Una storia andina (agosto 2019)
LUGLIO 2019
Agorà
Una storia andina (agosto 2019)
di   Giuseppe Casucci

 

Pacatqui, la parola in lingua Quechua (quella degli Incas, per intenderci) significa luogo nascosto. E, infatti, questa piccola frazione abitata da un centinaio di famiglie, in piena cordigliera nord del Perù è nascosta dal Huapalluasi (una collina il cui nome significa casa delle galline). Dalla strada che porta a Corongo - capoluogo del distretto - Pacatqui non si vede proprio. Una fortunata condizione geografica che in passato ha evitato agli antichi abitanti notevoli seccature. Quella della popolazione Koriyungas è una civiltà antica, ben precedente l’arrivo degli spagnoli nella zona. Koriyunguimarca era la capitale di un popolo fiero conquistato dopo una sanguinosa guerra dagli Incas (nel XIV secolo). Poi, attorno al 1560 arrivò l’esercito spagnolo agli ordini del fratello di Pizarro. La popolazione, del tutto pacifica, fu subito preda delle angherie di una formazione militare composta in gran parte da ex galeotti della penisola iberica, accompagnati da alcuni frati agostiniani. Fortunatamente, però, la posizione recondita di Pacatqui risparmiò la popolazione da saccheggi, stupri e violenze varie. Tre secoli dopo, a fine Diciannovesimo secolo, durante la guerra del Pacifico (1879-1884), nemmeno l’esercito cileno di passaggio si accorse dell’esistenza di questo minuscolo e poverissimo centro abitato. Meglio così, viste le storie tramandate verbalmente di stupri e violenze perpetrate anche dagli odiati vicini sudamericani. Dunque nessun invasore, neanche l’efferata Inquisizione, si accorse subito dell’esistenza di questa piccola frazione della regione Ancash. Così gli antichi abitanti del paesino, a suo tempo numerosi, furono lasciati ai loro costumi e riti ancestrali, fino all’arrivo molti anni dopo dell’Indipendenza de Perù e di un governo repubblicano Malgrado la <Pax cattolica>, imposta dai frati agostiniani, los cholos della zona hanno continuato a seguire molte tradizioni antiche dei propri padri, curandosi con erbe e radici naturali ed evitando l’uso del denaro e scambiano le merci prodotte con la pratica del trueque (baratto).

 

Avevano anche alcune pratiche religiose connesse all’adorazione del sole, tradizioni pagane che, con i secoli, sono state via via dimenticate. Vivendo dunque dei frutti della terra (di una terra non sempre benevola) ed anche di commercio locale ma comunque incuranti per secoli delle rivoluzioni industriali e dei cambiamenti che avvenivano in città. Senza strade carrabili, fino a pochi anni fa in Ancash si viaggiava a dorso di mulo, a cavallo o con carri da trasporto improvvisati, a tutto beneficio dell’integrità dell’ambiente e della vita priva di stress, ma naturalmente anche al costo di un relativo Isolamento. Non è un caso se qui fin dall’antichità, o si muore giovani a causa di qualche incidente o malattia, oppure si arriva facilmente a sfiorare i cento anni di età. L’ospedale più vicino è a tre ore di viaggio in auto e a volte non basta curarsi con le erbe. Inoltre i contadini non godono di copertura medica e spesso non hanno i soldi per pagarsi le cure. Comunque, niente stress, acqua di sorgente, aria pura e cibo biologico rendono la vita, magari difficile, ma sana e spesso lunga. Per decenni niente corrente elettrica, niente acqua potabile, sconosciuti i servizi sanitari o diavolerie come il telefono o la televisione. Un bene? Forse sì e forse no. Prima o poi comunque l’arrivo (qui moderato) della globalizzazione è risultato inevitabile. Ed oggi i giovani godono della presenza di smartphone ed internet. Pacatqui, come dicevamo, è un piccolo centro abitato da alcune centinaia di indigeni (cholos, come li chiamano con una punta di razzismo la gente della costa). Discendono dal popolo Inca, sottomesso con la violenza cinque secoli fa dagli spagnoli. Cosa sia rimasto di quell’antico impero e cultura è difficile dirlo. Prima della diffusione della TV la lingua Quechua si parlava diffusamente nelle Ande, sia pure in una composita varietà di dialetti. Oggi tra le nuove generazioni, prevale lo spagnolo. E con il Quechua si perdono saperi antichi, tradizioni, e finanche abitudini magari pagane, ma parte importante delle radici antropologiche culturali di questo popolo. Il mondo scolastico ha cercato di contenere le perdite della cultura indigena, ma la dispersione dei valori antichi continua. L’arrivo dell’esercito spagnolo in questa zona è tramandato verbalmente di generazione in generazione, con storie di stupri e violenze inaudite.

 

Assieme poi alla evangelizzazione forzata condotta dai frati agostiniani. Bisogna ricordare che gli Incas non conoscevano la scrittura, la ruota e il calcolo numerico o il commercio avvenivano su di un sistema di comunicazione basato sui nodi. La più violenta contro i riti Pagani fu proprio la Chiesa che non esitava a condannare a tortura e morte chi non si convertita, o chi veniva accusato di eresia. “Avremmo fatto volentieri a meno di questa marmaglia”, commenta Shanti un contadino della zona. È un uomo basso di statura, capelli irsuti nero ebano, pelle bruciata dal penetrante sole andino. Porta un poncho, pantaloni di lana grezza color cenere ed un paio di yanqui, un sandalo fatto con la gomma di pneumatico. La sua è una vita dura, con alzatacce alle 4 del mattino per irrigare la sua Chacra, arare o per occuparsi del bestiame. Non gli manca però l’orgoglio di essere discendente da un grande popolo indigeno. “Un tempo la civiltà Koriyunga era fiorente. Corongo era una città abitata da decine di migliaia di persone; il livello di vita era migliore e ognuno lavorava la propria terra. Il commercio non era molto esteso nel territorio a causa delle scarse vie e mezzi di comunicazione, ma questo aiutava mantenere intatte le tradizioni. Gli spagnoli hanno depredato e distrutto tutto, in nome di una civiltà estranea alle nostre tradizioni”. “Si sono autoproclamati regnanti per diritto divino, appoggiati dai preti che non evitavano a chiudere la bocca a chi dissentiva”. Oggi Corongo è chiamata la città dei lucchetti: infatti la maggioranza delle case è chiusa a lucchetto, mentre la gente emigra verso la costa. Dunque il processo di urbanizzazione e spopolamento della provincia continua inarrestabile, verso Lima che ospita ora oltre 10 milioni di persone, quasi un terzo della popolazione nazionale.

 

“Oggi, dice Shanti, sono rimasti a Corongo meno di mille abitanti: la gente scappa verso la capitale, perché qui non c’è futuro per i giovani”. Certo ora la colpa non è degli spagnoli, ma di una classe politica secondo molti corrotta. Torniamo però al XVI° secolo. “Ma non si sono ribellati i vostri antenati?”, viene da chiedersi. In effetti la storia del Perù è costellata da feroci ribellioni indigene, con eccidi di spagnoli. Rivolte però poi soffocate nel sangue. Tra il 1780 ed il 1782 una rivolta indigena guidata dal leader Inca Tupac Amaru II fece tremare dalle fondamenta la dominazione spagnola, con viceré e governatore assediati nelle città di Lima e di Cuzco. La tentata rivoluzione, all’insegna della reinstallazione dell’impero del Sole, fallì dopo due anni di combattimenti solo a causa della superiorità tecnologica dei gringos che chiesero e ricevettero armi e rinforzi dalla Spagna. La rivolta era scoppiata contro il malcostume della classe governante e contro l’aumento delle tasse e soprattutto a causa dell’estremo sfruttamento degli indios sia nelle molte miniere di cui è ricca la cordigliera sia nei latifondi, proprietà dei bianchi naturalmente. La rivolta fece comunque centinaia di morti “gringos” prima di essere repressa a cannonate. In due anni l’insurrezione indigena si era estesa al Cile ed alla Bolivia, prendendo di sorpresa le guarnigioni spagnole. Il viceré si avvalse dell’aiuto di soldati negri, meticci ed in generale costeñi sulla base dell’atavico razzismo contro los cholos delle Ande e della Selva. Inoltre il programma rivoluzionario di Tupac Amaru II era nebuloso e poco convincente per le diverse etnie contrapposte sul campo, soprattutto sul versante del modello di società da costruire dopo la cacciata degli spagnoli. Nondimeno il retaggio di un rancore antico permane vivo in molti peruviani e la Spagna è ancor oggi considerata culturalmente, non madre patria ma matrigna. “È pur vero, interloquisce Marcos, un giovane del posto particolarmente versato nella storia della regione Ancash, che è inutile ormai prendersela per personaggi ed eventi accaduti cinque secoli fa. La classe politica di oggi non è meno corrotta degli spagnoli di Pizarro. Basta vedere cosa succede nel nostro Perù: gli ultimi 5 presidenti sono stati tutti arrestati o ricercati per corruzione. Uno per violazione dei diritti umani. L’economia stenta a crescere e tutte le attività produttive finanziarie o commerciali sono concentrate nella capitale. La provincia è abbandonata ed i giovani lasciano il duro lavoro nei campi per andare in città magari a vivere di espedienti”.

 

E Shanti aggiunge: “vanno a vivere nei pueblos jovenes, una enorme baraccopoli costruita sulle colline intorno a Lima spesso senza acqua, luce o servizi sanitari. Se debbo vivere nell’immondizia allora è meglio rimanere nel mio paesino, dove ho una casa di adobe e vivo del mio lavoro nei campi”. Inoltre la formazione scolastica ricevuta nelle scuole in montagna o nella selva non è ritenuta adeguata nella capitale. Il risultato è che gente scolarizzata finisce per fare i lavori più umili e appagati a Lima. C’è poi il tema dell’invasione dei venezuelani. La crisi umanitaria in Venezuela ha portato milioni dei suoi abitanti ad abbandonare il Paese. Soprattutto verso Colombia, Brasile, Ecuador e Cile, ma anche Peru. Attualmente, nel paese andino ci sono oltre 800 mila venezuelani, occupati soprattutto nel commercio turismo servizi alla persona. Li trovi dappertutto, nella capitale, come in provincia, disposti a lavorare a prezzi stracciati ad un salario molto più basso del sueldo minimo stabilito per legge (circa 800 soles, 220 euro). L’effetto è quello di un enorme dumping salariale e sociale che sta producendo un forte malumore e rigetto da parte della popolazione peruviana. L’economia peruviana, dopo anni di crescita basata sulla vendita di materie prime sta oggi soffrendo una fase di ristagno con forti cadute anche sul fronte occupazionale. Da qui anche il cambio di atteggiamento verso gli immigrati. Un anno fa la gente accettava di più i venezuelani, e si mostrava solidale per il loro abbandono forzato del Paese, a causa di un governo dittatoriale. Oggi però le cose stanno cambiando, il sentimento di rigetto è in parte fomentato dai mass media che danno spazio solo ai casi di cronaca nera in cui sono coinvolti i vicini del centro America, aumentando così la sensazione di una maggiore presenza dei venezuelani e della loro presunta (e falsa) propensione a delinquere. Ci si chiede allora se il Perù, che ha due terzi della forza lavoro precaria, si possa permettere una nuova guerra tra poveri, oltre alle ataviche contraddizioni sociali che non ha mai risolto. E per los cholos andino, l’abbandono del lavoro nei campi, della pastorizia e del commercio locale non è più una scelta vincente, anche se spesso continua a sembrare obbligata. L’espressione di uno storico peruviano ottocentesco definì il Perù come <un mendicante seduto sopra un cumulo d’oro>. Il riferimento naturalmente è alla depredazione effettuata dagli spagnoli che riempirono numerose loro navi dell’oro incaico. Il Perù di oggi con le sue ricchezze naturali, forti contraddizioni sociali, larghe aree di povertà e fragile democrazia, affronta oggi la più grande sfida: governare lo sviluppo non solo a Lima ma anche nel resto di un Paese esteso 5 volte l’Italia e con metà della nostra popolazione.

 

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