni prima, era entrato in azione il gruppo di Solidarietà internazionale spalleggiato da gruppi anarchici, nostrani e non, durante il vertice del G8: riuscirono a devastare una vasta zona della città e a creare le condizioni perché ci scappasse una vittima.
 
 
Un attentato avrebbe fermato Hitler? È stato calcolato che tra il 1875 e il 2004 si sono verificati circa 300 casi di morte al tiranno: più della metà affrontati a mano armata, il 45 per cento con bombe. I successi sono stati favorevoli agli attentatori solo in un caso su cinque. Ne hanno discusso recentemente su La Lettura tre studiosi di cose politiche chiedendosi se un attentato che avesse tolto di mezzo Hitler sarebbe riuscito a fermare la guerra e a soffocare il nazismo. “Ogni tiranno ha dietro di sé una base più o meno estesa che domina sul resto della comunità – ha sostenuto Luciano Canfora – quindi il problema non è tanto eliminare fisicamente il despota quanto sconfiggere politicamente  il sistema di potere che lo sorregge”. Ed ha ricordato il caso l’attentato ad Umberto I: “Non fu l’uccisione del sovrano da parte 
di un militante anarchico a chiudere la reazione italiana di fine ‘800 e ad aprire la strada al liberale Giolitti ma un complesso di movimenti politici e sociali che aveva trovato nella rivolta di Milano del 1898, repressa nel sangue, la sua maggior espressione”. Luigi Curini ha detto che oggi si assegna troppo facilmente l’epiteto di tiranno a qualcuno; anche lui però è d’accordo: “Non è la violenza fisica ma il discredito politico l’arma più efficace contro la tirannia”. L’assassinio di un leader liberamente eletto di solito non modifica la natura di un regime, mentre l’omicidio di un dittatore aumenta, da una parte il livello di conflittualità nel Paese interessato e dall’altro ne incentiva l’evoluzione in senso favorevole alla libertà. Secondo uno studio recente sembra che una dittatura il cui leader viene ucciso ha il 13 per cento di possibilità in più di diventare una democrazia nell’anno successivo all’attentato, quindi “se gli omicidi non hanno mai cambiato la storia del mondo, come sosteneva il primo ministro britannico Benjamin Disraeli, tuttavia un attentato può modificare la traiettoria di uno Stato”. Non bisogna concentrarsi sull’antropologia del tiranno o sulla personalità del singolo dittatore ma piuttosto sul sistema che lo esprime” sostiene anche Luigi Manconi. Nel caso di Carrero Blanco, ad esempio, si è trattato di un tirannicidio che, se non altro, ha prodotto l’effetto di accelerare la transizione della Spagna verso la democrazia. Tuttavia non è facile vedere nel mondo una situazione in cui il tirannicidio possa rivelarsi determinante. È comunque necessario prestare più attenzione alle derive liberticide che si manifestano in alcuni Paesi. Gli esempi citati sono l’Ungheria di Orbàn, la Turchia di Erdogan e l’Egitto di Al Sisi, solo per citare casi a noi più prossimi. È invece da bandire la pretesa di poter “esportare la democrazia”; già Robespierre lo diceva, come ha ricordato Canfora: “I popoli non amano i missionari armati!”. “L’uso delle armi non è efficace contro le dittature – è anche il parere di Curini – “se si vuole espandere la democrazia nel mondo bisogna ricorrere a strumenti politici: sostegno alle opposizioni, aiuti economici condizionati, tentativi di sviluppare la società civile là dove è debole e oppressa”. E questi sono strumenti ben più costosi di un drone armato che vola sulla testa del dittatore. A conclusione Luigi Manconi ha citato il caso dell’omicidio Regeni al Cairo dal quale “emerge una lezione terribile: l’incapacità delle democrazie di evitare che nei rapporti internazionali la tutela dei diritti umani finisca all’ultimo posto rispetto ad esigenze di altra natura”. Il che ci porta a concludere che la tirannia è un morbo tutt’altro che facile da estirpare. Per fortuna sembra che i casi conclamati di questo tipo di infezione sociale non siano frequenti in Europa. Nel resto del mondo se ne contano invece numerosi. 
 
 
Gli anarchici del duemila Da noi resta invece abbastanza viva la presenza anarchica cui non mancano certo obiettivi da contrastare pescando nel malcontento generale o da casi particolari. Sul sito Anarcopedia si legge un po’ di storia: dopo la caduta del fascismo gli anarchici italiani tornarono ad organizzarsi, fondarono vari giornali e ripresero la pubblicazione di quelli fatti chiudere dalla dittatura. Col congresso di Carrara del settembre 1945 rinacquero la Federazione anarchici e l’Unione anarchici ma mentre Togliatti concedeva l’amnistia ai fascisti la Repubblica mandava in galera alcuni anarchici per fatti compiuti dopo l’8 settembre, tanto che qualche militante Pci per protesta lasciò il partito e si iscrisse alla Fai. Non fu facile neppure per gli anarchici la ripesa delle attività (contrasti fra organizzati e individualisti, comitati di difesa sindacale per arginare le “derive della Cgil”, ricostituzione del vecchio sindacato Usi, ecc.); nel caldo clima del ’68 l’anarchismo riprese slancio e nacquero nuovi gruppi giovanili in varie città. Con l’attentato di piazza Fontana a Milano nuove difficoltà: la corrente individualista – scrive il sito – fu a volte manovrata da infiltrati fascisti o dalle istituzioni. Membri del Fai subirono aggressioni, alcuni persero la vita in occasione di manifestazioni, ci furono nuove scissioni e si formarono gruppi che praticavano la violenza durante le manifestazioni giovanili, come nel ’77. Nel terzo millennio è venuta alla ribalta una Federazione anarchica informale che sembra preferire la tecnica dei pacchi bomba: mentre gli anarchici dell’800 andavano di persona ad affrontare il tiranno, quelli oggi utilizzano il più comodo servizio postale. Comunque anche gli anarchici di oggi cercano di “alzare la testa, facendo fronte ad una violenza statale destinata ad aumentare” altrimenti “ci troveremo con le teste spinte sempre più a fondo nel cesso con l’unica possibilità di annaspare soli e impauriti”. Dopo le manifestazioni di Torino del 9 febbraio e del 30 marzo per protestare per l’arresto di sei loro militanti accusati di associazione sovversiva e di essersi opposti allo sgombero dell’asilo occupato di via Alessandria, hanno pensato di alzare il volume della protesta inviando un plico esplosivo alla sindaca Chiara Appendino. Sui muri della città sono apparse anche le scritte “Appendino appesa” e “Appendino, la scorta non ti basta”. Qualche tempo dopo sono stati arrestati tre di questi coraggiosi bombaroli; intercettata, una di loro, torinese, diceva al suo interlocutore al telefono: “Sono stufa di tutta sta roba. Voglio mettere bombe” e coi suoi colleghi ha confezionato i plichi per i pm di Torino e il capo del Dap, il quale ha commentato: “È una modalità vigliacca; non vengono feriti i destinatari ma gli addetti ai servizi postali”. Negli ultimi tre anni sono ormai una quindicina i plichi esplosivi inviati dagli anarchici a qualche autorità pubblica di cui non approvano il comportamento. Altri hanno allargato la protesta contro il “tiranno” assaltando col fuoco o con la vernice banche, società di vario genere e anche una sede della Lega (tutta pubblicità a favore), ma sempre di notte. Nel gennaio 2017 Panorama pubblicò l’elenco dei nuclei anarchici attivi in Italia, più di una trentina: 6 a Genova, 5 a Torino e a Roma, 3 in Lombardia, a Bologna, a Firenze e a Napoli; 2 a Ravenna e uno in altre quattro città: Pisa, Padova, Verona e Trento. I cui iscritti, per tenersi allenati in attesa di obiettivi migliori, si attiverebbero in disordini durante le partite di calcio. Ragazzi di fegato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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