Il debito pubblico che ribaltò la Francia
LUGLIO 2019
Inserto
Il debito pubblico che ribaltò la Francia
di   Piero Nenci

 

I debiti sono una brutta bestia, riservano sempre pessime sorprese, sia quelli personali o familiari o di un’impresa economica. Figuriamoci quelli giganteschi di un intero Stato. La Francia di Luigi XVI rovinò sotto il loro peso. Sarebbe bene che chi governa non lo dimenticasse mai. In occasione della ricorrenza del 14 luglio 1789 quando a Parigi scoppiò la prima scintilla di violenza dando inizio ad un incendio civile che durò un decennio e mozzò la testa a quasi sedicimila seicento persone (il 60 per cento operai e contadini, il 25 borghesi) ripercorriamo le cause della famosa rivoluzione e i primi atti che valsero a stravolgere un sistema di governo monarchico in auge da secoli ma ormai vetusto: incapace di capire la società del tutto nuova che era germinata, di imbrigliarne le spese e ancor meno di reggere un popolo che aveva preso coscienza dei propri diritti e più non accettava di essere guidato come un gregge. Una rivoluzione che ci ha lasciato una bella Dichiarazione dei diritti dei cittadini ma anche un brutto esempio di populismo.

 

 

 Elencando tutti i Luigi che regnarono in Francia Jacques Prévert arrivato a Luigi XVIII concluse: “e poi più niente…che razza di gente è questa che non è stata capace di contare fino a venti?” Complessivamente i re francesi di nome Luigi furono solo 17 (perché un Luigi XVII non ci fu, ci fu un diciottesimo) e ai fini della nostra storia ci interessano il famoso XIV, l’insulso XV e il malcapitato XVI che finì sotto la lama del boia. Luigi XIV si era sposato con Maria Teresa d’Austria, ebbe due figli maschi che non poterono succedergli perché morirono prima di lui; né poté salire al trono uno dei suoi nipoti: due morirono prima di lui, il terzo fu eletto re di Spagna col nome di Filippo V. Non restava che un maschietto, figlio del delfino: divenne re di Francia col nome di Luigi XV e sposò la polacca Maria Lesczynska. Anche a lui morì il delfino perciò la successione passò al cadetto che si era sposato con Antonietta d’Asburgo e assunse il nome di Luigi XVI. Va ricordato che in Francia al primo figlio maschio del re – destinato a succedere al padre – veniva attribuito il titolo di “delfino”. Niente a che fare coi cetacei: una regione francese, a ridosso delle Alpi, si chiamava Delfinato. Nel 1349 il regnante di questa regione la cedette a Carlo, nipote del Luigi che regnava allora, come appannaggio personale e a condizione che quel possesso passasse poi al primogenito successivo destinato al trono. I primogeniti dei re di Francia vennero da allora insigniti del titolo di “delfino” ed erano loro i designati a regnare e in possesso di quella preziosa dote. Un secolo dopo il Delfinato venne inglobato nel territorio francese ma il titolo rimase. Il capoluogo del Delfinato (ora diviso in tre dipartimenti) è Grenoble. Al tempo di Luigi XVI, nel 1789, la Francia fu sconvolta da una violenta rivoluzione. Una rivoluzione molto spiccia, come scrivono gli storici, durata appena 75 giorni: dal cinque maggio con la convocazione degli Stati Generali, al 17 giugno quando il terzo stato si proclamò Assemblea nazionale, al 9 luglio quando si autopromosse Assemblea costituente, al 14 luglio quando un gruppo di parigini facinorosi assaltò la prigione della Bastiglia (dove peraltro non era rinchiuso nessun politico) e massacrò alcuni disgraziati detenuti. A questa data la rivoluzione è ormai compiuta. Tutto quello che verrà dopo sarà l’aggrovigliato e violento crescere e assestarsi della Repubblica. Ma perché scoppiò il capovolgimento di un sistema cementato da secoli? In due parole: perché era in atto una spaventosa crisi economica che nessuno voleva pagare e sapeva arginare e che i due ceti fino allora dominanti – la nobiltà e l’alto clero – volevano gravasse sulle spalle del terzo ceto che comprendeva la massa di tutti gli altri cittadini. Un clamoroso caso di insipienza: nobili e clero altolocato, che pure erano i ceti più istruiti, non vollero capire e non seppero valutare la gravità della situazione, Luigi XVI non ebbe il polso per imporre i rimedi necessari che vari ministri gli avevano prospettato. E allora il popolo prese in mano la situazione e in un breve lasso di tempo capovolse l’ordinamento costituzionale dello Stato assumendosene tutte le conseguenze, formulò una nuova Costituzione e dettò nuove leggi. “All’inizio delle rivoluzione – ha scritto la storica Maria Pia Casalena – ci fu una crisi finanziaria trasformatasi presto in crisi politica che senza la convocazione degli Stati Generali non presentava vie d’uscita”. Una volta innescata, la rivoluzione si sviluppò lungo un intero decennio attraverso varie fasi molto turbolenti: la costituente che tolse il potere al re e lo consegnò al popolo, la legislativa, la convenzione, il direttorio, il consolato. Risfogliamo queste pagine di 230 anni fa perché ci si trovano tanti parallelismi coi nostri tempi. Chissà, potrebbe venirci qualche idea utile.

 

Monarchia quasi assoluta

La Francia di fine ‘700 di nome era sì una monarchia assoluta, in pratica lo era molto meno. Sotto Luigi XV il prestigio reale era molto calato, sia per la sua condotta personale sia per lo spadroneggiare delle due maggiori favorite del re: la signora Pompadour prima e la signora Du Barry poi. E anche per alcuni insuccessi in politica estera. Inoltre il potere assoluto del re veniva limitato da una serie di consuetudini che avevano forza di legge, il potere legislativo trovava intralci in alcune principi fondamentali del regno, quello esecutivo doveva contrastare l’ereditarietà e anche la venalità in atto da tempo per molte cariche. La rete degli uffici e delle funzioni regie, imposta da Luigi XIV, più che sostituirsi, si era in molti casi sovrapposta a tutto un sistema di uffici e funzioni locali e feudali in atto da secoli. Il che creava confusione, complicazioni, insoddisfazioni e incertezza giuridica in molti settori della vita pubblica. E tuttavia nell’immaginario popolare il re è sempre l’“unto del Signore”, è capace di miracoli, è un giudice giusto, un protettore dei suoi sudditi. Quando però i filosofi illuministi appannano la sua figura e un’indomabile crisi economica indebolisce il suo potere riprendono forza i fermenti, gli autonomismi, i regionalismi, l’insofferenza verso i privilegi, le contraddizioni e le incertezze giuridiche. Perché accadeva, ad esempio, che accanto alle 33 generalità in cui era stato suddiviso il regno coesistesse ancora la precedente suddivisione in province (circa quattrocento) i cui sovrintendenti conservavano alcune delle antiche attribuzioni giudiziarie, finanziarie e politiche. In varie città erano ancora in vigore moltissimi statuti del passato. E mentre al nord il diritto era amministrato abbastanza uniformemente, nelle zone del centro e del sud della Francia si sovrapponevano circa trecento diversi costumi giuridici. E su tutti poteva incombere anche la giustizia reale secondo cui chiunque poteva essere arrestato e detenuto senza processo. O potevano arrivare la giustizia signorile o quella ecclesiastica, ognuna con le sue competenze, i suoi tribunali e le sue pene. Le stesse cariche della magistratura erano ereditarie e venali: i loro titolari costituivano una categoria a parte, la nobiltà di toga. Le procedure erano lente, inadeguate, crudeli: ancora in uso la tortura. Peggio poi il sistema fiscale: l’imposta diretta principale era la taglia, dalla quale erano esentati nobiltà e clero; in occasione di alcune guerre erano state aggiunte delle accise: la decima, poi sostituita con la ventesima e cui si aggiunse la capitation. In teoria dovevano gravare su tutti, in pratica gravavano su chi già pagava la taglia. Le imposte indirette erano appaltate e gli appaltatori si rifacevano in abbondanza sul costo dell’appalto. Esistevano anche dogane interne e tasse su taluni beni, la più odiosa delle quali era la gabella sul sale che tutti erano costretti ad acquistare sia pure in minima quantità. E anche questa era riscossa in vari modi: c’erano luoghi sottoposti a piccola gabella, altri a grande gabella, altri del tutto esenti. Insomma, una gran confusione, inesistente l’equità o del tutto approssimativa; quindi lo scontento era enorme.

 

I tre stati

I francesi nel 1789 erano tra i 25 e i 26 milioni di persone, divise e appartenenti a tre gruppi diversi, chiamati stati (o ceti o ordini o classi sociali). Il clero: circa 130 mila individui, riuniti in assemblea ogni cinque anni. È una classe sociale molto ricca: gode di diritti terrieri, riscuote la decima sui raccolti, in molti casi continua a godere di altri diritti feudali. Con le sue rendite il cleroperò mantiene ospedali, ospizi e scuole e ogni cinque anni offre al re un dono per le spese generali dello Stato. Ma la ricchezza è in mano solo all’alto clero, tutto di origine nobiliare, composto in gran numero dai figli cadetti che non hanno diritto all’eredità paterna. Il basso clero, quello che vive tra i villani, ne condivide anche la povertà, le tribolazioni e le agitazioni. I nobili: circa 350 mila individui, divisi tra nobiltà di corte, di provincia, grande e piccola nobiltà, nobiltà di spada o di toga. Circa 20 mila individui hanno grandi rendite per cui possono vivere a corte dove si accaparrano pensioni e provvisioni elargite dal re, lasciando la cura delle loro terre e dei loro affari ad amministratori raramente onesti. Tutti gli altri vivono sulle loro proprietà esigendo prestazioni e diritti feudali. La monarchia ha sottratto loro la funzione politica ma ne ha rafforzato le condizioni di privilegio sui loro soggetti; per loro sono disponibili le carche militari e politiche. Il terzo stato: sono la quasi totalità; comprendeva borghesi, artigiani, operai, rurali e braccianti di ogni genere; i piccoli proprietari godevano complessivamente di circa la metà della proprietà terriera del Paese. Questo ceto non poteva essere molto unito tanto diversi erano i loro interessi: i borghesi tendevano a distinguersi da chi lavorava materialmente; sono banchieri, commercianti, industriali, liberi professionisti. È gente istruita, piacciono loro le teorie illuministiche, chiedono l’abolizione dei privilegi e delle divisioni coi ceti superiori ma non accettano facilmente le riforme in senso democratico verso il basso. Gli artigiani sono organizzati in corporazioni di mestiere, chiuse e gelose della loro professionalità. La maggioranza degli individui del terzo stato è però legata alla terra: piccoli e piccolissimi proprietari o lavoratori che hanno in affitto la terra altrui o mezzadri; e poi la massa, calcolata in più di un milione di individui, che vive ancora in condizione bracciantile semi-servile. È particolarmente dura la vita dei giornalieri agricoli e degli artigiani, assunti senza regole e costretti a lavorare anche fino a 16 ore al giorno. Per 10-14 ore di lavoro un operaio specializzato riesce a guadagnare 30-35 soldi al giorno, un manovale 10-15 soldi, un salariato agricolo 12-18 soldi. Si è calcolato che nel 1789 la rendita fondiaria media per ogni ettaro di terreno coltivato arrivasse a circa 50 lire: 12 al proprietario, 5 al coltivatore, 25 per i salari degli stagionali, 7 per tasse e decime, più le spese accessorie. Oltre alle tasse gravavano sui lavoratori anche alcune corvées: per il re (strade e difesa), per il padrone (censo e banalità) e per il clero (la decima). La tassa più odiata era però la taglia e per evitare che aumentasse i piccoli proprietari evitavano di migliorare le condizioni delle case, delle colture e degli allevamenti. Perché nel 1789 questa massa di individui comincia ad agitarsi se fino ad allora aveva sopportato? Spiegano i sociologi: sono maturati, hanno preso coscienza della loro situazione, reclamano dei diritti e non sono più disposti a sopportare. I filosofi hanno aperto loro gli occhi; pochi del terzo stato li hanno letti ma alcune nuove idee – semplificate all’essenziale – sono penetrate, hanno reso loro inaccettabile quello che avevano patito per secoli. È la cultura che si diffonde che inocula in loro lo spirito di rivolta. Comincia a ribollire anche tra i diseredati la convinzione che si possa, che si debba cambiare.

 

La ricchezza del Paese

Tuttavia non fu la povertà della gente la causa della rivoluzione in Francia. Scrivono gli storici che lo sviluppo dell’agricoltura non aveva prodotto, come in Inghilterra, un predominio del latifondo. L’industria del lusso delle manifatture reali tirava forte: drapperie, seterie, vetrerie, porcellane, ecc. Il Paese s’era dotato di una fitta rete di canali e di strade, una rete di trasporti efficiente e veloce che favoriva lo spostamento delle merci, delle derrate alimentari, i viaggi delle persone e delle idee. Complessivamente la rete stradale superava i 40 mila chilometri, un posto in diligenza costava 16 soldi (compreso un bagaglio di 5 chili) più il costo della lunghezza della tratta; in carrozza si pagavano 10 soldi. Con la buona stagione si riusciva a compiere anche 100 chilometri al giorno: in media occorrevano 8 giorni per la tratta Parigi-Masiglia, 5 per Lione, 3 per Bruxelles. Chi poteva viaggiava con mezzi propri sui quali gravavano però forti tasse progressive. I porti sull’oceano commerciavano con le Antille e Marsiglia negli ultimi decenni aveva quintuplicato il valore delle sue attività commerciali coi Paesi d’Oriente. È vero che nel 1786 un trattato con Londra aveva aperto il mercato francese ai prodotti inglesi le cui manifatture producevano in maggior quantità e a minor costo, il che aveva provocato una depressione industriale; e che negli anni 1787-89 si era verificato un periodo di cattivi raccolti che aveva fatto crescere i prezzi, provocato carestia e disagi alle classi più povere che protestarono con sollevazioni e vandalismi. Ma, sostanzialmente, la Francia era ricca o era, più o meno, alla pari degli altri Paesi europei. Le erano semmai mancate quelle riforme che in altri Paesi – guidati da sovrani più attenti e ministri più ascoltati – erano state fatte ed erano riuscite a soddisfare le nuove esigenze e incanalare gli eventuali malcontenti. Alle riforme si era pensato anche a Parigi ma poi le incertezze e le debolezze di chi doveva attuarle e l’ostilità di chi non le voleva attuare avevano impedito che venissero realizzate. Soprattutto, però, erano maturate esigenze ed aspettative sempre più avanzate e radicali, alimentate in particolare dagli scritti di Voltaire e Rousseau (morti appena dieci anni prima), che col tempo erano diventate incontenibili. Sarebbe bastava una scintilla per farle esplodere. La scintilla fu il deficit pubblico.

 

La crisi finanziaria

Bisogna tornare a qualche decennio prima dell’89, alla guerra dei sette anni. Francia e Inghilterra erano in lite per le colonie del Nord America e dell’India. Nel luglio 1755 gli inglesi riuscirono a mettere sotto sequestro circa 300 vascelli mercantili francesi. Oltre al danno fu un grave affronto; Parigi allora cercò l’alleanza di Vienna e siccome Austria e Germania erano in lite per il predominio su alcuni Stati tedeschi si vennero a formare due schieramenti: con Francia e Austria si allearono la Russia, la Sassonia, la Svezia, la Spagna, sull’altro fonte si schierarono Prussia e Hannover. Cominciarono gli scontri: dapprima furono i prussiani a vincere contro i francesi, poi fu sconfitto Federico il Grande da austriaci e russi. Poco dopo morì la zarina Elisabetta e il suo successore, Pietro III, preferì far cessare ogni ostilità. Con le trattative che seguirono l’Inghilterra dovette cedere la colonia delle Baleari ma gli inglesi reagirono e guidati dal ministro Pitt nel 1759 attaccarono le colonie francesi del Nord America e due anni dopo quelle indiane. Nel 1763 si tornò a trattare: la Francia fu costretta a cedere a Londra l’Acadia, il Canada e l’estuario del San Lorenzo, numerose isole delle Antille, il Senegal e quasi tutti i possessi che deteneva in India. Insomma perse la maggior parte del suo primo impero coloniale. Per di più questa avventura militare costò alla Francia la metà del suo intero bilancio annuale solo per l’ammortamento dei debiti contratti per farla. Nessuna paura, si diceva, i re francesi erano sempre sopravvissuti a bancarotte e debiti; tuttavia ora si era diffusa una grande sfiducia verso i Paesi dominanti, era diventato difficile trovare crediti. Per cercar di risanare la situazione furono incaricati i ministri Jacques Turgot e poi Jacques Necker. Il primo propose la riforma del sistema fiscale e la riduzione della massa delle spese improduttive ma nobiltà e clero si opposero; il secondo propose di tamponare la situazione chiedendo nuovi prestiti ai banchieri europei ma intanto andavano tagliate le spese riducendo i poteri dei vari parlamenti locali e abolendo le esenzioni fiscali. Per farsi ascoltare, nel 1781 Necker pubblicò il bilancio dello Stato: 503 milioni di livres di entrate contro 629 milioni di uscite, di cui gli interessi sul debito pubblico, fortemente sottostimato, era di 318 milioni. Nonostante tanti cittadini alla fame le spese della corte per mantenere il proprio fasto, le feste, i regali, le provvigioni e le pensioni ai cortigiani ammontavano a 38 milioni. Luigi XVI si offese per la pubblicazione del bilancio pubblico, non accettò la proposta di una riduzione del potere dei parlamenti locali, rifiutò l’attuazione delle riforme suggerite e licenziò Necker sostituendolo con Charles de Calonne. Necker merita qualche riga: era un ginevrino di religione protestante, impiegato come commesso in una banca della sua città che gestiva depositi e conti correnti di clienti stranieri per la maggior parte impegnati in prestiti proprio alle monarchie; una volta, sostituendo il primo commesso, della sua banca compie una fortunata e lucrosa operazione in borsa, per cui viene promosso e poi associato alla proprietà per il suo acume negli affari. Specula sui titoli del tesoro francese ed inglese, sul mercato dei cereali e presta denaro al governo di Luigi XVI. Nel 1772 si ritira dal lavoro di banchiere e tenta la via della politica presentandosi con la pubblicazione di un saggio sulla libertà del commercio dei cereali che critica, così come accusa la teoria del diritto “naturale” della proprietà che definisce piuttosto “una legge degli uomini” basata sulla forza di un “trattato di costrizione”. Dunque al ministero finanziario francese arriva Calonne: sostenne che per sanare la situazione occorreva un sistema tributario uniforme per tutta la Francia e che le tasse le dovevano pagare proprio tutti, anche il clero, anche i nobili. Fu bocciata anche questa soluzione, ma intanto si stava profilando la bancarotta. Furono pubblicati nuovi dati: i prestiti ammontavano a 1.646 milioni, il deficit annuale marciava a 46 milioni l’anno. Fu ascoltato il parere di de Brienne che propose una nuova imposta sui latifondi, la liberalizzazione del commercio interno e la redenzione delle corvée. Ma a questo si oppose il parlamento di Parigi. Allora per trovare una soluzione che potesse essere proposta e imposta a tutti non restava che la convocazione degli Stati generali che non erano stati più convocati dal 1614. Abbiamo accennato all’opposizione alle varie proposte di riforme da parte dei ceti elevati e dei parlamenti. Va spiegato che questi parlaments locali erano corporazioni giudiziarie che solo nominalmente facevano parte della amministrazione reale; fungevano da corti d’appello per tutti i casi civili e criminali e rappresentavano il punto di forza delle classi superiori in funzione antimonarchica. Erano costituiti da magistrati, proprietari delle loro cariche quindi difficilmente removibili. E, costituendo una corporazione, erano loro stessi a regolarne l‘accesso. Inoltre erano ricchi e anche esenti da imposte. Va aggiunto che pure i borghesi facenti parte del terzo stato godevano di alcuni privilegi ed alcune esenzioni. Un vero groviglio.

 

Gli stati generali

L’idea che solo gli Stati Generali avrebbero potuto decidere una soluzione alla questione dell’ormai non più sopportabile debito pubblico cominciò a farsi strada e nel dicembre 1787 il re promise di convocarli entro cinque anni. Fu davvero lungimirante. L’anno dopo a Grenoble ci furono delle sollevazioni di protesta causate dalla crisi economica; intervenne l’esercito, la popolazione salì sopra i tetti delle case e lo mise in fuga bersagliandolo con le tegole. Così Luigi XVI si decise: il 5 luglio 1788 promulgò il decreto per la convocazione della consultazione elettorale per arrivare alla riunione degli Stati Generali; il decreto, tra l’altro, diceva che tutti gli studiosi e le persone istruite del regno, in particolare i membri delle accademie di Parigi, rivolgessero al signor Guardasigilli studi, informazioni e memorie sugli argomenti contenuti nel decreto. Ha scritto Roberto Moro che “le risposte furono una valanga: la campagna elettorale nel senso moderno della parola, era cominciata; un oceano di documenti: più di ventimila pamphlet, discorsi, avvisi riflessioni, appelli, rimostranze, 63 mila cahier de doléance, una montagna di processi verbali, circolari, regolamenti, decreti applicativi”. I cittadini che si mossero e si presentarono per eleggere i propri rappresentanti furono quattro (o forse sei) milioni, le assemblee di base trenta o quarantamila; il movimento fu eccezionalmente capillare, elezioni e ballottaggi si susseguirono ed elessero, a vari livelli, migliaia di deputati. “Gli archivi ci trasmettono un’atmosfera di eccitazione incontenibile che si trasforma in febbre elettorale, un enorme rito collettivo e un trionfo mediatico. Il mezzo rivoluzionario più usato fu la stampa: fogli, libelli, manifesti, caricature, immagini ma anche canzoni, spettacoli e banchetti”. Non appena eletti, i rappresentanti dei tre Stati decisero uno sciopero delle imposte. Come era acceso il fervore elettorale altrettanto infuocata fu la serie delle richieste. Dalle province si chiedeva la fine degli oneri feudali e l’uguaglianza fiscale, la borghesia voleva la modifica della divisione dei poteri e dei rapporti tra i vari ordini, la nobiltà e il clero difendevano le loro storiche prerogative. Le richieste più rivoluzionarie erano senz’altro quelle del terzo stato che voleva venisse raddoppiato il numero dei propri rappresentanti, in base alla realtà demografica e che, soprattutto, si votasse pro capite invece che col voto collettivo per ordine. A dare forza a queste richieste intervenne inaspettatamente un opuscolo scritto da Emmanuel Sieyès, dal titolo Cosa è il terzo stato? Sosteneva: “Il terzo stato è tutto poiché raccoglie le forze attive di tutta la nazione; finora non è stato nulla; chiede di essere d’ora in avanti qualche cosa”. Una formulazione che fu accolta con entusiasmo e sventolata come un vessillo di lotta. In due mesi del saggio di Sieyès ne furono vendute 30 mila copie. Questo autore aveva 41 anni, era stato eletto deputato per la città di Parigi. Proveniva da una famiglia piccolo borghese, il padre l’aveva avviato alla carriera ecclesiastica, diventato prete aveva esercitato la sua missione in Bretagna, poi era di ventato vicario del vescovo di Chartres. Nel clima di quegli anni si era interessato sempre più ai problemi sociali, scontrandosi con la nobiltà e abbracciando la causa del terzo stato. In Bretagna era stato eletto deputato, nel 1788 aveva pubblicato un primo saggio sui privilegi dei nobili e dei ricchi ecclesiastici, l’anno dopo l’opuscolo sul terzo stato che definiva “il motore della Francia” sulle cui spalle gravavano l’agricoltura, l’industria, il commercio e le professioni liberali e in più anche l’onere della fiscalità. I suoi rappresentanti avevano il diritto di porre le basi di un nuovo regime. La nobiltà invece era ormai priva di valore, non aveva posto nella nuova organizzazione sociale, era solo un peso, non avrebbe dovuto neppure far parte della nazione. In questa bollente vigilia piena di aspettative e di incognite, il re accelerò i tempi e convocò per il 5 maggio 1879 quegli Stati Generali che non si riunivano da 175 anni e, licenziato il ministro delle finanze de Brienne, richiamò al ministero Jacques Necker, nominandolo direttore del tesoro e delle finanze. Questi varò delle riforme per tentar di razionalizzare la spesa pubblica dello Stato e semplificarne l’amministrazione attirandosi l’ostilità dei ceti privilegiati. Nel 1781 aveva pubblicato quel Rendiconto per il re nel quale aveva denunciato la lacrimevole condizione delle finanze francesi, indicandone cause e responsabili, pubblicazione apprezzata dagli studiosi e dalla gente che aveva – come abbiamo già detto – indispettito il re che l’aveva licenziato. Ora però, aggravandosi la crisi, aveva dovuto richiamarlo. La corte non aveva approvato e il re l’aveva sospeso di nuovo e poi quasi subito riassunto ascoltando le proteste dei popolari. Si poteva salvare la grave situazione dello Stato in tal modo?

 

Versailles

Una delle voci di spesa più gravose per il governo di Luigi XVI era la corte, cioè il complesso di Versailles. Questa località dista da Parigi appena una quindicina di chilometri in direzione sud-ovest. Nel X secolo in questo territorio si erano insediati i monaci che ne coltivavano le terre. Alla fine della guerra dei cent’anni (dopo il 1450) il borgo di Versailles si presentava devastato, i terreni abbandonati. Li acquistò la famiglia Soisy che vi eresse un piccolo castello e li fece rivivere. Poi la proprietà passò alla famiglia Versailles e in seguito l’acquistò Luigi XI per sé, per farvi la propria residenza di campagna. Nel 1561 risulta proprietà di Marziale de Loménie che la ingrandì ma che non ne potette godere perché venne assassinato durante la famosa notte di San Bartolomeo. Nel 1575 ne risulta proprietario Alberto di Gondi, uno dei fiorentini che sostenevano Caterina de Medici, che aveva acquistato l’intera proprietà per (si calcola) 700 mila euro di oggi. I re Francia potevano frequentare il parco di Versailles ogni volta che avevano voglia di andare a caccia. Infine Luigi XIII decide di acquistarlo e fissarvi la residenza della corte. Suo figlio Luigi XIV comincia ad ingrandire tutta la proprietà e a riempirla di edifici per sé, la propria discendenza, le proprie amanti, per i ministri e i cortigiani. I successori continuarono allo stesso ritmo. Finché Luigi XIV costruì per sé e la propria famiglia attinse ai fondi del proprio appannaggio (stabilito dal governo) e dalle rendite della colonia del Canada (sulle quali il Parlamento non aveva il controllo). Ma quando tutto quell’erigere divenne la reggia, la sede del governo, dei ministeri e dei loro uffici tutte spese passarono a carico dello Stato sotto il controllo del ministro delle finanze Jean-Baptiste Colbert. Il quale ebbe l’idea di fare della grande impresa di Versailles una mostra campionaria delle attività produttive francesi e nazionalizzò tutte le aziende che vi lavoravano; per riempire la lunga galleria degli specchi fece arrivare maestranze da Venezia che deteneva i segreti della lavorazione del vetro. Per l’appartamento del re non si guardò a spese e l’argento fu impiegato a tonnellate. Per risparmiare, invece, fu impiegato nei lavori generici anche l’esercito se non era impegnato in qualche impresa militare. Qualcuno ha tentato una stima di quanto sia costata complessivamente tutta la reggia di Versailles arrivando alla colossale cifra di 2 mila miliardi di dollari. Senza tener conto di quando si doveva spendere per viverci e farla funzionare. Un piccolo esempio di come non si badasse a spese: nel novembre 2018 Sotheby’s ha battuto all’asta alcuni gioielli appartenuti a Maria Antonietta e da lei stessa messi in salvo prima di essere catturata e giustiziata dal tribunale della rivoluzione. Un pendente di diamanti con perla naturale a forma di pera (lungo 26 mm) è stato aggiudicato per 32 milioni di euro, un orologino in smalto blu e perle per 218 mila, una spilla con doppio fiocco di brillanti e un diamante giallo per ciondolo per 1 un milione e 851 mila e l’anello col monogramma MA contenente anche una piccola ciocca di capelli della regina per 391 mila euro. E questo era solo una piccola parte del tesoretto di Maria Antonietta; poi c’era tutto il resto e c’erano i tesoretti delle avide mantenute del re e il lungo elenco dei favori per chi sapeva appropriarsene. Jacques Levron ha raccontato parecchi particolari sulla vita che si svolgeva in quella mega reggia: la vita era estremamente cara, per vivere nel lusso si consumano ogni giorno somme enormi: bisogna possedere servitù, carrozze, cavalli, abiti alla moda. La ricchezza della nobiltà è soprattutto terriera ma vivendo a corte hanno dovuto affidarla a uomini d’affari non sempre onesti che versano con molta irregolarità gli affitti e le rendite. L’uomo di corte deve ricorrere ad espedienti; si chiede al re di creare nuovi incarichi o nuovi uffici che vengono poi venduti a caro prezzo. Danno un reddito mediocre ma creano privilegi onorifici, prestigio, esenzione dall’imposta feudale, in qualche caso consentono di arrivare alla nobiltà di toga e magari di contrarre un lucroso matrimonio. Così qualcuno diventa governatore delle carpe di sua maestà, qualcun altro capo del bicchiere della regina o capitano dei piccoli divertimenti. Si diceva: ogni volta che il re crea un ufficio, Dio crea un imbecille che lo acquista. Appena un cortigiano ha sentore della creazione di un incarico informa chi potrebbe esserne interessato ed intasca il prezzo della soffiata. Le donne di corte erano le più accanite in questo genere di affari. Anche solo prendere in mano una supplica e farla arrivare sulla scrivania del re è fonte di guadagno, far sapere che una ragazza con dote cerca marito procura una bustarella, segnalare un abuso dà diritto ad una cospicua ricompensa. Insomma un grande mercato. E poi il gioco, le lotterie, le feste, i concerti, il teatro, gli spettacoli, le cacce…

 

Il primo atto rivoluzionario

Dunque Luigi XVI aveva richiamato il ministro Necker, il quale tentò di attenuare i dirompenti contrasti della società francese riunendo l’Assemblea dei Notabili, il 6 novembre 1788, per discutere le richieste del terzo stato. Costoro si rifiutarono anche solo di prenderle in considerazione. Allora il re tagliò corto e con un decreto datato 27 novembre annunciò la convocazione imminente degli Stati Generali, garantendo il numero doppio dei dele gati del terzo stato. Nella primavera successiva si svolsero le elezioni dei delegati di ciascun stato: potevano votare tutti i cittadini dai 25 anni in su che pagassero una quota prefissata di imposte. Risultarono eletti: 303 delegati del clero (51 erano vescovi), 291 delegati dei nobili in rappresentanza di circa 400 mila titolari di un quarto di territorio su cui potevano imporre diritti feudali e 610 membri del terzo stato che rappresentavano il restante 95 per cento (o forse più) della popolazione; tra questi c’erano avvocati e pubblici ufficiali, un terzo erano impegnati in attività commerciali o industriali, molti possedevano vaste tenute agricole. Un’assemblea quindi di 1204 persone o poco più. Il re stabilì l’inizio dell’Assemblea per il 5 maggio 1789. Si sarebbe tenuta, naturalmente, alla corte di Versailles. Si cominciò con una cerimonia religiosa seguita da una seconda cerimonia civile. Il terzo Stato pose subito la questione di fondo: un voto per ogni persona presente (per cui loro avrebbero avuto a disposizione 610 voti contro i 594 dei rappresentanti degli altri due stati); per loro era una questione di vita o di morte. Nobili e clero fermi sulla necessità di votare per gruppi (per cui loro avrebbero avuto due voti contro un solo voto). Anche per loro era questione di vita o di morte, tanto più che alcuni nobili sposavano le tesi del terzo stato e lo sposavano, soprattutto, molti delegati del basso clero, quelli che condividevano le sorti e le condizioni dei nullatenenti. Si discusse e ridiscusse per settimane sempre sul modo di votare poi il terzo stato ruppe gli indugi e decise di procedere da solo e il 17 giugno, su proposta (pare) di Sieyès, si autoproclamò Assemblea nazionale, poiché da solo aveva la rappresentanza del 95 per cento della popolazione. A quel punto il re non sapendo che fare, prese tempo: con la scusa di far preparare la sala per la sua presenza e per un suo intervento, dette ordine di chiudere il luogo della riunione. Ma il terzo stato non si sciolse: il 20 giugno occupò una grande sala dove di solito si giocava a pallacorda e tutti insieme giurarono di non sciogliere la loro assemblea finché non avessero ottenuto una nuova Costituzione. Fu un atto che suscitò stupore perché era un evidente gesto di insubordinazione. Il re convocò l’assemblea della seduta reale per il 23 e dichiarò illegali e nulle tutte le decisioni assunte dal terzo stato: annullata quindi l’Assemblea nazionale. Ma i deputati del terzo stato disobbedirono: “la nazione riunita non riceve ordini”, “l’assemblea dei rappresentanti della nazione ha carattere inviolabile”. Non ricevere ordine era stata fino allora solo prerogativa del re, da quel momento se ne era appropriata il terzo stato. Luigi XVI cedette e pensando di salvare la situazione ordinò ai nobili e al clero di riunirsi al terzo stato per ricostituire l’Assemblea della nazione. A quel punto il terzo stato di autopromosse ad Assemblea costituente. Insomma in poche settimane l’autorità del re aveva perso le sue prerogative fondamentali, il sovrano era ormai a rimorchio dell’Assemblea che ha già compiuto alcuni atti rivoluzionari. Infatti la rivoluzione giuridica è già consumata poiché l’Assemblea costituente, nei suoi presupposti dottrinali e giuridici, è un atto del tutto nuovo rispetto agli Stati Generali. Questi erano convocati dal re, funzionavano in suo nome e per sua autorità ed erano un semplice organo consultivo che doveva limitarsi a dare pareri sulla questione finanziaria e derivava dal re qualunque potere. L’Assemblea costituente è invece un organo deliberativo che fonda la sua autorità sulla nazione dalla quale deriva il compito di legiferare, a cominciare dal dargli una nuova base costituzionale. Le teorie degli illuministi erano state messe in pratica, la tradizione monarchica archiviata. Forse il quel momento pochi si resero conto delle conseguenze dell’autodichiarazione da parte del terzo stato di essere un’Assemblea col compito di redigere una base giuridica del tutto nuova per la Francia, sinceramente molti deputati continuavano a mostrarsi devoti all’autorità del re che col loro voto avevano però svuotato degli antichi poteri assoluti: la logica e la forza delle idee che stavano seguendo aveva ormai minato il potere del re, la rivoluzione era compiuta.

 

I parigini

Tutto questo era avvenuto a Versailles, con accortezza, decisione e con garbo. Ma c’era un altro protagonista di cui si era tenuto poco conto, il popolo della capitale. A quel tempo a Parigi vivevano e lavoravano forse 600 mila persone: in gran parte artigiani, operai e piccoli borghesi e non vivevano agiatamente. Tutte le delusioni, le difficoltà e le non facili condizioni del tempo avevano prodotto pesanti ripercussioni sulla città: i cattivi raccolti, le scarsità alimentari, l’aumento dei prezzi e la disoccupazione si evidenziavano in modo particolare nella capitale dove trafficavano anche accaparratori e speculatori. L’opinione pubblica non poteva che essere diffidente e allarmarsi per qualsiasi voce – vera o falsa che fosse – che si diffondeva per le strade. E allora come oggi non mancavano quanti avevano (o speravano di trarre) qualche vantaggio da un clima sospettoso e irrequieto. Tra questi c’erano politici, deputati, gazzettieri e quant’altro: tutti in cerca di pubblicità e di un gradino per potersi elevare una spanna sopra gli altri. L’effervescenza della città si era già gonfiata allorché il re aveva licenziato il ministro Necker colpevole di aver reso pubblico il bilancio dello Stato e aveva ammassato truppe vicino a Versailles: fu in quell’occasione che si ebbero i primi atti violenti del popolo. Che si ripeterono in quel 1789, il 14 luglio, quando Camillo Desmoulins eccitò la folla perché non si rassegnasse a patire la fame: dapprima saccheggiarono le panetterie (come il Manzoni ha raccontato fosse già successo a Milano nel ‘600 al tempo del governo spagnolo), poi già che avevano cominciato passarono alle armerie, poi all’arsenale degli Invalidi e quindi si diressero alla Bastiglia. Desmuolins aveva 29 anni, aveva studiato al liceo con un certo Robespierre, era diventato avvocato ma avendo poco lavoro s’era buttato in politica, s’era creato una certa notorietà con un libello in cui sosteneva la necessità di abbattere la monarchia e passare alla repubblica ed era riuscito a farsi eleggere deputato del terzo stato. Raccontò che era stato lui stesso, la sera del 13 luglio, a chiamare il popolo alle armi perché aveva saputo che la guarnigione di Campo di Marte (composta da mercenari svizzeri e tedeschi) si stava preparando ad assaltare l’insubordinato popolo parigino. L’obiettivo era il sacrario militare dell’Hotel des invalides dove trovarono fucili ma non munizioni, quindi passarono all’Arsenale dove trovarono anche dei cannoni. Il giorno dopo il popolo armato assaltò la Bastiglia. Era una fortezza che serviva da prigione per il detenuti politici: Luigi XIV ne aveva fatto un grande uso, soprattutto mediante le famigerate lettres de cachet; Luigi XVI invece ci aveva rinchiuso ben poca gente.

 

Le lettere col sigillo

Bisogna spiegare cosa erano queste lettere, strumento nelle mani del potere assoluto contro cui non ci si poteva appellare. Firmate dal re e controfirmate da un suo ministro questi messaggi scritti venivano sigillati col sigillo reale. Se il re voleva ottenere attraverso il parlamento un certo fine, se voleva prevenire una certa decisione, se desiderava venisse approvata o non approvata una certa legge lo intimava per mezzo di una lettre de cachet. Alla quale non si poteva non obbedire. Le lettere più importanti erano quelle di carattere penale con le quali una persona poteva essere tolta di mezzo, senza processo e senza potersi difendere. La lettera poteva intimare la carcerazione o il confino di una persona, la chiusura in un convento o in un ospedale, l’espulsione dal regno, la deportazione in una colonia. Il re, insomma, poteva liberarsi di una o più persone scomode in maniera tacita e inappellabile. Ma col tempo era successo che questo tipo di lettere potessero essere acquistate da un privato ed utilizzate contro un avversario politico, contro uno scrittore critico, per risolvere una causa personale, per togliere di mezzo chi ti era particolarmente antipatico. Ne usarono le polizie contro le prostitute e contro i pazzi (veri o presunti). Le usarono le mogli per liberarsi del marito, e viceversa, senza perdere le proprietà o le doti. Addirittura, nel ‘700 si arrivò ad acquistarle in bianco dalla Segreteria dello Stato. Insomma un’arma temibile, contestata duramente dall’Assemblea degli Stati Generali, cui però Luigi XVI, parlando alla sessione del 23 giugno non volle assolutamente rinunciare: era uno strumento troppo utile e uno dei simboli più eclatanti del suo potere assoluto. Naturalmente la rivoluzione, durante la fase della Costituente le cancellò dal vocabolario. Solo che in seguito Napoleone le riesumò, almeno in parte. E ciò gli fu contestato quando il Senato nel 1814 pronunciò la sua deposizione.

 

La Bastiglia

Era una vecchia fortezza adibita a prigione con pochi detenuti e poca guarnigione. I rivoltosi la presero a cannonate, aprirono un varco, massacrarono il comandante e si sfogarono devastandola. Era un simbolo del potere, abbatterla significava smantellare l’assolutismo regio. A quanto pare c’erano solo sette prigionieri: un paio di falsari e alcuni poco sani di mente, ma questo non era importante; era l’edificio in sé che non aveva più motivo di esistere: il popolo di Parigi voleva significare che la libertà aveva abbattuto il despotismo. Tutti lo compresero, per cui quel 14 luglio assurse a festa nazionale. Ma i borghesi del terzo stato ebbero più di un motivo per temere quell’ondata di rabbia popolare, temevano i disordini e l’anarchia. Il loro ideale era una monarchia costituzionale, di tipo inglese, attenta ai loro interessi e capace di guidare l’economia della nazione. Con l’assalto alla Bastiglia si evidenzia una spaccatura del terzo stato: da una parte la borghesia colta, moderata e illuminata e dall’altra il popolo che aveva già dimostrato di essere poco governabile. Per cui il secondo atto dell’Assemblea fu di riformare la municipalità di Parigi: fu nominato sindaco Jean Silvain Bailly e subito venne organizzato anche un corpo di polizia (che in seguito diverrà la Guardia nazionale) affidato al marchese Gilbert La Fayette. Due personaggi interessanti: il primo era un letterato e uno scienziato, membro delle tre accademie di Francia, conosciuto e stimato dagli scienziati europei. Quando si era cominciato a parlare degli Stati Generali aveva posto il problema di come dare, in quella Assemblea, il giusto peso alla cittadinanza parigina; si era consultato con alcuni giuristi e aveva redatto un memoriale da presentare al re in cui chiedeva la restituzione alla città degli antichi diritti elettivi per una congrua elezione di deputati della capitale e poche settimane prima dell’apertura degli Stati Generali il re pubblicò alcuni decreti per disciplinare le elezioni dei parigini. Bailly fu eletto e gli venne affidato l’incarico di redigere i verbali delle discussioni delle riunioni del terzo stato e si trovò poi a pilotare la turbolenta sessione che decise la costituzione di questo gruppo maggioritario dell’Assemblea generale in Assemblea nazionale che lo elesse suo presidente. Fu Bailly a ricevere l’incarico di governare Parigi. La Fayette era un personaggio altrettanto noto: denominato eroe dei due mondi perché era stato in Nord America dove aveva stabilito accordi commerciali tra Francia e Stati Uniti e dove aveva sostenuto la causa della liberazione degli schiavi. Eletto deputato per lo stato dei nobili ma aveva sempre sostenuto la votazione per testa invece che per ordine, accattivandosi le simpatie del terzo stato. Proclamato capo della Guardia nazionale fu lui che adottò la coccarda tricolore (rosso e blu, colori di Parigi, più il bianco, colore dei Borboni) che poi sono diventati i colori della bandiera francese. Toccherà a lui cercar di tenere a freno i cittadini esasperati e violenti.

 

Arriva il re

Tre giorni dopo l’assalto alla Bastiglia Luigi XVI si scomodò per tornare a Parigi: Bailly gli consegnò le chiavi della città e La Fayette gli appuntò sul cappello la coccarda tricolore. Bailly si dovette occupare da subito degli approvvigionamenti alimentari per la città, la Fayette di organizzare la Guardia ed istituire un corpo di polizia per Parigi. L’ordine riportato a Parigi non servì d’esempio perché in giro per il contado si sviluppò un’ondata di jacquerie: si viveva un clima di incertezza e confusione, di aspettative e di voglia di fare, anche se non sempre si sapeva bene cosa fare, una specie di psicosi collettiva che poi fu chiamata grande peur. Si sentiva parlare di sollevazioni, di disordini, di gente armata e di assassini sguinzagliati forse dai nobili e dal re. Si temeva che avrebbero rubato il grano appena raccolto. Qua e là la popolazione rurale si organizzò, in alcune zone assaltarono le proprietà dei signori, assalirono i castelli, abbatterono siepi e chiusure delle proprietà, pretesero di ristabilire i diritti comuni, rifiutarono di continuare a rispettare i diritti feudali. Dopo la Bastiglia si verificò dunque questo abbattimento di autorità locali. Era la jacquerie: era già successo nel lontano 1358; nella regione dell’Oise erano state distrutte alcune residenze signorili e uccisi i loro proprietari. E poi in seguito anche altrove. Ne erano autori i contadini esasperati che i nobili chiamavano ironicamente “Giacomino buonuomo”. E quando i nobili avevano voluto dare ai buoni Giacomini una lezione avevano compiuto vere stragi. Le jacquerie del 1789 spinsero parecchi nobili a fuggire portandosi dietro quello che riuscivano; il primo a farlo fu il fratello di Luigi XVI. Il re invece non fuggiva ma non si rendeva ancora conto che il mondo era cambiato e non accettava il consiglio di Mirabeau che lo invitava ad accettare la formula della “monarchia temperata” e l’alleanza col terzo stato che gli avrebbe permesso di ristabilire la sua autorità e di tenere a freno le tendenze estremiste. Il re era convinto che solo un intervento dei regnanti stranieri suoi amici avrebbe salvato la monarchia francese. Commentano gli storici che Luigi XVI non ebbe fiducia nel suo popolo; per la sua mentalità (che certo non poteva cambiare di colpo) il popolo o è un suddito passivo o un incontrollabile ribelle. Insomma sfiducia. Che l’Assemblea nazionale contraccambiò. A Parigi si seppe che a Versailles e che era stato offerto loro un lauto pranzo mentre in città si faceva fatica a mangiare tutti i giorni. Si disse che quei soldati avevano insultato il tricolore. I parigini non lo sopportarono: il 5 ottobre una colonna di cittadini, scortata da qualche pezzo della Guardia nazionale e capeggiata da un forte contingente di donne (forse cinquemila) marciò verso Versailles. Pernottarono davanti ai cancelli ma la mattina dopo massacrarono le guardie e invasero il territorio della reggia. Accorse La Fayette con la Guardia impedendo il peggio ma il re fu costretto ad affacciarsi e a promettere di tornare a Parigi. Lo mantenne il giorno dopo: la carrozza reale fu accolta dai popolani che reggevano sulle picche le teste delle sentinelle della reggia. Luigi si accasò alle Tuilleries che era la residenza del re nella capitale; palazzo fatto costruire da Caterina de Medici col tetto coperto di tegole (tuilleries, appunto). Lì vicino si sarebbe d’ora in poi riunita anche l’Assemblea costituente. Ma sembrò subito che sia il re che l’Assemblea fossero prigionieri della plebe parigina. Due righe sul personaggio di Mirabeau: famiglia provenzale di origine fiorentina; si era presentato alle elezioni tra la nobiltà della Provenza che lo aveva snobbato; era riuscito però a farsi eleggere dal terzo stato nella città di Aix. Ed aveva persuaso il terzo stato a non disconoscere il re.

 

I diritti fondamentali

Intanto l’Assemblea non aveva perso tempo e il 26 agosto aveva approvato i 17 articoli dei Diritti dell’uomo e del cittadino che saranno la base della Costituzione del 1791. Nel preambolo fu scritto che si trattava di “diritti naturali, inalienabili e sacri”, che dovevano guidare i cittadini nei “loro diritti e nei loro doveri” che ne avrebbero tratto “maggior rispetto gli atti del potere legislativo e quelli del potere esecutivo” e fondamento “i reclami dei cittadini”: 1. Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fiondate che sull’utilità comune. 2. Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressore. 3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. 4. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge. 5. La legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina. 6. La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo le loro capacità e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. 7. Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge e secondo le forme prescritte. Quelli che sollecitano, emanano, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente: opponendo resistenza si rende colpevole (….) 10. Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge. 11. La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge. La Costituzione vera e propria fu scritta due anni più tardi e proclamò la Francia una monarchia limitata: Luigi XVI, “per grazia di Dio e per Costituzione dello Stato è re di Francia” e i tre poteri dello Stato devono essere esercitati divisi. Non furono però formalizzati a pieno alcuni principi, ad esempio i diritti delle donne e i diritti per accedere al voto. Alla Costituzione del 1791 ne seguirono negli anni altre dieci; dopo la guerra del 1939-1945 altre due. A Parigi, a duecento anni di distanza, alla Dichiarazione dei diritti del 1789 fu eretto un monumento: una màstaba egizia (un tronco di piramide) con obelischi, statue, colonne, porte in bronzo, simboli, testi incisi e persino dodici pietre provenienti dai dodici Paesi che nel 1989 facevano parte della Comunità europea.

 

Il popolo e la folla

La rivoluzione continuò ben oltre il 1789, anzi imperversò. Fatta 100 l’inflazione francese del 1789, cinque anni dopo era salita a 180 e dopo altri quattro mesi si era impennata a 340. Si calcola che nell’intero periodo siano perite 300 mila persone. Sotto la lama della ghigliottina passarono 16 mila 594 cittadini: il 31 per cento erano operai, il 28 contadini, il 25 borghesi, l’8,5 nobili e il 6,5 ecclesiastici. In molte occasioni la Francia passò dalle mani del popolo a quelle della folla che – come ha scritto Michela Nacci – “non ragiona, non discute, non ascolta le opinioni diverse dalla sua, manifesta gli istinti da cui è mossa, si fa trasportare dagli affetti e dalle passioni che non prova neppure a controllare, ama o odia senza vie di mezzo, nutre una sorta di venerazione nei confronti del leader, cerca il capro espiatorio, forma un insieme compatto che ha bisogno di confermare continuamente la propria compattezza, emargina ed espelle chi dissente, definisce un nemico esterno e basa sulla lotta a quel nemico la sua unità, sa di essere incompetente ma vuole che la sua opinione conti, critica la politica, i politici e gli esperti, vuole eliminare ogni mediazione ed esprimersi direttamente, rivendica l’egualitarismo come valore”. Insomma la rivoluzione francese non ci ha lasciato solo la Dichiarazione dei diritti ma anche un bell’esempio di populismo.

 

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Note

 

Maria Pia Casalena, La rivoluzione francese, Corriere della Sera, 2016

Francesco Moroni, Corso di storia, vol. II, Società editrice internazionale, 1961

Roberto Moro, Il primo show elettorale della storia moderna, in La Cattedra di storia in network, dicembre 2012

Jacques Levron , La vita quotidiana a Versailles nei secoli XVII e XVIII, Rizzoli 1990

Michela Nacci, in Corriere della Sera, 2 aprile 2019

 

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