Lavoro Italiano - EDITORIALI  - Antonio FOCCILLO
Sciopero regolato di nuovo?
Il numero di giugno 2017
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25/06/2017  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Dopo l’ultimo sciopero dei lavoratori dei trasporti, proclamato da sigle non confederali, si è riaperta la discussione su come intervenire per limitare questo diritto. Tantissimi articoli contro questa forma di protesta, ma nessuno si scandalizza del fatto che le aziende mantengono questo stato di crisi nei rapporti relazionali. Non voglio giustificare né difendere nessuna sigla ma credo che qualche riflessione più oggettiva vada fatta, tenendo conto che si è riaperta la discussione a Palazzo Madama sul testo unificato che raccoglie le proposte dell’ex Ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e di Pietro Ichino.

 

Voglio partire da una precisazione di merito: lo sciopero è la più importante forma di lotta a disposizione dei lavoratori per dar voce alle loro rivendicazioni. Nacque, anche se vi sono di varie tesi ed interpretazioni, fra la fine del secolo ‘800 e l’inizio del secolo ‘900. Il cammino che ha portato alla conquista di questo diritto non è stato facile e per lungo tempo la risposta alla protesta degli scioperanti è stata la repressione. Soltanto verso la fine dell’Ottocento, quando i lavoratori hanno fatto ricorso sempre più frequentemente all’astensione dal lavoro per rivendicare i propri diritti, si è delineata una certa tolleranza.

 

In Italia le prime manifestazioni di protesta dei lavoratori per le misere condizioni di vita iniziarono subito dopo l’unificazione del Paese, interessando sia le campagne del Sud sia le fabbriche del Nord.

 

I conflitti sociali divennero ancora più aspri nei primi anni del XX secolo e più volte sfociarono in scioperi generali. Agli inizi del Novecento, in seguito all’introduzione di riforme tese a migliorare le condizioni di lavoro (orario, tutela delle lavoratrici durante la gravidanza, età minima a 12 anni per l’impiego dei fanciulli), vennero riconosciute anche alcune libertà fondamentali, tra cui il diritto di sciopero, ritenuto uno strumento lecito durante le lotte sindacali.

 

In Italia lo sciopero era considerato reato nel codice penale sardo del 1859. Solo, nel 1989, con l’emanazione del codice penale Zanardelli non lo fu più, salvo quello violento, ed anche dopo quel codice penale non è stato pienamente riconosciuto fino al 1904, quando la Camera del Lavoro di Milano organizzò uno sciopero generale (di tutte le categorie lavorative) per partecipare ad una discussione politica di quel momento.

 

Con il Codice Rocco del 1930 si ritornò alla repressione dello sciopero considerandolo un delitto contro la pubblica amministrazione per l’interruzione di un pubblico servizio.

 

Soltanto con l’entrata in vigore della Costituzione lo sciopero è stato riconosciuto come un diritto.

 

Il diritto di sciopero è stato inserito all’articolo 40 della Costituzione che rimanda al legislatore ordinario la regolamentazione della libertà di sciopero.

 

La formula adottata dell’articolo 40 della Costituzione per garantire questa libertà è ampia, piuttosto generica, e dato che il legislatore non ha provveduto tempestivamente a disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero, di fatto l’ambito e le forme accettabili si sono delineate poco per volta.

 

Lo sciopero, quindi, è un diritto e ne consegue che il lavoratore se si astiene dalla prestazione lavorativa non può essere considerato inadempiente.

 

Piero Calamandrei scrisse: “Il riconoscimento del diritto di sciopero conferisce al principio di libertà di organizzazione espresso nell’art.39 cost. ed in particolare all’organizzazione sindacale, un forte strumento di effettività dando allo sciopero il ruolo di strumento giuridico atto a rimuovere la disuguaglianza sociale effettiva che caratterizza la posizione del prestatore nei rapporti con il datore di lavoro”.1…“La qualificazione del diritto di sciopero come diritto pubblico di libertà, intendendo con questo diritto il complesso delle leggi che regolano l’organizzazione e l’attività dello Stato e dei suoi enti nei rapporti tra loro stessi e con i privati, individua l’ambito di applicazione della norma nel rapporto fra Stato e cittadino, nel senso del divieto di emanazione di alcun provvedimento legislativo, amministrativo o giurisdizionale che contrasti tale diritto”.2

 

Uno dei primi problemi che fu posto riguardava l’individuazione dei limiti cui l’esercizio del diritto deve soggiacere, in quanto, la Costituzione nulla dice in proposito. In questa situazione di vacatio legis un ruolo importante l’ha svolto la giurisprudenza che ha portato all’individuazione di una serie di limiti. In primis ha elaborato la teoria “del danno ingiusto e della corrispettività dei sacrifici” secondo cui al danno subito dall’imprenditore corrisponde la perdita di retribuzione da parte dei lavoratori. Questa teoria, però, ha lasciato dubbi, perché la determinazione del danno sarebbe affidata all’arbitrio dell’interprete e la qualificazione del danno, senza una legge che ne attribuisca l’entità, non è elemento di qualificazione dello sciopero come legittimo o meno.

 

Un cambiamento di prospettiva si è avuto con la sentenza 711/1980 della Corte di Cassazione, che ha definito lo sciopero “un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”. La nozione è stata ampliata notevolmente includendo tutte le possibili e molteplici forme che, di volta in volta, sono state giudicate efficaci o come solo idonee a far conseguire il risultato voluto3. Tuttavia ancora perdura la volontà di porre dei limiti all’esercizio del diritto di sciopero.

 

Dopo questa premessa vorrei affrontare alcune questioni importanti che ritornano spesso ad ogni tentativo di intervenire legislativamente su tale diritto, ed in particolare: come si configura il diritto di sciopero; chi è titolare di tale diritto; in quali modi lo si esercita.

 

1) La promulgazione della Costituzione elevò lo sciopero a diritto costituzionale. Secondo l’opinione dei costituenti, il lavoratore durante lo sciopero sospende la sua obbligazione contrattuale non percependo ovviamente la retribuzione e il datore di lavoro non può nulla per impedire questo diritto.

 

2) La laconicità della disposizione costituzionale pone il problema della titolarità del diritto di sciopero con due tesi che si confrontano fra di loro: titolarità individuale del singolo lavoratore o titolarità collettiva del sindacato. La dottrina maggioritaria ha sposato la tesi che è un diritto individuale ad esercizio collettivo. In questi anni siamo per questo abituati a considerare la titolarità del diritto di sciopero in capo ai lavoratori e non alle organizzazioni sindacali. La sua titolarità spetta ad ogni singolo lavoratore ma il suo esercizio si esplica collettivamente. Si tratta, infatti, di un diritto individuale ad esercizio collettivo, ossia di un diritto che va esercitato per tutelare interessi collettivi e non individuali. Anche un solo soggetto può scioperare per difendere dei diritti collettivi, così come, al pari, possono scioperare una moltitudine di lavoratori, dando luogo ad una violazione del principio, perché magari mirano a tutelare interessi individuali.

 

Il sindacato può proclamare uno sciopero ed organizzare l’attuazione, ma la titolarità del diritto resta comunque in capo ai singoli lavoratori; la proclamazione, tutt’al più, può avere l’effetto di rendere legittimo lo sciopero svolto dall’unico lavoratore che abbia deciso di aderire. La proclamazione deve tradursi in un momento collettivo, non può essere proclamato dal singolo, ma da una pluralità di lavoratori che non necessariamente deve essere organizzata in un vero e proprio sindacato. In secondo luogo, la finalità deve consistere nella tutela di un interesse collettivo. La titolarità dello sciopero, come si diceva, non è esclusiva dei sindacati, può essere anche di un gruppo non organizzato in un sindacato.

 

Venendo alle proposte di legge, se si volesse stabilire che lo sciopero può essere proclamato soltanto da alcuni soggetti, i quali possono promuovere un referendum solo se hanno una certa percentuale (meno del 50%) o che comunque debbono raggiungerla, il baricentro della titolarità si sposterebbe. Infatti, in questo caso lo sciopero potrebbe configurasi a titolarità collettiva perché in ogni caso la proclamazione dello sciopero da parte delle organizzazioni sindacali che hanno certi requisiti diventa un requisito di validità dell’esercizio del diritto di sciopero (Giuseppe Santoro Passarelli4).

 

Ma la legge 146 richiede la necessità di proclamazione dello sciopero da parte del gruppo, quindi si può sostenere che, come c’è un diritto dei singoli di astenersi dal lavoro nell’esercizio del diritto di sciopero, c’è parimenti un diritto del gruppo a proclamare lo sciopero. Quindi sussistono entrambe le titolarità e si combinano (Franco Liso5).

 

Ancora il diritto di sciopero viene comunemente definito come diritto individuale ad esercizio collettivo, per il quale non è necessaria la proclamazione da parte di un’associazione sindacale. La proclamazione da parte del sindacato è solamente un atto interno, un invito rivolto ai lavoratori a scioperare, ma non è un requisito di legittimità dello sciopero. Con l’espressione “ad esercizio collettivo” si vuole affermare che, alla base dello sciopero, vi deve essere un interesse collettivo, al cui soddisfacimento è finalizzata l’astensione dei lavoratori.

 

Se lo sciopero viene proclamato da un sindacato, si ritiene per definizione sussistente un interesse collettivo, perché il sindacato è, per sua stessa natura, l’ente esponenziale dell’interesse collettivo. Se lo sciopero non viene proclamato da un’associazione sindacale, bisognerà verificare, di volta in volta, se sussiste o meno l’interesse collettivo (se dieci lavoratori, ad esempio, si astengono per sostenere rivendicazioni attinenti alle proprie condizioni di lavoro si è senz’altro in presenza di uno sciopero).

 

L’adesione anche di un solo lavoratore ad uno sciopero proclamato da un sindacato configura uno sciopero, perché sussiste l’interesse collettivo. Se invece, in mancanza di proclamazione da parte di un sindacato, una pluralità di lavoratori si astiene dal lavoro bisognerà verificare di volta in volta la sussistenza di un interesse comune-collettivo (Mariella Magnani 6)

 

3) Intervento legislativo. In premessa si può dire che troppe volontà politiche oggi esprimono la necessità di regolamentare per legge il diritto di sciopero, addirittura si vorrebbe fare lo stesso con le assemblee e, proprio partendo dalle proposte di Ichino e Sacconi, la prima domanda che vogliamo rivolgere è se siamo in un’emergenza dei conflitti sindacali nel nostro Paese tale da portare a questa necessità? Non ci sembra che siamo in questa condizione. Anche se bisogna ammettere che nei trasporti, per le varie sigle di sindacati autonomi, esiste. La seconda domanda è inerente proprio alle volontà di regolamentare per legge tale diritto: se possono scioperare anche gruppo di lavoratori non organizzati in un sindacato come si fa a stabilire in una legge il limitare ad alcuni tale diritto? Giuseppe Santoro Passarelli sostenne7: “Noi siamo abituati a riconoscere allo sciopero la dignità di diritto costituzionale a titolarità individuale, e questo è dovuto all’attività creatrice degli interpreti, in quanto la norma costituzionale non dice affatto che lo sciopero è un diritto a titolarità individuale bensì un diritto che si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano. Considerando che il diritto di sciopero deve essere collegato all’art. 39 della Costituzione, il quale sancisce il principio della libertà delle organizzazioni sindacali, il problema sorge sulla costituzionalità o meno delle regole che si dovrebbero introdurre da un disegno di legge che, in fondo, sancisce l’importante principio della titolarità sindacale del diritto di sciopero e quindi della legittimità a proclamare lo sciopero soltanto da parte di alcuni sindacati. Quando si stabilisce che lo sciopero può essere proclamato soltanto da alcuni soggetti, i quali possono promuovere il referendum solo se hanno una certa percentuale o che comunque debbono raggiungerla, il baricentro si sposta”. Queste considerazioni erano riferite al Disegno di legge n. 1473 sulla revisione del diritto di sciopero presentato dall’allora Ministro Sacconi, ma valgono, a parer mio, in tutti i casi analoghi.

 

Pertanto non sarebbe anticostituzionale una legge che regola lo sciopero come prevede la Costituzione, vedi la 146/90 e ss., ma è incostituzionale una legge che sposta il diritto solo ad alcuni sindacati che hanno alcuni requisiti, perché viola l’art. 39 che garantisce la libertà sindacale? Per Santoro Passarelli una legge che interviene in questo modo è costituzionalmente legittima in quanto la Corte Costituzionale con varie sentenze ha ammesso la legittimità dell’art. 19 dello Statuto, quando ancora richiamava la maggiore rappresentatività presunta che, come è noto riconosceva ad alcuni soggetti sindacali l’esercizio dei diritti sindacali, proprio perché era chiaro che nell’ambito aziendale non tutti i soggetti potevano esercitare i diritti sindacali.

 

Sempre Santoro Passarelli, presidente della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, nella relazione annuale ha posto l’esigenza di una riflessione anche in sede legislativa, riscontrato l’eccessivo ricorso allo sciopero in taluni servizi essenziali.

 

Ovviamente fra giuristi ci sono orientamenti diversi.

 

Per Mario Ricciardi8 non ci sono tanti conflitti nel Paese da giustificare un intervento legislativo di questa dimensione, infatti, la conflittualità attuale è abbastanza tradizionale ed in larga misura dipende da cicli contrattuali e anche certamente dalle dinamiche politiche. Sempre per Ricciardi9 i sindacati italiani in questi anni sono stati in grado di canalizzare i conflitti sociali in maniera efficace anche in un paese socialmente difficile come il nostro. Per cui ritiene che questa prassi vada incoraggiata e consolidata. Bisogna chiedersi se sia opportuno che si diffonda l’opinione che, anche al di là delle intenzioni, si vogliano restringere i diritti di libertà, e primo fra tutti il diritto di sciopero.

 

Per Franco Liso10 è vero che l’art. 40 della Costituzione legittima il legislatore a disciplinare le modalità dell’esercizio del diritto, ma è anticostituzionale una legge che incide direttamente sulla titolarità del diritto, soprattutto se vi fosse l’onere di farsi legittimare da un referendum, perché non potrebbe quel sindacato vantare una titolarità.

 

Giustamente si deve legare l’art. 40 con l’art 39 perché lo sciopero è sempre stato visto come l’altra faccia della libertà sindacale. La possibilità del ricorso allo sciopero dà affettività alla libertà sindacale. Senza la possibilità dello sciopero questa libertà si riduce a mera apparenza. Se allora la situazione normale è quella in cui vi è corrispondenza tra libertà sindacale e diritto di sciopero, come si può negare la titolarità del diritto di sciopero a soggetti che sono titolari della libertà sindacale?

 

È sufficiente il differente grado di rappresentatività dei soggetti sindacali? Per Liso a differenza dello Statuto che costituiva espressione di una legislazione promozionale dei diritti sindacali, lo sciopero è un diritto sancito dalla Costituzione, quindi non si può paragonare a quelli dello Statuto. Quindi questo diritto non può essere negato dal legislatore ordinario, anche se si possono fissare regole relativamente al momento, concettualmente ben distinto, dall’esercizio del diritto. Tuttavia qualsiasi regola deve essere sempre rispettosa del principio di libertà del quale ciascuna organizzazione gode. Non si rispetta questa libertà se si subordina la proclamazione dello sciopero alla presenza di un dato di rappresentatività che misura l’intera platea dei lavoratori interessati e limiterebbe così la libertà dell’organizzazione sindacale e dei lavoratori che ne fanno parte. Imporre una regola di maggioranza in questo ambito implica negare il pluralismo che invece è insito nel principio di libertà sindacale. Potrebbe essere esclusa la lesione se si prevedesse che il sindacato può proclamare lo sciopero solo quando abbia verificato il consenso della maggioranza dei propri iscritti. Sarebbe possibile chiamare tutti i lavoratori per verificare la maggioranza solo se fosse quel sindacato a deciderlo. È senz’altro vero che la riserva di legge di cui all’art. 40 non significa che il legislatore possa indefinitamente comprimere il diritto di sciopero, svuotandolo di significato; e che, anzi, deve essere interpretata come rinvio alla ragionevole ponderazione del legislatore del contemperamento tra diritto di sciopero e altri diritti di pari pregio costituzionale (Tommaso Edoardo Frosini11).

 

Se si ragiona sullo sciopero non ci si può limitare ad una riflessione per immaginare un intervento d’ordine preventivo-repressivo, ma bisogna ragionare un pò più in grande (M. Ricciardi). Egli ritiene che vi siano molte motivazioni che portano alla riduzione della proclamazione dello sciopero e, fra esse, la diminuzione della conflittualità non deriva certo dalle regole ma, in gran parte, dal clima che si crea nelle relazioni sindacali ed, in particolare, dai comportamenti delle parti.

 

Per quanto riguarda la paventata novella legislativa, anche per Ricciardi si tratterebbe, certamente, dato che lo prevede l’art. 40, di un intervento possibile ma, comunque, avendo la materia rango costituzionale, sarebbe auspicabile un accordo fra le parti.

 

Noi consideriamo questa linea molto giusta e confermiamo la nostra posizione che è quella che non vi è bisogno di una nuova legge che garantisca ad alcune organizzazioni di poter fare sciopero, condividendo chi considera l’intervento legislativo lesivo dell’art. 39. Poi prevedere per legge una misurazione della rappresentanza è inutile visto che esiste un accordo fra le organizzazioni sindacali e diverse controparti e questo accordo pattizio fra privati vale e va attuato. Mentre nel pubblico impiego esiste già una legge a sostegno sulla misurazione della rappresentanza.

 

A nostro giudizio lo sciopero va inquadrato come diritto assoluto della persona. Se guardiamo allo sciopero in questa prospettiva – come diritto assoluto della persona condizionato all’esistenza di un contratto di lavoro ma non necessariamente inerente al datore di lavoro – possiamo giungere ad una definizione più comprensiva, più adeguata dello sciopero, ammettendo la sua legittimità sia sotto il profilo penale che privatistico, anche dello sciopero di solidarietà e di quello diretto ad esercitare una pressione sulla pubblica autorità per influenzare i provvedimenti che riguardano le condizioni di lavoro (il cosiddetto sciopero economico-politico).

 

A questo punto sorge un’altra domanda: può un diritto assoluto della persona essere limitato da interventi successivi che ne stabiliranno gli ambiti e le regole?

 

Essendo garantito anche per i lavoratori pubblici dalla Costituzione, con la legge si è stabilito il contemperamento fra diritto di sciopero e altri diritti costituzionali, ma questo, a parer mio, non può comportare una compressione totale del primo. Deve, però, comunque esser assicurato per legge, per accordo o per autoregolamentazione un nucleo minimo di prestazioni indispensabili.

 

Se, allora, lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito, come altri diritti fondamentali delle persone, essi sono tutti uguali o vi è fra i diritti una gerarchia? Ebbene, se si riconosce il diritto di fare sciopero solo se non si violano altri diritti anch’essi garantiti dalla Costituzione, come avviene nel settore pubblico e nei trasporti, i due diritti non sono sullo stesso piano.

 

Per Mariella Magnani12 sono limiti esterni quelli che derivano dal necessario contemperamento del diritto di sciopero con altri diritti costituzionalmente garantiti, che sono da considerare sovra-ordinati o almeno pari-ordinati rispetto al diritto di sciopero e che quindi non possono essere compromessi dall’esercizio dello stesso.

 

Il problema è di stabilire, quali diritti sono sovra-ordinati o almeno para-ordinati e quali sono sotto-ordinati. Per alcuni di essi, come il diritto alla vita, o all’integrità fisica, non vi sono dubbi: essi sono certamente sovraordinati rispetto al diritto di sciopero. Più dubbia è la posizione di altri diritti, che trovano un riconoscimento diretto o indiretto nella Costituzione, rispetto al diritto di sciopero.

 

A tal proposito si segnala una considerazione della Corte, secondo cui può dirsi normale che lo sciopero produca il suo effetto lesivo anche oltre i destinatari naturali, dato che in alcuni casi esso colpisce pesantemente e sovente prevalentemente diritti dei cittadini estranei al conflitto, costituenti diritti della persona costituzionalmente protetti con norme di rango pari o superiori (quali?) a quella relativa al diritto di sciopero, in quanto incide sulla funzionalità di servizi deputati ad assicurare il soddisfacimento di quei diritti. Attraverso l’enucleazione di tali diritti della persona costituzionalmente protetti (alla vita, alla salute, alla sicurezza), la Corte individuò altresì i servizi che ne assicuravano il soddisfacimento, per tale ragione definiti servizi pubblici essenziali (ancorché gestiti eventualmente da privati e con rapporti di lavoro di tipo privatistico). Nel possibile conflitto tra l’esercizio del diritto di sciopero e la fruizione di tali servizi, connessi al godimento di questi altri diritti, la Corte Costituzionale affermò la necessità di un contemperamento tra i due ordini di situazioni protette, attraverso l’individuazione di un minimo di servizio che deve essere comunque garantito in caso di sciopero nei settori considerati, anche attraverso lo strumento della precettazione (allora praticata dal prefetto sulla base dell’art. 20 del T.U. delle leggi comunali e provinciali n. 383 del 1934).

 

Anche su sollecitazione della giurisprudenza costituzionale citata, si svilupparono, inoltre, negli anni ’80 del secolo scorso, vari tentativi da parte delle maggiori organizzazioni sindacali dei lavoratori di dettare una autodisciplina dell’esercizio del diritto di sciopero nei diversi settori ritenuti essenziali, orientata appunto soprattutto alla garanzia, durante lo sciopero, di un minimo indispensabile nella relativa erogazione; tentativi sostanzialmente falliti per la limitata efficacia soggettiva di tale disciplina, riguardante unicamente il sindacato che l’aveva predisposta e i suoi soli iscritti, con esclusivo riguardo agli scioperi da esso proclamati, lasciando, soprattutto, ai sindacati autonomi la liberta di continuare, dato che essi non avevano aderito all’autoregolamentazione.

 

Successivamente fu approvata la L. 146/90 per definire le regole dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. La disciplina legislativa dell’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali si è uniformata allo schema operativo delineato dalla giurisprudenza costituzionale, individuando un elenco di diritti della persona, in ordine ai quali la legge è diretta ad assicurare il contemperamento con l’esercizio del diritto di sciopero, attraverso la disciplina di quest’ultimo nei servizi pubblici deputati ad assicurare il godimento di quei diritti.

 

4) Il referendum. Sempre Santoro Passarelli, oggi, presidente della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, nella relazione annuale ha proposto come una possibile soluzione il problema della verifica della rappresentatività. La prima domanda che si pone è a quale livello si misurerebbe il grado di rappresentatività per indire lo sciopero? Se si dovesse proporre a livello di settore, si porrebbero due problemi: in caso di sciopero aziendale o locale, sarebbe sempre la rappresentanza nazionale, che in alcuni casi può essere in contraddizione con quella locale, a dare sostanza a questo diritto? Ad esempio se si proclama uno sciopero locale in una provincia notoriamente a rappresentanza maggioritaria di un sindacato che non ha proclamato lo sciopero, che succede? Poi con quali sistemi si stabilisce la rappresentatività? Nell’ipotesi in discussione a Palazzo Madama si legge che varrebbe solo la proporzionalità dei risultati delle elezioni, perche sarebbe difficile conoscere gli iscritti. Ma se le aziende che dovrebbero mandare l’elenco degli iscritti non lo fanno, come si fa? Potrebbero in questo caso prevedersi sanzioni in capo a loro visto che sono loro che sono interessate a scioperi rappresentativi. Infine, col prevedere l’istituto del referendum preventivo ed obbligatorio per la proclamazione dello sciopero da parte di organizzazioni non maggioritarie, chi dovrebbe controllare le modalità e le soglie che debbono essere raggiunte dai promotori sia infine i controlli per garantire la regolarità dei risultati?

 

Il referendum – secondo Ghera13 - non può essere sullo sciopero in sé, ma dovrebbe essere sulle ragioni dello sciopero. Su questa tesi si potrebbe ragionare per intervenire nei trasporti.

 

Infine, se si dovesse stabilire che oltre una soglia minima si viene esclusi dalla titolarità del potere di proclamazione che è un elemento necessario del diritto di sciopero, vi sarebbero obiezioni di legittimità costituzionale perche ci sarebbero organizzazioni che per definizione non potrebbero neanche proporre lo sciopero. Secondo Ricciardi non sarebbe convincente il mix tra rappresentatività di organizzazione e referendum. In generale, se si sceglie la strada della democrazia rappresentativa, questa deve essere percorsa sempre, e il referendum dovrebbe essere una via assolutamente residuale ed eccezionale. Se è legittimo richiedere che chi promuove uno sciopero abbia un certo grado di rappresentatività, è invece inopportuno, oltre che macchinoso, pretendere che debba anche sottoporsi a una sorta di prova del fuoco dovendo andarsi a procurare consensi anche fuori dall’ambito della sua rappresentatività misurata. Secondo Antonio Martone14 se un’organizzazione sindacale, sulla base di regole stabilite dalle parti sociali o dei dati di adesione riscontrati nelle precedenti astensioni dal lavoro, è rappresentativa, tale organizzazione può proclamare lo sciopero senza ulteriori vincoli; se, invece, il sindacato proclamante non raggiunge un certo grado di rappresentatività, per evitare ingiustificate limitazioni della libertà sindacale e, al tempo stesso, gli effetti pregiudizievoli che derivano dalla proclamazione di scioperi, si può legittimamente prevedere il ricorso a un referendum preventivo finalizzato a valutare la futura adesione dei lavoratori alla rivendicazione. Questo perché ritiene che vi siano innegabili difficoltà alla prospettiva di una disciplina legale sulla misurazione della rappresentatività sindacale e quindi sarebbe più plausibile far passare l’idea che bisogna valutare, per conto di chi proclama lo sciopero, la forza rappresentatività del soggetto proclamante. Egli, poi, propone quale alternativa al referendum il ricorso allo sciopero virtuale.

 

5) Lo Sciopero “virtuale”. La UIL è stata la prima a proporre questo strumento proprio nei trasporti e adesso propone di allargarlo a tutti gli altri settori. L’idea era proprio quella di eliminare il disagio per gli utenti nel momento in cui si effettua uno sciopero, perché in presenza di un conflitto fra le parti, anche il disagio deve restare nell’ambito soltanto delle stesse. Questo strumento non può restare, esso sì, alla contrattazione ma deve far parte della modifica dell’attuale normativa e la sanzione per l’azienda, pur concordata fra le parti, deve comunque essere in grado di prevedere una penalizzazione adeguata quando essa non si adopera per eliminare le ragioni del conflitto, in tal modo bilanciando le limitazioni imposte dal sindacato sul diritto a fare sciopero.

 

Ghera15 sullo sciopero virtuale è molto scettico perché ritiene che questo non è uno sciopero, perché manca l’elemento astensione dal lavoro, e renderlo obbligatorio per contratto per alcune categorie professionali darebbe luogo a non pochi problemi perché lo sciopero virtuale o costa tantissimo all’impresa e quindi rappresenta una fortissima penalizzazione o rischia di essere inefficace.

 

Anche Ricciardi ritiene che non potrebbe essere reso obbligatorio lo sciopero virtuale, potrebbe essere materia che regolano le parti. Propone di adottare, invece, misure organizzative necessarie per garantire anche ai lavoratori più indispensabili di potere aderire, magari a rotazione, agli scioperi proclamati.

 

Per Antonio Martone16 è uno strumento accettabile e si potrebbe prevedere una sanzione per la controparte in misura proporzionale alla perdita di retribuzione subita dal lavoratore per effetto dello sciopero. In questo modo si realizzerebbe un danno anche per il datore di lavoro, con l’ulteriore conseguenza che entrambe le parti avrebbero interesse a trovare soluzioni condivise per dirimere il conflitto. Sarebbe auspicabile che la misura della sanzione fosse stabilita dalle parti in via consensuale. Lo sciopero virtuale serve a realizzare il contemperamento tra l’interesse collettivo dei lavoratori che sono rappresentati da chi proclama e l’interesse dell’intera collettività all’erogazione del servizio. Pertanto propone che sia persino obbligatori per certi settori nei quali i lavoratori non potrebbero scioperare data l’impossibilità di ridurre il servizio al di sotto della soglia normale. Infine, ritiene che lo sciopero virtuale potrebbe avere come ulteriore effetto positivo la destinazione della quota di salario e della quota dell’azienda a fini sociali.

 

Per Maresca17 lo sciopero virtuale in alcuni settori potrebbe sicuramente essere una possibilità da esplorare.

 

6) Le Sanzioni. Noi proponiamo, quale modifica all’attuale normativa, quella di prevedere una sanzione amministrativa per le aziende che rinviano le trattative o che non fanno niente per mettere fine al conflitto.

 

Infatti, riteniamo che vada valutata la motivazione che ha portato i lavoratori a scioperare, perché se è l’azienda a non volersi incontrare o a non voler ricercare una soluzione alla vertenza, allora chi è il vero colpevole del disagio dei cittadini?

 

Se dipendesse dai lavoratori la volontà di proseguire il conflitto, nonostante la disponibilità della controparte, o in caso di sciopero, avendo bloccato un servizio pubblico, il che contraddice le norme della legge sulla regolamentazione del diritto di sciopero, già nell’attuale normativa pubblica sono previste sanzioni; ma se dipendesse dall’azienda o da qualsiasi altra controparte, che, come nella maggior parte dei casi, non ha normali relazioni sindacali o non fa niente per dirimere il contenzioso e con vertenze che durano anni e non trovano né soluzioni né quantomeno si decide di aprire il tavolo, nonostante le varie sollecitazioni sindacali, va prevista una sanzione anche per tale controparte.

 

Lo stesso Santoro Passarelli si pone il problema di trovare le risorse per i rinnovi dei contratti per ridurre i conflitti e quindi ammette che una fase di incertezza nelle relazioni, anche per colpa delle aziende esiste e dato che propone di aumentare la sanzioni per scongiurare scioperi illegittimi, noi insistiamo per sanzioni anche per le aziende che non favoriscano la chiusura delle trattative.

 

Noi riteniamo che bisogna non solo regolare e garantire il diritto di sciopero, ma che si deve anche tutelare e garantire lo svolgimento della funzione sindacale nell’amministrazione o nell’azienda, riconoscendo alle organizzazioni sindacali la legittimità a rappresentare i lavoratori pienamente e regolando l’azione in modo da affrontare le questioni del contenzioso con il confronto e la mediazione. Questo perché quando non ci sono le condizioni per avere una sede di confronto o di partecipazione allora non resta che l’arma del conflitto.

 

Infine, come ha sostenuto Carmelo Barbagallo, a commento della relazione della Commissione di garanzia, sono anni che proponiamo l’avvio di una discussione seria perché bisogna regolare il conflitto. Noi siamo per trovare una soluzione ma discutendo seriamente.

 

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1) P. Calamandrei, 1952, Il significato del diritto di sciopero, in Riv. giur. lav, I, p.221 ss.

2) P. Calamandrei, op. cit., pag. 221 ss.

3) G. Ghezzi, U. Romagnoli, Il diritto sindacale, 1997, Zanichelli

4) Giuseppe Santoro Passarelli, Antonio Foccillo (a cura di), Diritto di sciopero regolato?, cit. pagg. 49 e ss, ed. Aracne, Roma 2010

5) Franco Liso, op.cit. pag. 75

6) Prof.ssa Ordinario di diritto del lavoro nella facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia.

7) Prof. ordinario di diritto del lavoro presso facoltà di giurisprudenza Università di Roma “Sapienza”

8) Mario Ricciardi, op.cit. pag. 53 e ss

9) Prof. associato di diritto del lavoro presso la facoltà di scienze politiche dell’università di Bologna

10) già prof. ordinario di diritto del lavoro presso facoltà scienze politiche Università di Roma “Sapienza”

11) Prof. ordinario di Diritto pubblico comparato presso Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. La citazione è tratta da www.federalismi.it

12) Mariella Magnani, Lezioni di diritto sindacale, Soggetti, Contratto, Conflitto collettivo, Anno Accademico 2011/12

13) Edoardo Ghera - op. cit. pagg. 41 e ss

14) Antonio Martone, op. cit. pagg. 65 e ss

15) Già ordinario di diritto del lavoro presso la facoltà di giurisprudenza università di Roma “Sapienza”

16) Già Presidente della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei sevizi pubblici essenziali

17) Arturo Maresca, op. cit. pagg. 85 e ss.