Fine del periodo transitorio: il “nuovo” contratto a termine entra a regime
DICEMBRE 2018
Agorà
Fine del periodo transitorio: il “nuovo” contratto a termine entra a regime
di   Sara Tucci

 

Il contratto a tempo determinato è stato, forse, nel corso degli anni la tipologia contrattuale che ha subito più interventi da parte del legislatore, il quale ne ha ampliato o ristretto la portata a seconda delle esigenze, essendo questo lo strumento per eccellenza di flessibilità nel mondo del lavoro. Da ultima, è intervenuta la novella del cosiddetto “decreto dignità”, decreto legge n. 87/2018 convertito con modificazioni dalla legge 96/2018, la quale ha disposto all’art. 1 importanti novità per questo modello contrattuale (nonché per il contratto di somministrazione all’art. 2), creando un’inversione di tendenza rispetto a quanto, invece, prescritto negli ultimi anni. La più rilevante delle novità del “decreto dignità” è sicuramente l’aver riportato la causale nel contratto a tempo determinato. Questa, era già prevista in passato nel d.lgs. 368/2001, nel quale si prevedeva il suo obbligo a prescindere dalla durata contrattuale e l’apposizione del termine veniva concessa solo per ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive. La causale è stata poi limitata dalla riforma Fornero, per poi essere completamente eliminata dal cosiddetto “Jobs Act”, che ha avuto quindi come effetto la totale liberalizzazione di questa tipologia contrattuale flessibile.

Il “decreto dignità”, con lo scopo dichiarato di volerne limitare l’uso per incrementare il lavoro stabile, l’ha nuovamente reintrodotta. L’obbligo di causale vige, ora, quando il contratto a termine superi i dodici mesi, sia mediante proroghe, sia tramite i rinnovi. Le motivazioni da addurre dovranno rientrare nel novero delle esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, o per esigenze connesse a incrementi temporanei e non programmati dell’attività ordinaria ed infine per esigenze sostitutive. Il Ministero del Lavoro il 31 ottobre ha emanato, in merito, una circolare interpretativa per cercare di fugare alcuni dubbi applicativi che hanno creato una situazione d’impasse dall’entrata in vigore della norma, ed ha specificato proprio su questo punto che:

“Per stabilire se ci si trovi in presenza di tale obbligo si deve tener conto della durata complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende eventualmente prorogare”.

La causale è, quindi, sempre obbligatoria quando si supera il periodo di dodici mesi, anche se il superamento dovesse avvenire a seguito di proroga di un contratto originariamente inferiore a tale durata. Altra rilevante novità prevista è la durata massima del contratto a tempo determinato, con riferimento ai rapporti stipulati tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore.

Originariamente prevista di trentasei mesi, sia considerando un singolo contratto di tale durata, sia che a tale durata si arrivasse mediante la somma di più rinnovi. La novella legislativa ne ha ridotta la portata, stabilendo ora una durata limite del contratto di ventiquattro mesi di cui i primi dodici da poter sottoscrivere, come suddetto, senza causale e i successivi, invece, con obbligo della stessa. Deroga a questo limite di durata è stata prevista nel caso in cui le parti con accordo sindacale dinanzi all’Ispettorato del Lavoro vogliano prorogare il contratto di ulteriori dodici mesi.Si è, inoltre, proceduto anche alla riduzione del numero di proroghe che da cinque precedentemente previste, ora, sono ridotte a quattro, sempre considerando il limite massimo di durata e senza considerare invece i lavori stagionali.

La Circolare del Ministero del Lavoro specifica anche, che il “decreto dignità” non modifica l’art. 19 comma 2 del Jobs Act nella parte in cui prevede che, anche per il futuro, la contrattazione collettiva conservi la facoltà di derogare alla durata massima del contratto a termine. Pertanto i CCNL nazionali e territoriali avranno invariata la facoltà di stabilire una durata massima contrattuale superiore al nuovo limite di ventiquattro mesi.Altre due specificazioni, la Circolare, le fa rispetto alla forma scritta e al periodo transitorio della norma. Riguardo alla forma scritta viene ribadito che il termine non può essere desunto da elementi esterni, ma la data di scadenza contrattuale deve essere esplicitata nel contratto stesso, salvo, i casi in cui il termine “continui a desumersi indirettamente in funzione della specifica motivazione che ha dato luogo all’assunzione, come in caso di sostituzione della lavoratrice in maternità di cui non è possibile conoscere, ex ante, l’esatta data di rientro al lavoro, sempre nel rispetto del termine massimo di 24 mesi”.

Il 31 ottobre è finito il periodo transitorio previsto dalla legge di conversione n. 96/2018 per i contratti a termine e quelli di somministrazione che dal 1 novembre sono entrati, dunque, a pieno regime. Il decreto legge 87/2018 aveva stabilito che l’efficacia delle nuove regole valesse, sia per nuovi contratti, che per proroghe e rinnovi di quelli già esistenti, dall’entrata in vigore del decreto stesso. In sede di conversione in legge, invece, è stato stabilito che le nuove regole fossero vigenti dall’entrata in vigore della legge per i nuovi contratti a tempo determinato, mentre, per proroghe e rinnovi di quelli già in corso le nuove regole sarebbero valse solo dopo la data del 31 ottobre, volendo così dare, per i rapporti esistenti, un maggior lasso di tempo per adeguarsi alle novità normative. È così, che dal 1 novembre, cessato detto periodo transitorio, si applicano appieno le regole del decreto.

Gli effetti della maggiore stretta per questa tipologia contrattuale all’interno del mercato del lavoro, si potranno esaminare solo tra qualche tempo, così da capire se, effettivamente, stringendo le maglie del contratto a termine, ci sarà da parte dei datori di lavoro più propensione verso, invece, il lavoro stabile. Certo è, che questo non sarà possibile, se oltre a restringere il campo della flessibilità contrattuale, non si abbasseranno anche i costi del lavoro a tempo indeterminato rendendolo, così, più appetibile. È anche questo che può fungere da deterrente, oltre ad andare nella giusta direzione creando più vincoli nell’apposizione del termine a un contratto di lavoro rendendolo anche più oneroso per i datori di lavoro. È, infatti, ad esempio previsto nel decreto legge 87/2018 che il contributo addizionale, a carico dei datori di lavoro, dell’1,4% della retribuzione imponibile a fini previdenziali, sia incrementato dello 0,5% ad ogni rinnovo di ciascun contratto a termine.

 

 

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