Superamento della precarietà nel Pubblico Impiego. Il percorso, i dati, gli strumenti e le risorse.
SETTEMBRE 2018
Sindacale
Superamento della precarietà nel Pubblico Impiego. Il percorso, i dati, gli strumenti e le risorse.
di   Alessandro Fortuna
 
Siamo quasi alla vigilia dei due anni dalla sottoscrizione dell’accordo del 30 novembre 2016. Un accordo storico per la nostra Pubblica Amministrazione che ha segnato e sta segnando il cambio di rotta per le legislature e gli esecutivi da quel giorno in poi negli anni. Un impegno che faceva finalmente intravedere la luce dopo anni bui di politiche a ribasso e penalizzanti, nei confronti tanto dei dipendenti quanto delle istituzioni e quindi dei cittadini stessi. Quell’accordo, pertanto, non si limitava a ripristinare finalmente e giustamente la contrattazione, come poi è stato fatto nell’anno seguente, ma si poneva l’obiettivo di rovesciare l’idea stessa di Pubblica Amministrazione ed anzi, meglio, di tutto ciò che è pubblico.
Non si trattava, infatti, solo di bloccare la picchiata del potere d’acquisto dei dipendenti dopo quasi dieci anni di blocco per legge degli aumenti stipendiali, ma la volontà era quella di cambiare la visione della macchina amministrativa da mera spesa improduttiva su cui continuare a tagliare a risorsa essenziale per il benessere collettivo del Paese su cui investire. Sì una risorsa, perché stiamo parlando di istituzioni che forniscono equamente servizi a tutta la cittadinanza e che quindi costituiscono l’impalcatura del nostro sistema di Welfare, che è ciò che rende democratico e libero qualsiasi paese civile. Se perdiamo di vista questo concetto, siamo destinati ad abbandonare i principi stessi che hanno mosso i nostri Padri Costituenti, tra cui quelli della solidarietà e dell’emancipazione. Ma come possono esservi solidarietà ed emancipazione se lo Stato di anno in anno arretra inesorabile lasciando soli i suoi consociati a un destino in balia di immateriali pratiche economico finanziarie che individualmente non sono in grado di superare?
Cos’è lo Stato Sociale se non la sua Pubblica Amministrazione? Essa tramite i servizi che offre alla cittadinanza riduce le distanze tra le fasce sociali e contrasta le emarginazioni, che diversamente il singolo non sempre riuscirebbe a far fronte con le sue sole forze. Forse per alcuni sembreranno ragionamenti non al passo con i tempi, quindi vorrei inquadrarli con un’ottica più moderna oppure, meglio, più confacente alla dottrina neoliberista, usando una delle sue keyword che abbiamo imparato a conoscere in questi anni: “efficienza”. Si sono succeduti uno dietro l’altro provvedimenti legislativi che si presentavano al grido, per l’appunto, di “efficienza” dei servizi resi all’utenza. A questo mantra ne seguivano altri, mi vengono in mente in primis celerità e razionalizzazione. Ebbene, probabilmente, sarebbe stato più che lecito domandarsi però come si sarebbe potuto perseguire l’efficienza e la celerità dei servizi armati di un’idea di razionalizzazione che si sarebbe poi manifestata negli enti solo sotto forma di blocchi e tagli. Come è possibile, ad esempio, offrire un servizio migliore se non si investe nel capitale umano che eroga quel servizio?
Un miglioramento delle “performance” è sicuramente pronosticabile, invece, quando si punta ad aggiornare e incrementare le capacità professionali dei dipendenti di un determinato luogo di lavoro. Per usare un altro termine, un picco di “produttività”, come ci ha mostrato in più occasioni il settore privato, si ottiene quando i dipendenti si recano sereni sul posto di lavoro, consapevoli di poter esprimere la loro professionalità in un ambiente vivibile che concili i propri di tempi di vita con quelli del lavoro. Ma anche a voler mantenere invariati i livelli di produttività, come è possibile farlo se alle fisiologiche uscite di unità di forza lavoro non corrispondono - per anni - nuovi ingressi? Di conseguenza come si fa ad esser efficienti se sotto organico? Il tutto, tra l’altro, a domanda di servizi non invariata ma “esasperata” da una delle crisi globali più importanti della nostra storia.
Per rispondere a questo quesito basta guardare alcuni dati che dimostrano come hanno agito in questi anni le nostre pubbliche amministrazioni a questa - potremmo definirla - emergenza dello Stato Sociale. Ci viene in soccorso l’Aran con una sua recente pubblicazione – di cui riporto un estratto - che ha aggiornato le rilevazioni sulle unità di personale impiegato nella P.A. a tempo determinato o tramite collaborazioni c.d. co.co.co. Ovviamente questi dati devono leggersi anche alla luce de gli altri ben noti sull’età media della popolazione lavorativa pubblica, il cui invecchiamento è stato l’ovvio esito di una scellerata politica di blocco del turn over. Difatti a queste tendenze, le amministrazioni non hanno potuto far altro che ricorrere a forme di lavoro flessibile varie per fronteggiare le esigenze cui comunque, nonostante il taglio dall’alto ai fondi e alle strutture, dovevano rispondere in ragione delle funzioni che allo stesso modo dovevano garantire. Bene! Guardiamo quindi l’entità del fenomeno di cui sto parlando osservando i dati che vi propongo. Al 2016, l’anno dell’accordo, il solo personale contrattualizzato a tempo determinato si attestava a 114.911 unità, in crescita di ben 11 mila unità circa rispetto ai due anni precedenti. A questi si devono sommare, sempre per il 2016, 13.008 unità con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui 4000 da oltre 3 anni. Soffermandoci sul dato relativo agli occupati a tempo determinato, non è assolutamente di poco conto il fatto che poco meno della metà degli stessi ricoprisse questa condizione da oltre 3 anni. Ovviamente non è necessario che mi soffermi su tutta la questione concernente le proroghe contra legem e i dibattiti dottrinali e giurisprudenziali sulle ipotesi di trasformazione di quei rapporti di lavoro.
Quello che mi preme far capire qui è quanto strategico sia stato l’accordo del 30 novembre, perché già allora eravamo a conoscenza della situazione che si trovavano a vivere i lavoratori che rappresentiamo e per questo eravamo più che consapevoli dell’urgenza e della criticità. Per questo quell’accordo deve essere ricordato anche come la breccia che ha riaperto le porte della P.A. ai nuovi ingressi ma soprattutto alla stabilizzazione dei suoi precari storici. L’impegno sottoscritto in quella sede ha trovato poi realizzazione nella novella del Testo Unico seguita di lì a pochi mesi. Questa ha previsto due canali, con diversi requisiti e procedure, di trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a tempo: uno per i contrattualizzati a tempo indeterminato ed uno per le altre forme flessibili eventualmente utilizzate dall’amministrazione. Nei momenti di stesura di questa norma non sono mancati nostri interventi che hanno permesso mano a mano di allargare la platea dei beneficiari senza escludere nessuno. Ora, a ben guardare lo studio dell’Aran, mi vien da dire che abbiamo lo strumento adeguato per risolvere un fenomeno della precarietà nel pubblico impiego che negli anni ha assunto dimensioni paradossali e patologiche. Si tratta, però, di uno strumento che non può e non deve assolutamente rimanere su carta. C’è bisogno di finanziarlo opportunamente per non lasciare nessuno dei tanti lavoratori indietro e su questo fronte le ultime dichiarazioni della neo Ministra Bongiorno sembrano andare verso questa direzione.
Ma più che le rassicurazioni, quello che è veramente necessario sono le coperture sulla prossima legge di bilancio. L’abuso della flessibilità è stata una sorta di male necessario per la funzionalità delle stesse Istituzioni, il cui prezzo però non può esser più in alcun modo pagato dai dipendenti, che già fin troppo ne hanno scontato le conseguenze in termini di dignità professionale e personale. Bisogna risolvere il problema, le norme ci sono e questa rappresenta una priorità per il Paese che quindi merita di vedersi riconosciute le dovute risorse economiche. Contestualmente non si dovrà più costringer gli enti a bloccare le proprie capacità assunzionali, per evitare di incappare nuovamente in questo assurdo contesto che ci siamo trovati ad affrontare. Tutto sembra suggerire – finalmente – il giusto ricambio generazionale della popolazione lavorativa delle nostre PP.AA. e i bandi di concorso sono prossimi. Da qui, ipotizzo, passerà anche una risposta più “celere” alle esigenze di digitalizzazione delle amministrazioni. Perché no? Non potrebbe essere questa una via per riempire di senso un’altra delle keyword del pensiero liberale: “modernità”.
 
 
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