Le strategie dell’innovazione sociale hanno proprio il fine dello sviluppo
economico del paese
GIUGNO 2019
Intervista
Le strategie dell’innovazione sociale hanno proprio il fine dello sviluppo economico del paese
di   Antonio Foccillo

 

 

Intervista a Lorenzo Fioramonti, vice Ministro al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

 

 

Partirei da un assunto che seppur scontato purtroppo l’esperienza ci ha dimostrato esser molto sottovalutato: è indiscusso che la promozione della conoscenza, in tutti i suoi campi, costituisce il volano delle prospettive di crescita e sviluppo di una qualsiasi società. Come del resto, è logico che i progressi della scienza e della tecnologia possano creare le condizioni per avviare riconversioni virtuose dei processi produttivi. Recentemente ha sottolineato quanto sia necessario che si comprenda l’importanza dell’innovazione tecnologica ma allo stesso tempo come questa debba essere affiancata da un’innovazione di tipo sociale e politica. Può dirci qualcosa di più?

L’innovazione sociale è la chiave di volta per adeguare il sistema politico e sociale al progresso tecnologico a beneficio dei cittadini. I beni e i servizi pubblici si evolvono assieme alle tecnologie e l’innovazione sociale è la sfida per coglierne le potenzialità per il benessere della popolazione. Le strategie dell’innovazione sociale hanno proprio il fine dello sviluppo economico del paese. A titolo esemplificativo posso citare la diffusione dell’economia circolare, il modello di innovazione sociale per la sostenibilità che sta sostituendo il vecchio paradigma dell’economia lineare. Per favorire tale ricambio, adeguato all’agenda 2030 dell’ONU, all’evoluzione del paradigma produttivo sostenuto dall’innovazione tecnologica si deve affiancare una strategia di innovazione sociale per consentire che l’economia circolare fornisca un benessere diffuso e sostenibile.

 

Ci consenta una piccola provocazione. In tutti i programmi elettorali si trovano tante riflessioni e impegni sui temi più svariati della cultura, della ricerca, dell’università e dell’innovazione. Il ché è più che corretto ma il problema è che questi annunci rimangono sterili, mera campagna elettorale. Lei, diversamente da questa tendenza, si sta contraddistinguendo in questi giorni per la richiesta di un miliardo in più per Università e Ricerca nella prossima legge. Ha ipotizzato delle proposte per reperire i fondi necessari e messo sul tavolo il suo stesso incarico. Ci può illustrare la sua ipotesi?

La ricerca è l’unico tipo di investimento per aumentare nel tempo la produttività dell’economia come ci ricordano gli economisti classici, e il progresso tecnologico è stato il motore di ogni rivoluzione industriale. Dal 2008 le scelte politiche hanno colpito proprio la ricerca e università con tagli su tagli, in parte per rispondere alle richieste di austerity, in parte a causa di una visione miope e distorta hanno visto nel mondo della ricerca pubblica una zavorra. Gli studi internazionali e la stessa VQR dell’Anvur hanno sfatato tale mito e provato l’elevata produttività e la qualità internazionale del nostro sistema di ricerca. La diminuzione del 19% in termini reali tra il 2008 e il 2016 degli stanziamenti pubblici per la ricerca, infatti, non trova eguali in Europa (salvo le economie in crisi profonda come la Grecia). Ricordo come la performance eccellente dei ricercatori italiani scaturisca dalla formazione conseguita negli anni precedenti ai tagli a università e ricerca e con il proseguire del sotto finanziamento e della riduzione del numero dei professori tali successi svaniranno. Proprio per invertire la tendenza e dare ossigeno ad un settore che dimostra di essere un potenziale fiore all’occhiello per il Paese, ho proposto un menu di potenziali interventi fiscali di scopo. Si tratta di possibilità che se anche colte in modo parziale e selettivo potrebbero generare almeno un miliardo di euro aggiuntivi l’anno da destinare alla ricerca e all’università pubblica. Con un miliardo si potrebbe finalmente contrastare il declino industriale italiano, ribaltare la fuga dei cervelli, aumentare la produttività del nostro sistema industriale, oltre a centrare l’obiettivo di Europa 2020 di intensità di spesa di ricerca.

 

L’esito delle risorse null’altro sono che gli Investimenti che si intendono praticare in un determinato settore. Stando all’OCSE, il volume degli investimenti in ricerca e sviluppo del nostro Paese si attesta ben al di sotto degli Stati Uniti, del Giappone, del Regno Unito, della Germania e della Francia. Secondo le stime, l’Italia si colloca al 12° posto tra i 28 Paesi dell’Unione. Questo quadro inevitabilmente dipinge una situazione in cui il nostro Paese non riesce a tenere il passo a livello internazionale e dove, invece, all’interno dei nostri confini, si rischia di non garantire l’accesso all’alta formazione egualmente a tutti, negandosi così opportunità di crescita sociale e di ridistribuzione del reddito. Sono forti le nostre perplessità e preoccupazioni. Non crede che da tempo manca in Italia una programmazione che sia in grado di rilanciare un settore dove i nostri “cervelli” difficilmente riescono a trovar spazio?

La fuga di cervelli, dovuta in larga parte dalla scarsità di prospettive dei giovani ricercatori italiani sta compromettendo e indebolendo il nostro sistema scientifico. Vorrei ricordare che la mobilità dei ricercatori non è un fenomeno negativo in sé. In Italia ha assunto livelli preoccupanti in quanto i nostri cervelli emigrano, raramente tornano e non siamo in grado di attrarre ricercatori stranieri. Aprire a nuove posizioni lavorative gli EPR e gli atenei significherebbe ridare speranza ai giovani ricercatori che hanno al momento poche alternative alla fuga all’estero. A tale azione deve essere affiancata una riforma del reclutamento per porre la parola fine ai baronati e alle malversazioni che oggi leggiamo sui giornali e che cerco dal primo giorno della mia azione di governo di contrastare.

 

Come Sindacato crediamo che anche un altro punto debba esser messo all’agenda. I rapporti, o forse meglio l’interconnessione, tra pubblico e privato. Il tessuto imprenditoriale italiano è costituito, come risaputo, da piccole e medie imprese che difficilmente e raramente riescono ad investire, in assenza di incentivi, in ricerca e sviluppo, soprattutto in fasi di congiunture economiche negative o stagnanti. Secondo i dati Istat, inoltre, si evince un modello di investimenti tra pubblico e privato agli antipodi, da una parte ricerca di base dall’altra sviluppo sperimentale e ricerca applicata. Ritenendo ovvia l’utilità di una stretta e coerente collaborazione tra pubblico e privato come fattore di crescita, come crede che se ne potrebbe stimolare una maggiore integrazione?

Dall’inizio del mio mandato sto cercando di promuovere il difficile connubio pubblico-privato con un’attenzione particolare al territorio. Difatti il progetto distretto della scienza nell’area di Roma e il tecnopolo di Taranto sono modelli per favorire il trasferimento tecnologico e l’attrazione di capitali all’interno di una visione legata al territorio: per il distretto della scienza le zone più degradate di Roma, Municipi VI e VII, e per Taranto la crisi dell’acciaio e l’inquinamento sono note all’opinione pubblica e la scommessa è quella di rilanciare il territorio sotto il binomio innovazione e ricerca per lo sviluppo sostenibile.

 

Il rilancio di questi settori passa ovviamente anche per i suoi lavoratori e quindi per la loro tutela. Il percorso delle stabilizzazioni è ancora in essere e in tal senso è fondamentale l’accordo sottoscritto lo scorso 24 aprile, perché non è possibile abbassare la guardia di fronte a una situazione che nel tempo è divenuta sempre più patologica e soprattutto contra legem. Come, allo stesso tempo, bisogna valorizzare la professionalità di chi precario non è o non lo è più da poco. Come UIL, teniamo a ribadire l’importanza della contrattazione e del suo ruolo che, sul solco di quello che è stato l’accordo del 30 novembre 2016, deve tornare ad occuparsi di tutte le materie inerenti al rapporto di lavoro. Questo ancor più in settori caratterizzati storicamente da una forte autonomia delle sue Istituzioni. Attendiamo l’avvio del negoziato per il rinnovo del contratto, come intende porsi il Ministero?

Per quanto riguarda il comparto università e ricerca sto collaborando da mesi assieme al mio staff e con le commissioni cultura dei due rami del parlamento su un disegno di legge che ridefinisca aspetti decisivi riguardo il pre-ruolo, il reclutamento e le progressioni di carriera, con l’intento di garantire un percorso che da una parte sia meno fumoso per precari e dall’altra valorizzi le figure professionali del mondo della ricerca. Credo che anche il rinnovo del contratto sia un ottima occasione per andare in questa direzione.

 

Un ultima domanda. Lei è viceministro del MIUR con delega all’Università, Ricerca e Alta Formazione, l’importanza di questi settori, a nostro parere, ci fa ritenere opportuno riconoscergli un dicastero specifico come fu, del resto, in alcune legislature delle esperienze passate. Anche ciò per noi rappresenterebbe un cambio di mentalità e una svolta positiva per settori che in questi anni son stati – come dimostrano i dati – fin troppo trascurati da diverse legislature. Secondo Lei, questa proposta è praticabile? Cosa ne pensa?

Nonostante la difficoltà politica, penso sia auspicabile la creazione, anche nella forma di una struttura ‘leggera’ sotto la Presidenza del Consiglio, di una cabina di regia o dipartimento, che elimini le duplicazioni e porti tutto il sistema pubblico della ricerca e innovazione sotto una strategia unitaria, condivisa per lo sviluppo del Paese.

 

 

Potrebbe anche interessarti: