Salute e sicurezza  - Silvana ROSETO
PER NON NAVIGARE A VISTA
Manuale per Rls e Rlst
13/10/2012  | Salute.  

 

Il progresso tecnico e scientifico

 

Il costante riferimento alla miglior conoscenza umana

 

Per quanto attiene l’attività di protezione e prevenzione, la normativa europea precedente l’introduzione nei trattati istitutivi della Comunità Europea dell’articolo 118/A (il quale parla di armonizzazione nel progresso della normativa in materia di salute e sicurezza tra i paesi membri), dava indicazioni riguardanti interventi progettati secondo il criterio della ragionevole praticabilità, ossia invitava a adottare soluzioni tecniche d’intervento che, avendo a riferimento la migliore soluzione di natura economica, potevano indifferentemente assumere carattere collettivo o individuale. Difatti, la direttiva 80/1107/CEE (recepita nel nostro Stato dal D.Lgs. n. 277/91) prevedeva ancora “misure di protezione individuali, quando non si può “ragionevolmente” evitare in altro modo l’esposizione (art. 4, punto 7)”.

L’adozione della protezione al massimo livello tecnico e/o organizzativo, a differenza di quello che generalmente si crede, era già considerata nella normativa di prevenzione italiana perché collocata tra l’obbligo di carattere generale enunciato nell’articolo 2087 del Codice Civile: “L’imprenditore è tenuto a adottare ... le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, e le responsabilità penali per omicidio e lesioni personali colpose, previste dagli articoli 589 e 590 del Codice Penale. A supporto di questo, anche nella sentenza di Cassazione penale del 20/9/88 s’evidenzia che “le regole di condotta preventiva”, enunciate dall’articolo 2087 del Codice Civile, “concorrono ad integrare e perfezionare le fattispecie criminose”, individuate dagli articoli del Codice Penale prima nominati.

Nel nostro Stato si è recepita la direttiva 89/391/CEE con il D.Lgs. 626/1994, il quale all’articolo 3, comma 1 lettere b, d, g, recita:

“Le misure generali per la protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori sono: eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico e, ove ciò non è possibile, loro riduzione al minimo”;

programmazione della prevenzione mirando ad un complesso che integra … le condizioni tecniche produttive ed organizzative dell’azienda nonché l’influenza dei fattori dell’ambiente di lavoro”;

priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale”.

All’articolo 4, comma 5, lettera b) del D.Lgs. n. 626/1994, riferito al Datore di lavoro, dirigente e preposto: “... nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze ... aggiornano le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi ... ovvero in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione e della protezione”.

All’articolo 28 del D.Lgs. n. 626/1994 “Adeguamenti al progresso tecnico”, comma 1, lettera c: “si provvede all’adeguamento della normativa di natura strettamente tecnica e degli allegati al presente decreto in relazione al progresso tecnologico”.

Pertanto, la salute e l’ambiente, sono considerati dallo Stato un diritto fondamentale e primario e proprio per questa sua natura non possono essere subordinati a qualsiasi altro diritto, compresi quelli relativi all’Amministrazione dello Stato, alla libera impresa ed alla volontà individuale, intesa anche come libertà di monetizzazione o d’esposizione volontaria al rischio.

Il valore sociale della salute assume un carattere assoluto che va protetto al massimo grado possibile, quindi il riferimento per la sua tutela non può essere altro che al massimo dell’evoluzione della tecnica e della conoscenza umana, non solo sul livello progettistico-strutturale ma anche nella gestione delle risorse umane e finanziarie. 

Le sentenze e i commenti di giuristi ed esponenti della società civile di seguito riportati indicano, attraverso un percorso che rivaluta i concetti di salute e ambiente, quanto la considerazione del progresso, e della conoscenza che lo sviluppa, sia importante nel continuo miglioramento dell’attività preventiva e protettiva della salute e sicurezza sul posto di lavoro.

La Corte di Cassazione, sentenza n. 1463 del 9/3/1979, recita: “La salute è costituzionalmente garantita come fondamentale diritto dell’individuo (art. 32 della Costituzione) e, in relazione ad esso non è neppure configurabile un potere ablatorio dello Stato tale da farlo degradare ad interesse legittimo”.

E nella sentenza n. 5172 del 6/10/79, sempre riferita all’art. 32 della Costituzione: “La protezione si estende alla vita associata dell’uomo nei luoghi delle varie aggregazioni nelle quali questa si articola e, in ragione della sua effettività, alla preservazione, in quei luoghi, delle condizioni indispensabili o anche soltanto propizie alla sua salute: essa assume in tal modo contenuto di socialità e sicurezza, per cui il diritto alla salute, piuttosto (o oltre) che come mero diritto alla vita ed all’incolumità fisica si configura come diritto all’ambiente salubre … È chiaro che l’Amministrazione non ha il potere di rendere l’ambiente insalubre neppure in vista di motivi d’interesse pubblico di particolare rilevanza”.

“… Il diritto alla salute, tutelato quale diritto inviolabile del singolo, … non va inteso solo quale mero diritto alla vita e all’incolumità fisica ma anche quale diritto all’ambiente salubre. L’affermazione che il bene-salute comprende in sé il bene-ambiente e che l’ambiente va inteso quale dimensione spazio-territoriale della vita associata non lascia più dubbi circa la necessità di configurare il diritto all’ambiente quale esplicazione del diritto alla salute del cittadino … mentre va escluso ogni e qualsiasi potere dello Stato di disporre del diritto alla salute del cittadino. Neppure l’autorità che opera a tutela specifica della pubblica sanità può sacrificare o comprimere il diritto inviolabile del cittadino … L’intervento dell’autorità a tutela della salute pubblica deve rispondere solo ed esclusivamente al fine di migliorare la salute pubblica e, con essa, preservare e garantire ulteriormente la tutela del diritto alla salute che inerisce a ogni persona fisica … collegare la tutela dell’ambiente alla tutela della salute intesa quale diritto del cittadino è dovere dello Stato” (Sergio Salmi, Diritto dell’ambiente, Pirola Editore 1989).

Anche Salvatore Patti, in “Diritto all’ambiente e tutela della persona” (Giur. It. 1980, I, 859), configura “il diritto all’ambiente quale diritto autonomo del diritto alla salute e inerente la persona”.

Si legge nell’enciclica del 14/9/81 “Il lavoro umano” di Giovanni Paolo II: Il lavoro umano non riguarda solo l’economia ma coinvolge anche e soprattutto i valori personali …”.

Ancora Sergio Salmi in “Diritto dell’ambiente” recita: “Fra i diritti oggetto di particolare tutela costituzionale, il diritto alla libera iniziativa economica necessita di alcune precisazioniil diritto di esercizio dell’impresa non significa il diritto all’utilizzo di qualsiasi processo produttivo comunque idoneo a produrre beni. Nel nostro vigente ordinamento costituzionale il diritto all’esercizio d’impresa è un diritto che deve conformarsi ad altri valori considerati prevalenti, quali la dignità umana, la sicurezza, la libertà …”.

“Per l’imprenditore veramente inserito nel sistema produttivo, farsi carico della propria responsabilità sulle vite degli altri, in modo da perseguire un interesse generale che diventi benessere condiviso è un caso di natura autentica di capitalismo’ come lo teorizzano i padri di questa dottrina e perfino la Chiesa la quale, in tutte le encicliche sul lavoro, ricorda il contenuto etico del patto sociale tra padroni e dipendenti. Invece, soprattutto in Italia, sull’onda lunga del cosiddetto ‘mercatismo’, è passata l’idea che l’imprenditore possa usare i dipendenti, i precari, il territorio, a suo piacimento. Il ‘capitalismo coloniale’ ha una mentalità secondo cui si può disporre di un territorio e della sua popolazione, in sostanza umiliandola, senza farsi carico di progettare il futuro e lo sviluppo della zona in cui impatta la propria attività imprenditoriale" (Giorgio Meletti, “Nel paese dei Moratti” edito da Chiarelettere, 2010).

Nelle sentenze n° 475 del 27 aprile e 986 del 1988 si legge che “in relazione al disposto dell’art. 24 DPR 303/56, ha confermato la piena legittimità del criterio della ‘massima sicurezza tecnologicamente possibile’ in quanto, nelle lavorazioni che producono scuotimenti, vibrazioni o rumori dannosi ai lavoratori, devono adottarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuirne l’intensità. La fattispecie penale, pertanto, non può essere considerata generica ed indeterminata quando il legislatore faccia riferimento ai suggerimenti che la scienza specialistica può dare in un determinato momento storico e che né per l’imprenditore, né per il giudice, può rappresentare un problema la consultazione della scienza”.

La sentenza di Cassazione del 25 giugno 1990 afferma che “se un datore di lavoro sa, e non può non saperlo, che il bene dell’integrità psicofisica del lavoratore non è soltanto un valore suscettibile di valutazione economica ma è soprattutto un valore personale e sociale costituzionalmente protetto, l’attività diretta di tutela di quel bene non può non spingersi sino al punto in cui si sia certi che i presidi suggeriti dalla tecnica siano stati adottati”.

Sentenza di Cassazione Penale N. 10164 del 27/9/1994 riportante l’obbligo di adeguare macchine, strumenti e impianti al criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile.

Sentenza del 18/7/96, n. 312 - Corte Costituzionale: “Una misura protettiva è concretamente attuabile quando è generalmente praticata nei diversi settori ed accolta nella generalità degli standard di sicurezza”.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 312 del 25/7/96, relativa alla protezione da rumore, afferma che “al fine di restringere la discrezionalità dell’interprete, occorre rifarsi agli standard di sicurezza generalmente acquisiti e praticati sul piano delle misure tecniche, organizzative e procedurali”.

Sentenza del 16/5/97 n. 4593. “... La predetta interpretazione riguarda solo le misure organizzative e non quelle tecniche che devono essere le più avanzate …”

Cass. pen., Sez. III, 19 marzo 1999, n. 494 (c.c. 8 febbraio 1999) - Avitabile – “L’obbligo giuridico di assicurare un ‘elevato livello di tutela ambientale’, con l’adozione delle migliori tecnologie disponibili, tende a spostare il sistema giuridico europeo dalla considerazione del danno da prevenire (principio ‘chi inquina paga’) e riparare, alla prevenzione (soprattutto con la VIA, Valutazione di impatto ambientale), alla correzione del danno ambientale alla fonte, alla precauzione (principio distinto e più esigente della prevenzione), alla integrazione degli strumenti giuridici tecnici, economici e politici per uno sviluppo economico davvero sostenibile ed uno sviluppo sociale che veda garantita la qualità della vita e l’ambiente quale valore umano fondamentale di ogni persona e della società”.

Sentenza della Corte di Cassazione penale Sez. IV, 20 marzo 2000, n. 2433 (ud. 5 ottobre 1999). Pres. Viola. “L’obbligo del datore di lavoro di impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri di qualunque specie nei luoghi di lavoro, per quanto è possibile, sussiste allorché si accerti che l’imputato aveva la possibilità di impedire la diffusione delle polveri allo stato dello sviluppo delle tecniche di prevenzione o di abbattimento, nel senso che il datore di lavoro è obbligato a tenere conto delle tecnologie adottate o adottabili nello stesso settore (fattispecie in tema di diffusione di polvere di amianto)”.

Sentenza della Corte di Cassazione, sezione IV, del 2 luglio 1999 che recita. Da Raffaele Guariniello, “I rischi lavorativi da piombo, amianto, rumore nella Giurisprudenza della Corte di Cassazione (1995-1996)”, in Foro It., 1996 n. 542. “Nel delitto di omicidio colposo o di lesione personale colposa consistente in un tumore professionale da amianto, versa in colpa il datore di lavoro che, pur se abbia rispettato i cosiddetti valori limite di esposizione, non si sia attenuto al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile nell’attuazione delle misure di prevenzione contro le polveri di amianto, in quanto i valori limite, se da una parte introducono un elemento di maggiore certezza, dall’altra non stabiliscono una precisa linea di demarcazione tra innocuo e nocivo”.

Questa sentenza fa riferimento all’articolo 21 del DPR 303/1956, nella parte in cui prevede che il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti a impedire o a ridurre, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell’ambiente di lavoro. Ad avviso del Supremo Collegio, l’espressione “per quanto possibile” comporterebbe per il datore di lavoro l’obbligo di tenere conto delle migliori tecnologie adottate o adottabili nello stesso settore al fine di ridurre al massimo i rischi d’infortuni o malattie professionali, di tenersi costantemente aggiornato, di acquisire le esperienze di aziende simili, nonché d’individuare, caso per caso, le misure da adottare in concreto (il famoso principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”). Si tratta di un onere certamente gravoso ma che sarebbe giustificato dalle complessive finalità sociali perseguite dall’ordinamento giuridico e dall’esigenza di fornire ai lavoratori una protezione quanto più completa ed efficace.

La Corte giunge così ad affermare che “nell’attuale contesto legislativo italiano non v’è spazio per una interpretazione del concetto dei valori limite come soglia a partire dalla quale sorga, per i destinatari dei precetti, l’obbligo prevenzionale, giacché ciò comporterebbe inevitabili problemi di legittimità costituzionale. I valori limite vanno intesi come semplici soglie d’allarme, il cui superamento, fermo restando il dovere di attuare sul piano oggettivo le misure tecniche concretamente realizzabili per ridurre al minimo il rischio, comporti l’avvio di un’ulteriore e complementare attività di prevenzione soggettiva, articolata su un complesso e graduale programma di informazioni, controlli e fornitura di mezzi personali di protezione, diretto a limitare la durata dell’esposizione degli addetti alle fonti di pericolo”.