Alla ricerca della responsabilità perduta
GENNAIO 2018
Società
Alla ricerca della responsabilità perduta
di   Gian Maria Fara

 

 

TRENT’ANNI CON GLI ITALIANI

 

Quando, alla fine degli anni Ottanta, decidemmo di dare vita ad un Rapporto annuale sulla situazione generale del Paese, non avremmo mai immaginato di poter arrivare alla sua trentesima edizione.

Non che difettasse la capacità di proiezione o la fiducia in noi stessi di poter accompagnare, come poi è stato, le vicende che hanno segnato la vita del Paese in questi decenni. Più semplicemente, poiché avevamo immaginato il Rapporto come uno strumento di lavoro da mettere a disposizione del mondo dell’informazione e dei decisori pubblici e privati, eravamo consapevoli del fatto che, come tutti gli strumenti, anche questo potesse essere sostituito da altri, magari più idonei ad interpretare i cambiamenti e l’evoluzione della società italiana.

Anche l’impostazione stessa del Rapporto, organizzata ogni anno attraverso la scelta di sei dicotomie che si ritenevano poter rappresentare l’attualità e le emergenze, appariva allora del tutto originale ed esposta a commenti e giudizi di diversa natura. In molti osservavano con malcelata sufficienza quella che pareva essere una sfida dettata dalla incosciente presunzione di un gruppo di giovani ricercatori.

Il Rapporto dei primi anni, a rileggerlo oggi, appare come un manifesto dell’ingenuità, dei buoni propositi e del dover essere. E tuttavia, nonostante i limiti, conteneva in sé il seme che attecchendo ha dato vita ad un’esperienza che è cresciuta sino a diventare un punto di riferimento per il mondo dell’informazione, della politica e delle Istituzioni, e la sua presentazione un appuntamento atteso.

Nel corso degli anni non sono mancati i consensi e l’apprezzamento e neppure le critiche (che fanno sempre bene e aiutano a migliorare) e insieme al Rapporto sono cresciute schiere di giovani ricercatori, guidati da autorevoli docenti ed esperti, che si sono proiettati all’esterno a livello nazionale e internazionale, spesso con grande successo. Insomma, il Rapporto Italia è stato per molti giovani ricercatori una sorta di nave scuola e per noi meno giovani, impegnati nel mondo accademico o in quello delle professioni, un luogo dove sperimentare il dialogo ed il confronto tra culture ed esperienze diverse. E traendo proprio da queste la possibilità di produrre analisi libere anche da vincoli ideologici e culturali, ai quali la ricerca sociale si era spesso dovuta piegare.

L’indipendenza mantenuta nel tempo ad ogni costo e il confronto continuo ci hanno permesso di elaborare analisi e tesi in grande anticipo rispetto alla evoluzione di fenomeni che avrebbero manifestato ne gli anni successivi tutta la loro importanza, centralità e portata. Altra peculiarità del Rapporto è sempre stata quella di non esaurire la propria gittata con la giornata di presentazione ma, al contrario, quella di essere diventato un vero e proprio “compagno di lavoro” per quanti — per dovere, necessità o semplice curiosità — decidano di approfondire le molteplici fenomenologie che la politica, l’economia e la società esprimono. Ma non è questo né il luogo né il tempo di stilare bilanci anche perché il lavoro dell’Eurispes non si esaurisce nel suo Rapporto annuale ma è il portato di numerose altre attività di studio delle diverse sfaccettature della società complessa e per ultimo, ma non ultima, di una intensa attività internazionale che collega l’Istituto ai principali centri di ricerca e alle più importanti Università del mondo.

 

LA PAROLA CHIAVE DI QUEST’ANNO

 

Nei mesi scorsi, fedeli all’impegno assunto di affidare ogni anno al Rapporto una “parola chiave”, ci siamo concentrati sul concetto di responsabilità. E su questo concetto abbiamo lavorato considerandolo, per la sua presenza e per la sua mancanza, essenziale per tentare di descrivere le tendenze politiche, culturali, economiche e sociali in atto. Questo ci è sembrato in linea con le decine di migliaia di pagine di analisi prodotte nei primi trentacinque anni di attività dell’Istituto sempre spinto da un forte senso di responsabilità verso la collettività. Una responsabilità che sempre più risulta essere una rara avis e la cui assenza trova corrispondenza nella assolutezza dell’individuo tipica del “pensiero debole” così finemente analizzata da pensatori come Vattimo e Rovatti [1983].

 

Proprio osservando la cronaca del nostro tempo abbiamo notato come la mancanza di responsabilità sia diventata un elemento distintivo del vivere quotidiano ed il principale comune denominatore di una serie di vicende che hanno caratterizzato la vita pubblica italiana su diversi fronti. Insomma, nessuno è più responsabile di niente, indipendentemente dal livello decisionale osservato. Siamo ormai di fronte ad un sistema che spesso produce decisioni e scelte senza responsabilità. Quella responsabilità che sembra sempre più allontanarsi dalle decisioni negli ambiti della politica, dell’economia, del mondo dell’informazione, della sicurezza, della amministrazione della giustizia. Una caduta del senso di responsabilità che dai piani alti della società si trasferisce a livello dei singoli soggetti rendendo sempre più difficile la tenuta degli stessi rapporti sociali e interpersonali.

Ad esempio, sul piano politico la caduta del senso di responsabilità è ampiamente rappresentata, nello stesso tempo, da quei milioni di cittadini che decidono di non partecipare al voto e da quei politici che pensano di poter trarre consenso dalla stimolazione degli istinti più retrivi degli elettori attraverso quella che Paolo De Nardis [1999] ha definito una “società della nostalgia”, il desiderio con forte malessere, di tornare alle radici, al tempo che fu: una sorta di ritorno a Camelot. Tuttavia, già la segnalazione di una crisi, l’interrogarsi su una assenza segnalano una controtendenza. Se alcuni, anzi ormai molti, cominciano a porsi il problema è segno evidente che si sente il bisogno di un recupero di valori e di un’etica, di regole da ripristinare e rispettare.

Ma il ritorno all’antica etica — avrebbe detto Adorno — non può essere indolore così come i meccanismi di ricostruzione non possono essere semplici e a portata di mano come si vorrebbe.

 

SEPARATI IN CASA

 

I dati diffusi nelle ultime settimane sulla situazione economica nazionale sono senz’altro incoraggianti: cresce il Pil. Si riduce, sia pure lievemente, la pressione fiscale. Cresce l’occupazione. Ci troviamo di fronte a segnali interessanti di inversione della tendenza che ha afflitto l’Italia, più di altre nazioni europee, negli ultimi dieci anni. Sappiamo, tuttavia, quanto le nostre abitudini e i nostri giudizi siano sottomessi alla legge del pendolo che, come è noto, non riesce mai a fermarsi al centro per cui, di volta in volta, o va tutto male o va tutto bene.

In questa fase la tentazione potrebbe essere quella di considerarci fuori dal tunnel della crisi e che dopo la lunga dieta si possa ritornare alle vecchie abitudini. Il senso di responsabilità dovrebbe consigliare invece, di fronte a questa congiuntura favorevole, una maggiore prudenza e spingere a destinare le nuove risorse prodotte dalla crescita ad affrontare e cercare di risolvere i problemi strutturali che ipotecano lo sviluppo.

Tutto questo ci obbliga a riflettere su due questioni. La prima: continuare a parlare di “Sistema Paese” è ormai improprio. Sarebbe più corretto parlare di Sistema e di Paese in maniera distinta. Il Sistema è l’insieme delle reti e dei servizi pubblici e privati. Le strutture delle comunicazioni, i trasporti, la sanità, la scuola, la difesa, la giustizia, l’apparato burocratico-amministrativo centrale, regionale e periferico, le diverse autorità a livello territoriale e quindi la classe dirigente che lo amministra. Il Paese è fatto da noi: cittadini, utenti, consumatori, corpi intermedi, associazioni.

La seconda riguarda le organizzazioni politiche e sindacali, le stesse rappresentanze di categoria che dovrebbero costituire il collegamento tra Paese e Sistema. Tuttavia, sempre più, esse tendono ad alimentare la separatezza e a farsi, a loro volta, Sistema. Un tempo, nell’osservare e analizzare le vicende nazionali, si era soliti riferirsi al “Sistema Paese” nel senso che i due termini costituivano l’uno il completamento dell’altro.

Se continuiamo a riferirci al “Sistema Paese” come unicum commettiamo l’errore di riferirci a tutti e a nessuno nello stesso tempo. Ora il matrimonio si è sciolto e Sistema e Paese, separati in casa, convivono faticosamente sotto lo stesso tetto, spesso guardandosi in cagnesco, diffidenti l’uno dell’altro, in un’atmosfera di freddezza, tra reciproci rimproveri.

Un matrimonio durato più di cinquant’anni trascorsi più o meno felicemente, spesso faticosamente e così come accade in tutte le coppie, tra alti e bassi, ha esaurito la propria gittata. Come sempre, i partner cercano ognuno di addossare all’altro la colpa del fallimento. Ma che cosa si rimproverano i due?

Il Paese si sente deluso, tradito da un Sistema che non riesce più a garantire crescita, stabilità, sicurezza economica, prospettive per il futuro. Lo accusa di essere diventato autoreferenziale e di aver perso di vista la sua storica funzione: quella di guidarlo ed accudirlo, assicurando una sempre migliore qualità dei servizi. E, nello stesso tempo, di aver utilizzato la delega per rafforzare il proprio potere e i propri privilegi, disattendendo attese, bisogni e diritti. Lo accusa di egoismo e di avidità, di aver alimentato le disuguaglianze e di vivere nel lusso ad onta di chi combatte per mettere insieme il pranzo con la cena, di aver occupato ogni interstizio di potere per i suoi commis e per i loro figli, parenti e sodali. In aggiunta, i suoi “costi di esercizio” diventano sempre più esosi perché il Sistema tende ad espandersi continuamente e più si allarga la sua sfera di competenze più si riducono gli spazi di libertà.

Viceversa, le accuse che il Sistema rivolge al Paese non sono meno forti: il Paese non riesce a rendersi conto di trovarsi di fronte a cambiamenti epocali che mettono in discussione le antiche certezze. Pretende il mantenimento di un welfare che non può più permettersi ed è troppo legato all’idea del posto, possibilmente fisso, piuttosto che del lavoro. È ricco e continua ad accumulare risparmi invece di investirli e fa di tutto per non pagare le tasse. Ha ricevuto in eredità un  patrimonio che tutto il mondo ci invidia e non si cura di proteggerlo considerandolo res nullius.

Devasta interi territori salvo poi chiedere al Sistema di provvedere, magari con l’ennesimo condono. Vuole che i propri figli siano istruiti ma disprezza e sottopaga gli insegnanti e ricorre al Tar quando gli stessi figli vengono bocciati. Produce quantità enormi di immondizia ma non si piega alla raccolta differenziata. Chiede un’amministrazione di qualità ma poi si lamenta se veramente funziona, quando tocca i suoi interessi.

 

UN SISTEMA FRAGILE

 

Il Sistema è, e lo sarà ancora per molti anni, fragile sotto molti punti di vista. Beninteso: fragile non vuol dire debole. Anzi, l’Italia ha molte frecce nel suo arco, enormi potenzialità ma — e questo lo ripetiamo senza stancarci da anni — ha grandi difficoltà a trasformare la sua potenza in energia. E questo deriva principalmente dalla disomogeneità della nostra classe dirigente, nel senso che essa non persegue obiettivi comuni e comunque non nello stesso tempo, non con lo stesso impegno. Anzi, nella maggior parte delle occasioni ci fa assistere a divisioni e conflitti attraverso i quali le parti in causa puntano alla sopraffazione l’una dell’altra piuttosto che a trovare l’accordo a vantaggio del bene comune.

Basti osservare ciò che accade sul problema dei rifiuti a Roma o sulla vicenda dell’Ilva di Taranto per capire quale spirito di solidarietà animi la nostra classe dirigente. Siamo in ritardo nell’ammodernamento delle nostre infrastrutture, dei trasporti, del sistema scolastico, della banda larga, dell’informatizzazione del nostro apparato burocratico-amministrativo, della tutela dell’ambiente, del territorio, e tanto altro ancora.

Pesa l’ipoteca del debito pubblico che condiziona le scelte e la possibilità di impegnare le risorse necessarie per tentare di colmare questo ritardo. La ripresa non è il frutto di uno slancio collettivo, ma della spinta e delle performances di alcuni settori che da soli possono produrre buoni risultati ma non riescono ancora a svolgere una funzione “aggregante, coinvolgente e motivante”. Per usare una metafora militare: è come se si disponesse di coraggiosi reparti di assalto in grado di conquistare posizioni strategiche, ma le truppe necessarie a mantenere e presidiare le posizioni rimangono acquartierate in caserma.

Alcuni esempi possono aiutarci a capire meglio. Sul piano della sicurezza l’Italia sta dimostrando grandi capacità e ciò risulta evidente da ciò che è sotto gli occhi di tutti e che, per scaramanzia, è meglio non citare espressamente. Le nostre Forze di Polizia ed i nostri Servizi di Intelligence sono considerati un’eccellenza a livello internazionale e su di essi si sono consolidati il generale apprezzamento e la fiducia dei cittadini. La Magistratura nelle sue proiezioni tradizionali ed in quelle specialistiche, come la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, persegue senza sosta tutte le manifestazioni mafiose sul territorio e si è dotata degli strumenti necessari per intercettare ed interpretare l’evoluzione e le mutazioni delle organizzazioni criminali sempre più proiettate verso una nuova dimensione finanziaria e internazionale.

La nuova politica dei beni culturali sta dando ottimi frutti dopo le polemiche pretestuose che hanno accompagnato le nomine di esperti, spesso stranieri, alla direzione di importanti musei. Gli ultimi dati sulla presenza nei nostri siti culturali e le entrate cresciute in maniera sensibile dimostrano come la cultura si possa ben mettere a reddito. Nello stesso tempo, e questo è un fenomeno collegato, cresce il numero degli ospiti stranieri accolti dal nostro sistema ricettivo. La filiera di produzione agro-alimentare si esprime a pieno regime e il nostro export cresce di giorno in giorno. Il Made in Italy alimentare, che peraltro aveva retto bene anche durante gli anni peggiori della crisi, continua nella sua espansione e ha conquistato la vetta delle classifiche mondiali, superando tutti i concorrenti storici. Anche sul fronte industriale si segnalano importanti risultati e i macchinari e le tecnologie italiane si proiettano e si espandono nei nuovi mercati internazionali. Eccellenti risultati arrivano dal mercato automobilistico, dal settore della moda, che non conosce crisi, e siamo tra i primi nel compatto dei beni di lusso. Ritornando alla metafora militare: queste, ma non solo queste, sarebbero le nostre unità speciali. Purtroppo, il resto dell’esercito ancora non si vede.

 

UN PAESE CONFUSO

 

Il Paese è confuso sul piano politico e ondeggia indeciso tra conservazione e cambiamento. Tra desiderio di stabilità e spinte populiste. Tra ragionevolezza e nichilismo. Fatto sta che si confrontano due tendenze fondamentali: quella dell’etica della responsabilità e quella dell’etica della convinzione [Weber 1919]. Per semplificare e volgarizzare: l’etica della responsabilità si affida alla testa, quella della convinzione alla pancia. Tradotta in termini politici, l’etica della responsabilità impone la riflessione, il calcolo, la capacità previsionale, il confronto nel rapporto tra mezzi, fini e risultati possibili e, di conseguenza, si rappresenta con il metodo democratico nella scelta delle azioni.

L’etica della convinzione si affida ad una fede, ad una mera visione di carattere messianico- religioso, interpretata da un capo carismatico, che non può essere messa in discussione se non attraverso un’eresia, con tutte le conseguenze del caso per l’eretico. Ovviamente, non è «che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Ma vi è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità.

Tuttavia, il rischio è che, stabilendo come fondamentale una alternativa che diviene reale solo in casi estremi, ci si espone ad un duplice rischio: dare una specie di giustificazione da una parte ai falsi realisti che scartano con disprezzo i rimproveri dei moralisti, e dall’altra ai falsi idealisti che condannano senza discriminazione tutte le politiche perché non si conformano al loro ideale e che finiscono col contribuire, coscientemente o no, alla distruzione dell’ordine esistente, a vantaggio dei rivoluzionari ciechi e dei tiranni » [Aron 1972].

 

 

LA FUGA DALLE RESPONSABILITÀ

Ma come siamo arrivati alla situazione attuale? Alla lunga stagione del decentramento e del trasferimento di poteri non ha corrisposto una uguale assunzione di responsabilità da parte dei destinatari. Anzi, si è affermato un generale senso di rifiuto della responsabilità. Regioni ed Enti locali, aziende pubbliche e private erogatrici di servizi, dirigenti, funzionari e semplici impiegati si producono in una sempre più desolante fuga dalla responsabilità, ma sarebbe meglio parlare dal proprio dovere. Tutto ciò produce un blocco del processo decisionale e attuativo che impedisce al sistema di funzionare e di assicurare i servizi necessari. Il Sistema è prigioniero di se stesso, della iperproduzione di regole e di norme così numerose e spesso in contrasto tra di loro da generare, tra coloro che dovrebbero attuarle, un senso di confusione, di incertezza, quando non di paura per le conseguenze che una non corretta interpretazione e applicazione potrebbe generare.

A dire il vero, si tratta di timori non del tutto infondati se si osservano i sempre più numerosi interventi sanzionatori da parte delle diverse magistrature. Gare di appalto, affidamenti, delibere, finanziamenti, promozioni, assunzioni vengono passati al microscopio sia sul piano del merito sia su quello della forma in un generale clima di sospetto. Controlli in parte necessari perché ispirati al rispetto della legalità e ad una sacrosanta prevenzione della corruzione, ma in massima parte superflui, soprattutto se esercitati addirittura ex ante o, in molti casi, su questioni di scarsa rilevanza. Non vi è più nessun titolare del potere di firma all’interno della Pubblica amministrazione che non pretenda, insieme alla sua, anche la firma di un “superiore in grado”, di qualcuno che si assuma o condivida la responsabilità della decisione.

L’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, rischia se non il blocco della propria attività almeno un forte rallentamento a causa di un overbooking di richieste preventive effettuate dalle migliaia di Amministrazioni ed Enti che le sollecitano una certificazione o una “interpretazione autentica” della norma, anche su questioni che, tra l’altro, non sarebbero di sua competenza. Problema, questo, segnalato dallo stesso Presidente dell’Autorità Raffaele Cantone, costretto ad impiegare personale e mezzi per rispondere a richieste e quesiti che spesso hanno poco a che vedere con la missione istitutiva dell’Autorità e, di conseguenza, a rallentare l’analisi di questioni veramente essenziali.

Nello stesso tempo si assiste ad un’esasperante sovrapposizione di competenze che rende i processi decisionali lenti, farraginosi e complicati con un notevole incremento dei costi e l’allungamento dei tempi di esecuzione di opere o l’attuazione di programmi per quanto urgenti. Siamo arrivati all’assurdo che in molte parti del territorio nazionale, soprattutto nelle regioni meridionali, dove più intensa e pervasiva è la presenza delle organizzazioni criminali, si debba rinunciare a priori all’avvio di un’opera pubblica per il timore che le procedure possano essere condizionate o inquinate.

In questo senso, clamorosa è stata la rinuncia della città di Roma ad organizzare le Olimpiadi. Il timore manifestato dagli amministratori della Capitale che la realizzazione delle opere necessarie ed i conseguenti cospicui, necessari investimenti potessero alimentare il mercato della corruzione si è trasformata nella rinuncia alla stessa organizzazione dei Giochi. In buona sostanza, una vera e propria fuga dalla responsabilità e l’implicita ammissione di non essere in grado di gestire un’operazione così importante e garantire, nello stesso tempo, pulizia e trasparenza.

Anche alcune misure di carattere legislativo che potrebbero produrre risultati di grande rilievo spesso vengono vanificate dall’apparato burocratico e da un intreccio di regole che, mentre garantiscono la correttezza delle procedure, mettono in secondo ordine il risultato. Basti pensare — per fare un esempio — alla gestione dei beni confiscati alle Mafie, diverse decine di migliaia, condotta con assoluta scarsità di uomini e mezzi, tra procedure farraginose ed ostacoli talvolta insormontabili. In numerose occasioni, ad essere confiscate sono aziende con centinaia di dipendenti, alle quali occorre comunque garantire la prosecuzione delle attività.

In questi casi non è sufficiente nominare un amministratore giudiziario, ma occorrerebbero manager preparati per assicurare continuità alla produzione, alle vendite e per mantenere quote di mercato che diano una prospettiva alle imprese stesse. Ma tutto questo sembra estremamente complicato, tanto da rendere spesso vani i risultati conseguiti con grande sacrificio ed impegno dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia. La responsabilità, in questo caso, è del Legislatore che produce norme confuse, contraddittorie e inefficaci.

 

UNO SPORT NAZIONALE

Ma vi è un altro fronte decisivo per la vita dei cittadini quale è quello della sanità. Gli esempi di comportamenti e procedure informate ad una sostanziale assenza di responsabilità sono numerosi e di diverso segno. L’Eurispes ha da poco licenziato il primo Rapporto sul Sistema sanitario realizzato insieme con l’Enpam. Bene, la prima manifestazione di irresponsabilità che si riscontra in relazione al Sistema sanitario nazionale, consiste nel parlarne male — per così dire, “di default” — come se attaccarlo fosse un diffuso sport nazionale.

Va ribadito invece con nettezza, come fa il Rapporto, che il nostro sistema è tra i più avanzati al mondo, e ciò viene riconosciuto universalmente fuori dai confini del Paese. Allo stesso tempo, la grande difformità nell’erogazione del bene-salute è drammaticamente evidente tra le diverse aree regionali; essa chiama in causa non i suoi princìpi ispiratori, ma i clamorosi dislivelli nella capacità di gestione. La regionalizzazione del sistema produce risultati agli antipodi e difficili da omogeneizzare sulla scorta delle buone pratiche e delle tante eccellenze esistenti.

La manutenzione del sistema latita in periferia, ma anche al centro. Ad esempio, si riscontra l’assenza di una vera programmazione dei fabbisogni di personale medico. I medici di medicina generale sono in “esaurimento anagrafico”, in quanto nella maggior parte dei casi ultra 55enni, e i corsi di specializzazione ne preparano un numero assolutamente insufficiente. Ma c’è di più: si assiste ad una emorragia di figure professionali “create” dal sistema universitario italiano che “emigrano” in altri paesi, soprattutto europei, che in tal modo si avvalgono di medici ben preparati su quali non hanno dovuto investire.

Dal 2005 al 2015 più di 10.000 medici italiani sono andati a lavorare all’estero, e questa “transumanza” riguarda massimamente proprio il nostro Paese, in quanto i “nostri” professionisti che emigrano rappresentano il 52% dell’intera mobilità dei medici europei. Se si considera che la costruzione di una professionalità medica costa al Paese almeno 500.000 euro, si può valutare l’impatto, anche economico, di questo spreco.

Se si passa poi ai livelli di soddisfazione che i cittadini esprimono in relazione al Sistema sanitario nazionale, il fenomeno delle lunghe liste di attesa è certamente l’aspetto più problematico. Eppure, anche in questo caso si deve constatare come in alcune Regioni si stia operando per risolvere sostanzialmente il problema, mentre in altre il diritto alla salute sancito dai LEA, i Livelli essenziali di assistenza, rimane spesso solo sulla carta. Ciò inevitabilmente chiama in causa  la preparazione e la responsabilità di chi è messo a capo di questi complessi sistemi.

 

TRA IMBONITORI E ARROGANZA

A fronte delle tante fragilità e criticità del Sistema e della confusione del Paese, non sembra che i partiti politici e i mezzi di informazione siano particolarmente impegnati in direzione di un recupero del senso di responsabilità. La classe dirigente (in tutte le sue espressioni, quindi, non solo la parte politica) non riesce a dare al Paese un progetto che lo orienti per i prossimi decenni e un Paese senza progetto rischia di essere un Paese senza futuro. Considerando, per esempio, la politica nostrana: l’unico futuro che i partiti riescono a vedere è quello a breve, brevissimo termine.

Basti osservare i toni e la qualità del dibattito politico; sembra di assistere ad una gara tra imbonitori dove si promette tutto a tutti: riduzione della pressione fiscale, eliminazione del canone Rai, reddito di cittadinanza, reddito di inclusione, reddito di dignità, nuovi posti di lavoro, abolizione delle tasse universitarie e altro ancora. Politique politicienne buona per ogni occasione ma nessun messaggio sul futuro, sulle grandi questioni che languono in attesa che la politica riscopra se stessa, il suo valore, la sua nobiltà e la sua vera vocazione. Ma ciò che più colpisce, nell’osservare il dibattito politico in corso, sono i toni ed il modo in cui i partiti e gli esponenti politici si confrontano. Non vi sono avversari da contrastare o elettori da convincere, ma solo nemici da abbattere e da sconfiggere.

I termini più adeguati a descrivere la vicenda politica attuale sono: arroganza, prepotenza, protervia, insolenza e si sente la mancanza della pacatezza, della ragionevolezza, del dialogo, della riflessione che nei tempi passati la politica riusciva ad esprimere anche nei passaggi più difficili e complicati della vita nazionale. Ma allora politica e partiti erano veicoli di democrazia, mentre oggi sono diventati un fatto privato, anzi personale. Occorrerebbe tornare — parafrasando un celebre saggio di Norberto Bobbio [2014] — alla “riscoperta della mitezza” come metodo. Ciò che manca e del quale i cittadini nutrono un grande bisogno è un’idea di futuro, di un progetto al quale affidarsi e affidare l’avvenire dei propri figli. Alla politica, principalmente alla politica, spetta il ruolo di gestire il presente, di organizzare e guidare il cambiamento, di disegnare il futuro dispiegando le risorse e gli asset a disposizione.

Il nostro è un tempo segnato da profonde modificazioni strutturali degli assetti e dei modi di vita tradizionali, cambiamenti causati dai processi dello sviluppo globale. La globalizzazione è un processo ben diverso dalla internazionalizzazione delle attività economiche e dei commerci, perché fonda le dinamiche economiche su un progresso scientifico e tecnologico rivoluzionario (siamo ai confini della vita e della morte), su cambiamenti radicali negli stili di vita e nel pensiero (abitudini, linguaggio, concetti), fino a modificare categorie fondamentali come quelle di spazio (il mondo sempre più un piccolo villaggio) e di tempo (la cultura del presente, che cancella passato e futuro).

“Strutturali”: è con questo termine che in genere sono definiti i cambiamenti profondi in atto nella società contemporanea. Strutturali perché incidono radicalmente sulla vita quotidiana delle persone e delle comunità, toccano i fondamenti del pensiero, dei sentimenti, della immaginazione circa le prospettive di quella che è stata finora un’idea certa di progresso, lineare e costante nel tempo. Quelli a cui stiamo assistendo sono, dunque, dei grandi processi di discontinuità e di rottura con il sistema di certezze e di sicurezze che hanno guidato a lungo le nostre società. Da qui, per inciso, anche le difficoltà obiettive ad elaborare una qualche ipotesi plausibile di percorso politico, che sia finalizzato alla realizzazione di un progetto condiviso, fondato su basi solide, sostenibile nel tempo, al di là delle insufficienze/divergenze, culturali ed etiche delle persone (per quanto esistano e siano molto gravi e diffuse). Nel nostro caso, l’idea di futuro non può che essere legata all’Europa che era e rimane un grande progetto sul quale occorre concentrare tutte le energie.

 

L’Eurispes è stato, nel corso degli anni, in numerose occasioni fortemente critico sulle derive e sui percorsi assunti dal processo di costruzione di una vera unità europea. Oggi, a distanza di anni, constatiamo con soddisfazione come molte delle nostre perplessità e dei nostri timori abbiano contribuito ad una nuova consapevolezza sulla necessità di una profonda correzione sul modo di organizzare e gestire il percorso che dovrebbe portare ad una vera Unione degli europei.

 

UN PROGETTO INDISPENSABILE

In un recente discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato di fronte al Parlamento europeo — una Unione segnata tra l’altro dal processo di uscita della Gran Bretagna —, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha parlato espressamente di una “crisi esistenziale” del sistema europeo. «Ero qui, un anno fa, e vi dissi che lo stato dell’Unione non era buono. Vi dissi che non c’era abbastanza Europa in questa Unione; e che non c’era abbastanza unione in questa Unione. La nostra Unione europea è, almeno in parte, in una crisi esistenziale. Ma mai prima ho visto così pochi elementi comuni tra i nostri Stati membri; così poche aree nelle quali c’è accordo a lavorare insieme. Mai prima ho visto tanta frammentazione e poca comunità nella nostra Unione (...) Devo ammettere che abbiamo tanti problemi irrisolti (...) Sì, per questo abbiamo bisogno di una visione a lungo termine».

Tra i tanti problemi irrisolti, il presidente Junker segnalava l’alto livello della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali, la “montagna di debiti pubblici”, la difficoltà ad accogliere ed integrare gli immigrati, le minacce alla sicurezza interna ed esterna. Da parte nostra, potremmo aggiungere, per maggior precisione, i dati relativi a 122 milioni di cittadini europei che sono a rischio di povertà, ai tanti giovani europei in età lavorativa — pari al 25 per cento della forza lavoro — che sono impiegati con contratti part-time, o contratti temporanei, perfino contratti a zero ore, costretti quindi ad una precarietà di vita, in cui è obiettivamente difficile progettare qualunque futuro.

Peraltro, sono tutte informazioni e dati forniti dalla stessa Commissione Europea nei documenti di preparazione del Vertice Sociale che lo scorso 17 novembre 2017, in Svezia, ha solennemente proclamato il nuovo Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. È di fronte a questa situazione che l’Eurispes ha ripreso e rinnovato l’impegno a contribuire nella costruzione di un’Europa come vera comunità di popoli, un impegno che aveva avviato negli anni Novanta del secolo scorso, come testimoniato anche dal cambiamento del nome dell’Istituto — da Ispes a Eurispes. Un impegno testimoniato dal primo Rapporto sull’Unione Europea, pubblicato proprio nel 1993 e, successivamente, dagli incontri e dalle Reti permanenti europee fondate e promosse e tutt’ora operative sui temi strategici del Modello Sociale Europeo, del lavoro, della promozione sociale, della corretta comunicazione.

Negli ultimi mesi, l’impegno dell’Eurispes si è arricchito con la costituzione e l’avvio di uno specifico Laboratorio sull’Europa, “Europa Plus”, perché vorremmo avere più Europa, certo diversa da quella attuale: un’Europa più partecipata e democratica, più attenta ai bisogni delle persone, più coesa e solidale.

“Europa Plus” è un laboratorio di riflessione e di proposte su temi strategici, a cominciare da quello dell’identità dell’Unione e del valore delle sue politiche; ma è anche uno strumento di confronto, soprattutto con i responsabili istituzionali e politici delle decisioni. Con questo strumento aperto ai migliori contributi vorremmo, infine, offrire un sostegno qualificato e sollecitare il Paese a ricostruire un sistema di valori e politiche condivise sui temi europei. Una mancanza che ha tante ripercussioni negative sul ruolo dell’Italia in Europa, come è confermato anche dagli accordi di tipo collaterale, non strategici, che ci vengono riservati nei patti bilaterali tra gli Stati.

La crisi della politica, della “fede” nella capacità risolutiva della globalizzazione e la crisi economico-finanziaria hanno fatto emergere i limiti e le contraddizioni di questa Unione e dell’Eurozona in particolare. Hanno evidenziato in maniera inequivocabile l’incapacità dell’Unione — così come è — a dare risposte concrete ai problemi che le persone devono affrontare ogni giorno, come le nuove disuguaglianze, gli squilibri sociali ed economici lasciati fuori dalla porta a Maastricht, convinti che con l’entrata in vigore dell’Euro, “tout suivra”, tutto si sarebbe risolto automaticamente.

Un vero fallimento dell’Unione, rispetto all’ispirazione originaria dei padri fondatori e rispetto ai modelli di sviluppo di altre realtà del mondo. Se questo è potuto accadere comunque, ciò è dovuto a ragioni che affondano le radici in cause ben più profonde, che l’Unione continua a ignorare. Dagli anni Cinquanta, forse per la prima volta in modo così evidente, in Europa sono tornate le paure su cui speculano alcuni gruppi politici, ispirati da correnti di pensiero che pensavamo di aver sconfitto e archiviato per sempre, provocando la rincorsa, pericolosa, anche da parte dei partiti tradizionali.

Come se gli europei avessero dimenticato il grande valore ed il significato della “libertà” che hanno tanto faticosamente conquistato e mantenuto in questi anni, grazie anche all’Europa. Nel momento più critico della sua storia si è rotta la coesione del sistema. La crisi dell’Eurozona ha accentuato le disuguaglianze aperte alla globalizzazione, per gli errori commessi e la sua paralisi decisionale. L’insorgere delle altre emergenze (immigrazione, sicurezza e altro ancora) ha incrinato ancor più la fiducia verso l’Unione, ha rotto il principio di solidarietà sul quale si basa il Trattato, l’idea dell’Europa che “protegge”, come un valore aggiunto a quello degli Stati. La conseguenza è che stanno emergendo divisioni, veti incrociati, che hanno bloccato il processo decisionale e politico, a livello di Unione, accentuando tutta la sua debolezza ed inefficacia, lasciando gli Stati membri in balia di se stessi o del più forte.

Bloccati dai vincoli europei sulle materie di bilancio, ed impossibilitati ad agire o ad affrontare da soli tutti i problemi che si sono accavallati, disorientando e spaventando i cittadini, caduti nell’indifferenza o nell’avversione, senza più fiducia nell’Unione. Così l’Unione, al di là della retorica, di fronte ai problemi delle persone, è apparsa e appare impotente, come rassegnata ad un destino di decadenza, spingendo gli europei a chiudersi di nuovo in se stessi, dentro i confini nazionali o locali, perdendo di vista l’orizzonte comune “europeo”. La crisi, da economica e sociale si è trasformata in crisi politica, esistenziale, di valori. Ritornano gli interrogativi su chi siamo e su come stare insieme. Il declino demografico è un altro degli aspetti che pongono una seria ipoteca sul futuro dell’Unione. Solo alcuni dati: fino ad alcuni anni fa l’Europa aveva il triplo degli abitanti dell’Africa; oggi il rapporto si è invertito; negli anni Sessanta sulla terra vivevano 3 miliardi di abitanti, ora stiamo arrivando a 10. Siamo passati da 1/6 ad 1/20 della popolazione mondiale. Ciò non vuol dire che l’Europa sia vecchia e polverosa, ma ridimensionata, più piccola. Questo sì.

 

IN MEZZO AL GUADO

Le ragioni che abbiamo segnalato e gli avvenimenti dell’ultimo decennio hanno posto l’Unione europea di fronte ad un bivio. Lo stesso metodo di costruzione ed i continui rinvii delle scelte di fondo, l’hanno lasciata sospesa in mezzo al guado. Abbiamo davanti a noi tre scenari.

Primo: tutto continua come in precedenza, com’è stato sinora; si procede con piccoli interventi, aggiustamenti di facciata, agendo più per stato di necessità che per convinzione, fingendo di completare l’Eurozona, senza l’indicazione di una direzione verso la quale andare, con il rischio di far affondare “la barca”.

Secondo: decidere, invece, di affrontare i limiti di fondo dell’Eurozona, quelli economici, sociali e politici, per trasformare quindi l’Unione.

Terzo: partire dalla dimensione politica dell’Unione, il percorso più ambizioso e coraggioso.

Bisogna ammettere che — al di là dei principi del Trattato (disattesi) e della retorica ricorrente in molti discorsi e vertici europei — finora, il grande sforzo di costruzione della Ue ha prodotto risultati modesti, parziali, ancora del tutto insufficienti. Abbiamo costruito una casa confusa, ingovernabile, dimenticando chi vi abita. In questo senso, i grandi problemi derivanti dall’introduzione della moneta unica, sono stati derubricati e ridotti a problemi contabili, nell’ambito del principio economico “liberista”, imposto come un’ideologia.

Un’impostazione inaccettabile, da correggere per rimettere “la persona”, l’umanesimo senza aggettivi, al centro del progetto e dell’iniziativa europea. Per provare a raggiungere lo scopo, a monte di tutto, bisognerebbe rimettere al centro “la Politica”. Pensare che l’Europa potesse farne a meno è stato un grave errore, già dall’origine, poi ripetuto in varie occasioni, fino al Trattato di Lisbona. Dobbiamo porre rimedio a questo vuoto che rischia di uccidere l’Unione.

L’Italia, nel dopoguerra, ha dato un grande contributo alla nascita dell’Europa (Manifesto di Ventotene, Conferenza di Messina, Trattato di Roma). Anche successivamente il nostro Paese è stato protagonista dei cambiamenti europei più significativi. Un protagonismo, ripreso negli ultimi anni, che va consolidato. Per questo, alla luce delle urgenze e dei cambiamenti in atto, serve un salto di qualità nell’azione complessiva dell’Italia che dovrebbe provare ad agire, sulla base di una vera ricucitura tra sistema decisionale e Paese reale, la sola condizione per recuperare autorevolezza e un ruolo incisivo nella soluzione dei problemi europei che abbiamo evocato.

 

UNA QUESTIONE DI BUONSENSO

Per certo, in questo 2018 il problema dell’immigrazione rappresenterà il banco di prova della tenuta dell’Unione europea e della stessa relazione fra “Sistema” e “Paese”. Quanto accaduto di recente nei confini orientali dell’Unione, con la politica dei muri e del filo spinato, rimanda la memoria ad epoche e avvenimenti dolorosi, così come preoccupa la crescita dei movimenti neonazisti e neofascisti anche nel nostro Paese.

Tutto sembra complottare contro le conquiste faticosamente raggiunte. L’etica della responsabilità dovrebbe condurci ad un diverso e più lungimirante approccio su questo tema, che non solo anima la cronaca politica italiana, ma rischia di diventare un elemento di ulteriore divisione all’interno di un Paese come il nostro, da sempre incline alla cultura delle fazioni. Ma, soprattutto, ciò che preoccupa è che il problema dell’immigrazione rischia di mettere in crisi la tenuta stessa dell’idea di Europa poiché fenomeno strumentalizzato dai movimenti populisti e da quelli dell’estrema destra.

Descrivere con dosi sempre più massicce di allarmismo — così come fanno alcune forze politiche, i problemi posti dall’afflusso di immigrati e rifugiati — non solo non contribuisce alla soluzione di un problema epocale, ma rischia di creare pericolose tensioni all’interno di un corpo sociale già provato da dieci anni di crisi economica. Sarebbe pressoché impossibile riassumere le innumerevoli tappe di un dibattito che si protrae da parecchi decenni con alterne vicende. Ciò che ragionevolmente si può fare è cercare di aggiungere qualche considerazione di buon senso a una discussione che si alimenta soprattutto di luoghi comuni, spesso di scarsa conoscenza, di una insufficiente cultura civica e, perché no, della incapacità di riconoscere e quindi tutelare gli interessi propri e quelli del Paese nel complesso. Purtroppo, troppo poco si è fatto nel corso degli anni per informare e preparare l’opinione pubblica a confrontarsi e convivere con un fenomeno che già da più di trenta anni si capiva che sarebbe stato epocale.

I veri problemi hanno cominciato a manifestarsi con l’arrivo di nuove schiere di immigrati provenienti dal bacino del Mediterraneo a seguito delle cosiddette “primavere arabe” e a seguito di guerre che hanno insanguinato Iraq, Siria, e di quelli sempre più consistenti provenienti dai paesi dell’Africa centrale. I primi fuggivano da guerre civili e da altre situazioni altrettanto gravi, i secondi da condizioni di sottosviluppo, miseria ed eccidi tribali. Su questo fronte il nostro Paese ha svolto un ruolo ammirevole, riconosciuto a livello internazionale, sopperendo, tra l’altro, allo scarso impegno dell’Unione europea. A seguito di questa ultima ondata di arrivi si è scatenata la reazione delle componenti più retrive della politica e della società italiana. Stabilendo per gli immigrati islamici, l’equazione islam = terrorismo ed esaltando, per quelli provenienti dall’Africa centrale, una “invasione nera” che avrebbe messo in discussione il nostro ordine sociale, e perché no, la stessa sopravvivenza della presunta razza italica.

 

UN PAESE DI EMIGRANTI

Non è questo il luogo per rifare la storia dell’immigrazione nel nostro Paese sulla quale, peraltro, sono stati scritti migliaia di volumi ed articoli, ma lo è certamente per segnalare insieme alla superficialità dei nostri mezzi di informazione, la pochezza di parti consistenti della nostra classe politica che alimenta strumentalmente sentimenti di paura e di odio nei confronti degli immigrati.

E tutto ciò senza riflettere sul fatto che l’Italia è uno dei paesi che, proprio per la sua storia recente e meno recente, dovrebbe avere sul tema dell’immigrazione un atteggiamento di maggior comprensione e partecipazione. Forse sarebbe ora che i media italiani spendessero un pò di tempo e spazio per raccontare agli italiani la storia dei luoghi dai quali provengono gli immigrati e quella delle responsabilità dei paesi occidentali. Dovrebbero raccontare la vicenda del colonialismo e i percorsi delle diverse forme di neo-colonialismo che sottraggono ai paesi africani quel che era rimasto in quei territori.

Il colonialismo era per certi aspetti più umano del neo-colonialismo. Prendeva ma lasciava comunque qualcosa nei territori che occupava: strade, ospedali, case, scuole, dovendo comunque garantire una dignitosa qualità della vita nello stesso tempo ad “occupanti” ed “occupati”. Infrastrutture che, sia pure con le limitazioni del caso, potevano essere utilizzate dalle popolazioni locali. Comunque, una volta raggiunta l’indipendenza, quelle opere e quelle infrastrutture restavano nella disponibilità dei governi e delle popolazioni. Si trattava, in buona sostanza, di un colonialismo economico.

Il neo-colonialismo è di tipo finanziario e sostanzialmente predatorio, che rapina senza dare niente in cambio. Basti pensare alla pratica del land grabbing e ai metodi subdoli e ambigui attraverso i quali si esprime l’accaparramento dei terreni agricoli e delle risorse idriche da parte di investitori e settori finanziari occidentali, o direttamente di Stati o fondi sovrani. È un fenomeno recente esploso con i rincari dei generi alimentari di base a metà del primo decennio del nuovo secolo, ma la cui estensione ha conquistato ad oggi circa il 4% dell’intera superficie del territorio agricolo coltivato nel mondo: sessantasei milioni di ettari.

Negazione dei tradizionali diritti di proprietà, espropri, esodi di intere popolazioni, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali e, in primo luogo, dell’oro blu (l’acqua), corruzione delle classi dirigenti locali, militarizzazione delle aree interessate dagli investimenti, fomentazione di scontri e guerre tribali o religiose. Scrive Michele Di Salvo [2016] ne il suo La guerra d’Africa: «Le multinazionali concludono contratti di locazione pluriennali ad un prezzo medio che in Africa attualmente va da uno sino a un massimo di due dollari di canone per ettaro l’anno e comprende tutta l’acqua necessaria che l’investitore è capace di estrarre». Le aree interessate dal land grabbing e destinate a coltivazioni intensive vengono di fatto spopolate e gli abitanti obbligati all’inurbamento forzato. Centinaia di migliaia di africani sono costretti a trasferirsi nelle bidonville alla periferia dei grandi centri urbani e, successivamente, ad alimentare i flussi di emigrazione gestiti dalle organizzazioni criminali.

In conclusione, sfruttati in patria, derubati, torturati e violentati durante il tragitto verso l’Europa, malamente accolti e discriminati nei paesi cosiddetti “civili”, quegli stessi che ne provocano l’impoverimento. Tutto questo rende quantomeno poco comprensibile l’atteggiamento di chiusura che l’Europa mostra oggi. Si alzano muri e si erigono barriere, si adottano misure restrittive, si intensificano i controlli e le difese. Si usa come giustificazione una presunta necessità di proteggersi e di difendersi in parte nei confronti del terrorismo e in parte con la necessità di tutelare il proprio livello di benessere, o, di preservare l’identità e i valori etici e religiosi.

Argomenti che hanno, come la cronaca recente dimostra, larga e facile presa nelle opinioni pubbliche dei diversi Paesi, già duramente provati dalla lunga crisi economica e dal susseguirsi di attentati terroristici in diverse città europee. In ogni caso, mentre le motivazioni di carattere economico appaiono fragili, se non del tutto inconsistenti, qualche fondamento lo hanno quelle ispirate alla difesa identitaria. Nei decenni passati l’Europa ha assorbito milioni di immigrati che in gran parte provenivano dagli stessi Paesi europei o dalle ex colonie, mentre i migranti di oggi provengono da Pae si extra europei e sono quindi portatori di altre culture e di altri valori.

In qualche modo, ciò che ci spaventa o nel migliore dei casi ci mette a disagio è il problema di doverci confrontare con “l’altro da noi”, con il dover gestire la complessità e la multiculturalità, col vedere le nostre città trasformarsi in chiave multietnica e multirazziale. E si tarda a capire che ci troviamo di fronte ad un fenomeno irreversibile provocato dai processi, incontenibili, della globalizzazione.

Abbiamo sposato con entusiasmo i vantaggi della globalizzazione sul piano economico, sulla libera circolazione delle merci e del denaro, ma non riusciamo ancora ad accettare l’idea della libera circolazione delle persone.

Dunque, le motivazioni e le paure di carattere economico sono del tutto fragili poiché, se si dovesse mettere a punto una seria analisi costi-benefici, questi ultimi sarebbero ben superiori ai primi.

Su questo tema vale la pena di ricordare ciò che il cancelliere tedesco Helmut Kohl disse di fronte al Bundestag nel 1992 denunciando i neonazisti che si erano resi protagonisti di un’aggressione nei confronti di immigrati turchi: «Germania basta, gli stranieri ti fanno ricca» e continuò «(...) questi ottusi xenofobi che gridano “fuori gli stranieri”, dovrebbero sapere che senza il lavoro di 6 milioni di stranieri, sarebbe ben difficile per i cittadini tedeschi, poter continuare a godere del loro benessere. Ogni anno gli immigrati contribuiscono con il 9% del Pil tedesco e versano nelle casse dello Stato 25 miliardi di marchi. Senza di loro chiuderebbero campi, ospedali, fabbriche, servizi essenziali per le famiglie e le città».

E, solo per citare qualche dato che ci riguarda più da vicino, gli stranieri regolari residenti in Italia sono poco più di 5 milioni e producono 1’8,8% del nostro Pil (circa 127 miliardi).

Gli immigrati regolari versano nelle casse dell’Inps 8 miliardi di euro e ne ricevono solo 3 in pensioni. E, spesso, danno lavoro agli stessi italiani. Colmano inoltre gli effetti negativi — in particolare nel mondo del lavoro — del drammatico processo di denatalità del nostro Paese: l’Italia, infatti, insieme al Giappone, è tra i paesi dove si fanno meno figli e dove il tasso di invecchiamento è ai livelli più alti. È una delle conseguenze, ad esempio, della grande precarietà diffusa soprattutto nel mondo giovanile, un altro grave fenomeno strutturale del nostro tempo, che porta i giovani a modificare i propri progetti di vita. Ovvero, ancora peggio, a cancellarli del tutto, e con essi, a ridimensionare l’idea di formare una famiglia e di fare figli.

 

RICOLLEGARE “PAESE” E “SISTEMA”

Nel dibattito corrente usiamo spesso, come abbiamo accennato, espressioni come “cambiamenti strutturali”, “crisi strutturali”. Ma, se vogliamo davvero uscire dalla retorica che tutto uniforma, copre e nasconde e se vogliamo invece assumerci la responsabilità che l’uso di queste parole comporta ed aiutare davvero il nostro Paese a recuperare una fiducia condivisa nel futuro, dovremmo chiarire a noi stessi alcuni passaggi fondamentali.

Tutti siamo concordi nel definire come strutturali i cambiamenti in atto nella nostra società per quanto accade in Italia e nel mondo con il progresso scientifico e tecnologico, lo sviluppo economico globale, i valori etici e culturali su cui si basano le prospettive personali di vita e la convivenza delle nostre comunità. Ma, deve essere chiaro che quando si vivono cambiamenti strutturali è possibile, certo, ricostruire l’insieme delle cause che hanno avviato tali mutazioni, ma non è affatto chiaro, se non impossibile, avere una idea precisa dello sbocco finale, della possibile via di uscita di tali processi, e questo perché i nostri sistemi sono entrati in situazioni del tutto nuove influenzate da variabili, fattori, interessi, i più eterogenei e diversi tra loro.

La storia ci insegna che, quando avvengono questi cambiamenti strutturali, i nostri sistemi cambiano profondamente rispetto alla situazione iniziale. Sempre i cambiamenti strutturali hanno portato a situazioni del tutto nuove e inattese. In ogni caso, si tratta sempre di processi segnati da una grande discontinuità, questo il punto chiave da sottolineare, tra la situazione iniziale e quella che via via si viene costruendo.

Sono le grandi discontinuità che l’Italia sta vivendo ormai da diversi anni e che sempre più spesso spingono ad operare sulle emergenze, sul breve termine, a restringersi nel proprio particolare. Ma, questa è la domanda che dobbiamo porci: quanto siamo impegnati, invece, su quello che potremo definire la costruzione di un nuovo ordine condiviso, uno scenario di futuro possibile?

In genere, alla espressione“cambiamenti strutturali” abbiniamo un’altra espressione, quella di “crisi strutturale”. Ma crisi è una parola che viene dal greco antico, “crisis” (κρ?σις), con una etimologia “krino”, che vuol dire separare, selezionare, scegliere, decidere. In quale misura stiamo operando scelte che ci facciano comprendere quale Italia vogliamo costruire da oggi, ad esempio, a trenta, cinquant’anni?

Se vogliamo essere davvero responsabili e credibili, non possiamo limitarci ad esaminare le tendenze attuali e ad esercitarci sulle loro possibili evoluzioni. Dovremmo piuttosto fermarci un attimo e misurare il valore della nostra cultura, del nostro pensiero, della nostra etica sullo scenario che vorremmo realmente costruire, sull’idea del futuro che abbiamo in mente e che vorremo realizzare fin da adesso, appunto, operando quelle decisioni e quelle scelte che i cambiamenti strutturali ci impongono di fare. A meno, come si diceva, di non rimanere al livello di una retorica che tutto assolve e tutto copre. E la costruzione di un nuovo ordine non può che poggiare sulle fondamenta di un sistema di princìpi e valori che esprimano al meglio la nostra idea di comunità italiana, e il nostro contributo alla sua coesione ed evoluzione positiva.

Noi non troviamo — questa è la nostra idea — un sistema valoriale ed orientativo migliore di quello iscritto nella Costituzione italiana della quale celebriamo i settanta anni, purché si abbia il coraggio di reinterpretarla e soprattutto di operare scelte che consentano di vivere concretamente i suoi princìpi alla luce dei cambiamenti in atto. A cominciare dal principio fondamentale del lavoro, su cui si basa tutta la struttura del nostro Stato, a quelli della dignità della vita e della solidarietà umana, al valore delle comunità, alla promozione della mobilità sociale, del pluralismo civile e così via. I richiami a questi princìpi non possono più essere un esercizio retorico; non possiamo permettercelo.

 

Con i cambiamenti epocali in atto ci stiamo giocando il futuro del nostro Paese e le scelte che non siamo in grado di fare in casa nostra, qualcun altro sicuramente le farà al posto nostro, ce le imporrà dall’esterno. Leggiamo e rileggiamo, dunque, la nostra Costituzione. Pensiamola e condividiamola, senza retorica e conservatorismi sterili, ma con la responsabilità di proiettarla verso quei nuovi orizzonti che la globalizzazione ci propone. Una rilettura condivisa dei princìpi e valori costituzionali è, infatti, la sola via per guidarci nel processo di discontinuità in atto nella società italiana. Allo stesso tempo è il solo modo per creare le condizioni utili a promuovere una ricucitura tra “Paese” e “Sistema”, cioè tra le due realtà delle quali le suddette discontinuità epocali hanno rotto l’equilibrio, aprendo uno scenario di pericolosa involuzione politico-istituzionale, economica, sociale, culturale.

 

*Presidente dell’Eurispes

 

 

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