La contrattazione collettiva nell
MAGGIO 2018
Attualitą
La contrattazione collettiva nell
di   Alessandro Fortuna

 

Nel corso degli ultimi anni, nell’UE, i sistemi, le strutture e le prassi della contrattazione collettiva hanno subito forti pressioni, colpevoli di essere troppo statici e non sufficientemente flessibili, non permettendo alle imprese un più ampio margine di manovra per adattarsi e rispondere meglio all’accelerazione della concorrenza globale, scostandosi e derogando gli accordi di livello superiore. Un attacco, in sostanza, sferrato alla contrattazione da una governance europea che ha trovato risposta alla crisi solo nell’austerity e in logiche meramente mercantiste. Tra l’altro, gli interventi della Commissione Europea si sono spesso dimostrati in contrasto con i Trattati e i diritti fondamentali del lavoro dell’UE, infatti, in molteplici casi, sono stati applicati senza rispettare accordi raggiunti con le parti sociali o comunque prevalendo su quest’ultimi. Le riforme del mercato del lavoro imposte dall’alto, inoltre, hanno influenzato le tendenze salariali e hanno spinto a un pesante ricorso a forme di lavoro precario che così hanno visto escluso dalla contrattazione collettiva ampi settori del mercato del lavoro.

Di fronte a questo scenario i sindacati hanno messo su le barricate, rilevando il pericolo di spirali verso il basso sia in termini di condizioni di lavoro sia di salari. Cosa che l’aumento della concorrenza sleale e la perdita della solidarietà e della dimensione sociale della contrattazione collettiva stanno causando e possono ancora causare. E tutto questo perché stiamo assistendo, in molti paesi europei, a una tendenza generale verso una “individualizzazione” o “frammentazione” dei processi di contrattazione collettiva che mira a un capovolgimento del sistema delle fonti a vantaggio di quella meno dotata di caratteri di generalità e astrattezza (il contratto di secondo livello) e più a ridosso degli interessi concreti da comporre, tendenzialmente disaggregabili fino al livello individuale, dove il singolo lavoratore si ritrova solo davanti al potere organizzativo del datore di lavoro. Il tutto con buona pace della funzione normativa di regolazione delle relazioni di lavoro ricoperta storicamente dalla contrattazione collettiva, in un progressivo smantellamento del contratto collettivo di categoria o di settore (multi-employer), in favore della funzione propriamente gestionale del contratto aziendale. Una preferenza che rischia di alterare profondamente i rapporti di forza tra attori, soprattutto quando l’attività di negoziazione viene riconosciuta in capo a soggetti che non hanno natura sindacale e quando viene meno la rete di protezione costituita dalla norma inderogabile di matrice legale o convenzionale quale argine rispetto a deroghe peggiorative. Ciò è testimoniato dal fatto che in molti ordinamenti nazionali lo strumento legislativo è intervenuto a modificare l’assetto di regole preesistenti in materia di contrattazione collettiva, non solo autorizzando il contratto aziendale a regolare un ambito più ampio di materie rispetto a quelle sulle quali già era abilitato a intervenire in forza di disposizioni di ordine legale o convenzionale preesistenti bensì stabilendo una preferenza legale per il contratto di livello decentrato rispetto al contratto di categoria/settore di livello nazionale/regionale, così disarticolando il rapporto tra diversi livelli contrattuali, ove esistenti (Es, Fr, It) e minando la funzione di coordinamento negoziale svolta dal contratto nazionale.

Un’altra dimensione dell’intervento pubblico che ha prodotto effetti rilevanti sui sistemi nazionali di contrattazione collettiva è rappresentata dalle misure di liberalizzazione della concorrenza nel settore dei servizi e la considerazione di alcune norme protettive del lavoro, legali o contrattuali, alla stregua di restrizioni all’accesso al mercato dello stato ospitante per i prestatori di servizi. A ciò si aggiungano le politiche di controllo della spesa pubblica e di riduzione del debito pubblico che nei paesi più esposti al rischio di deficit eccessivi hanno imposto tagli unilaterali alle retribuzioni dei dipendenti pubblici e il blocco della contrattazione collettiva (Gr, Pt, Es, It). Gli effetti complessivi indotti da queste iniziative sono stati quasi ovunque il ridimensionamento del ruolo del contratto di settore a vantaggio del contratto aziendale o individuale, o finanche del potere unilaterale del datore di lavoro. La dottrina macroeconomica dell’austerità imposta dall’UE ha contribuito a questo risultato. L’azione degli stati membri, inoltre, non ha più cercato legittimazione tra i suoi principali interlocutori sociali nei processi di riforma bensì, con il via libera assicurato dalle istituzioni europee, hanno operato per via unilaterale. In tale quadro, infatti, il decisionismo dell’attore pubblico, spinto a cercare soluzioni che rispondessero alle attese dei mercati internazionali e alle valutazioni delle agenzie di rating, ha sacrificato un confronto effettivo con gli attori sociali per più celeri modalità informative o consultive, o peggio minacciando interventi unilaterali ove le parti sociali non fossero state in grado di trovare un accordo. La stessa propensione a spostare il baricentro dei sistemi di contrattazione collettiva sugli accordi aziendali contribuisce, tra l’altro, a ridurre il peso degli attori sociali nazionali. La circostanza che a questi si riconosca potestà derogatoria porta a una destrutturazione, nei fatti, dei sistemi coordinati di contrattazione collettiva, con perdita di centralità del contratto settoriale sia nella sua funzione salariale che in quella normativa. Vari fattori hanno influito sulla tendenza al decentramento delle relazioni contrattuali. Viene dapprima in mente la necessità di fronteggiare processi di riorganizzazione interni alle imprese attraverso accordi concessivi volti ad assicurare flessibilità organizzativa e salariale in cambio del mantenimento dei livelli occupazionali contro il rischio della chiusura di impianti e/o delocalizzazioni in altri paesi. All’esplodere della crisi, infatti, gli accordi in deroga hanno costituito, da un lato, uno strumento di salvataggio delle imprese, abilitate a utilizzare tramite accordi aziendali tutti gli strumenti disponibili a comprimere i costi salariali e normativi per salvaguardare non solo la base occupazionale ma le stesse condizioni minime per restare sul mercato; dall’altro, un’opportunità per le imprese di utilizzare tali accordi in via preventiva per fronteggiare il rischio di crisi anche in presenza di mere contrazioni di mercato.

Un’altra componente è stata la pressione esterna e il rischio di default di intere nazioni. Sotto la spinta delle severe condizionalità imposte dalla troika c’è stata una vera e propria rincorsa ad allargare gli spazi della contrattazione in deroga per beneficiare delle stesse condizioni competitive dei paesi limitrofi (migliorare la performance economica e attrarre investimenti esteri). Ciò si è tradotto in una erosione, di fatto e di diritto, della contrattazione centralizzata soprattutto nei suoi contenuti normativi, da un lato ridefiniti al ribasso dalle riforme legislative dei mercati del lavoro, dall’altro sempre suscettibili di deroghe peggiorative da parte di accordi aziendali. Ne è conseguito un significativo arretramento del grado di copertura dei contratti di settore in favore della contrattazione aziendale, assunta, in una traiettoria neo liberista mercatoria, a fonte privilegiata di (auto)regolazione dei rapporti di lavoro. Queste politiche di governance europea non hanno fatto altro poi che aumentare pesantemente la distanza tra i paesi del centro-nord e i paesi dell’Europa mediterranea. Così mentre da una parte sistemi come quello scandinavo hanno fatto fronte alle richieste imprenditoriali di decentramento salariale in un quadro di grandi accordi di partecipazione che - sulla premessa di un interesse condiviso delle parti sociali al mantenimento del modello di relazioni industriali e di welfare da un lato, e alla scelta strategica di puntare sui fattori di qualità e innovazione per competere su scala internazionale, dall’altro - hanno consentito una notevole flessibilità salariale a livello aziendale e finanche individuale. In questa cornice l’intervento legislativo è stato garantista! Difatti si è essenzialmente limitato a rispondere alle questioni che sollevavano la prestazione transnazionale di servizi, confermando la legittimità dell’azione collettiva al fine di ottenere trattamenti equivalenti a quelli nazionali per contrastare il dumping sociale.

Nei paesi scandinavi, come anche in Germania, il Legislatore, fortemente sollecitato dai sindacati, ha saputo quindi tener testa alle pressioni competitive esterne. Tornando proprio alla Germania, questa ha intrapreso, a partire dal 2009, un cammino in controtendenza non solo alle raccomandazioni europee ma anche alla sua storia più recente. Essa, infatti, ha impostato una normativa di supporto alla contrattazione collettiva per contrastare i fenomeni più vistosi di smottamento del sistema negoziale laddove vi erano settori più esposti a rischio di deregulation. Senonché bisogna ricordare che la Germania ha mosso i suoi primi passi, dopo la riunificazione, proprio da un sistema di decentramento contrattuale realizzato attraverso l’utilizzo massiccio di clausole di uscita o di apertura, che consentivano la temporanea disapplicazione delle condizioni previste dal contratto di settore in situazioni di difficoltà economica e occupazionale per le imprese, soprattutto della ex Germania orientale. Il fenomeno ha portato nell’arco di un quindicennio a una forte caduta della copertura dei contratti di settore e alla diffusione di accordi aziendali a carattere prevalentemente concessivo spesso negoziati con i comitati aziendali. Questa tendenza ha mostrato nel tempo le sue potenzialità di progressiva erosione di tenuta dello stesso modello sociale del paese stesso. Ciò nonostante, proprio la funzione di regolazione salariale del contratto collettivo, negli anni del dopo crisi, ha costituito il bersaglio principale delle raccomandazioni europee indirizzate agli stati membri, in un ossessivo richiamo ai paesi con regolazione salariale centralizzata ad intervenire affinché i salari evolvessero “in linea con la produttività” rimettendone la determinazione a livello di impresa. Attorno all’asse costituito dal decentramento della contrattazione collettiva e a politiche di moderazione salariale ha ruotato la strategia di attacco alla funzione salariale del contratto collettivo nazionale attraverso una serie di indicazioni puntuali: la riduzione o il congelamento dei salari minimi al fine di calmierare l’aumento dei salari medi; l’eliminazione o sospensione dei meccanismi di indicizzazione; la determinazione della durata dei contratti collettivi; l’abbreviazione del periodo di ultrattività del contratto collettivo; la revisione in senso restrittivo dei meccanismi di estensione; il blocco della contrattazione nel pubblico impiego e i tagli alle retribuzioni dei dipendenti pubblici.

L’attacco ai sistemi di contrattazione collettiva centralizzata ha riguardato innanzitutto i paesi con gravi squilibri macroeconomici, non lasciando quasi nessun margine di discrezionalità alla potestà normativa degli stessi, ma analoghe indicazioni sono state rivolte anche a tutti gli altri paesi. Nel primo gruppo di paesi interventi autoritativi sotto il segno dell’emergenza hanno bruscamente posto fine alla contrattazione settoriale e intersettoriale (Irlanda, Grecia, Portogallo, Romania), lasciando senza copertura contrattuale ampi strati di lavoratori. Non mancano però anche sostanziali riforme al ribasso. Particolarmente radicale rispetto al ruolo del contratto collettivo settoriale è, ad esempio, quella realizzata in Spagna nel 2012 che è intervenuta in via unilaterale sulla struttura della contrattazione collettiva. L’attacco alla contrattazione settoriale è stato realizzato, come da dettami europei, riconoscendo priorità, imperativa ed inderogabile, all’accordo aziendale rispetto al contratto di settore su materie fondamentali per la determinazione delle condizioni di lavoro, come la retribuzione, l’orario di lavoro, l’adattamento dei sistemi di classificazione, la conciliazione tra vita personale e professionale. Un ulteriore elemento di depotenziamento del contratto di settore della riforma è stata la facoltà attribuita al contratto aziendale di disapplicare il contratto collettivo statutario a efficacia generale in presenza di generiche ragioni economiche, tecniche, organizzative o produttive, al fine di favorire l’adattamento del contenuto del contratto a circostanze sopravvenute che riguardano l’impresa. La disapplicazione del contratto settoriale veniva infatti consentita non solo per situazioni di grave crisi aziendale, bensì anche in presenza di mere difficoltà transitorie (perdite attuali o previste) attestate dalla diminuzione persistente dei livelli di vendita per due trimestri consecutivi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La nuova disciplina legislativa, pertanto, faceva pesare sui sindacati la spada di Damocle della possibilità sempre incombente di disapplicazione del contratto collettivo, del divieto di apportare deroghe al regime di preferenza per l’accordo aziendale, di pseudo-negoziazioni nell’impresa con soggetti diversi dai sindacati e finanche di arbitrato vincolante in caso di mancato accordo, indebolendo la capacità di pressione e di resistenza dei sindacati nell’attività di contrattazione collettiva. A ciò si sono aggiunti i limiti introdotti al regime di ultrattività del contratto collettivo, che sottopongono alla fatica di Sisifo di rinegoziare i contratti in condizioni di continua pressione per evitarne la decadenza e gli effetti di mancata copertura contrattuale per interi settori produttivi.

Tirando le somme, la disciplina contrattuale, priva del supporto legale costituito da norme a carattere inderogabile, e anzi minacciata nei suoi esiti da intese modificative a livello aziendale che sospendono l’efficacia vincolante del contratto collettivo, si trova, in sostanza, costretta a un continuo lavoro di presidio degli spazi conquistati senza avere possibilità di svilupparsi in base al principio di libertà sindacale. Si tratta di un evidente progetto di depotenziamento della vocazione di carattere generale del contratto collettivo, in luogo di quella decentrata, più ritagliata sulle concrete situazioni aziendali e sulle condizioni di mercato. Il senso della dottrina dell’austerità, fatta propria dalle istituzioni europee, converge verso una svalutazione competitiva e una corsa al ribasso come via per conquistare margini di competitività. Il tutto guidato da un’idea del salario come costo piuttosto che fattore di stimolo alla domanda interna, restando ovviamente sullo sfondo la sua dimensione valoriale di garanzia di vita dignitosa e di elemento fondamentale di integrazione sociale, su cui si sono poggiate le moderne democrazie e quel che resta del modello sociale europeo. Un esempio su tutti? La Commissione ha invitato la Svezia ad ampliare il ventaglio salariale tra i livelli retributivi più elevati e quelli più bassi, oggi troppo compresso. Come quasi a voler promuovere le disuguaglianze. A queste ottiche neoliberiste è necessario controbattere con fermezza a livello nazionale ed europeo, non perdendo la bussola di quel modello sociale che ha ridato benessere ai cittadini europei a metà del secolo scorso. Uno sguardo allora innanzitutto va rivolto in casa nostra. Nel pubblico impiego è stato rovesciato con l’accordo del 30 novembre 2016 un modello fortemente verticistico e amministrativistico che ha bloccato la contrattazione per quasi dieci anni e di conseguenza gli adeguamenti salariali.

L’ha fatto il sindacato confederale riportando l’asticella del rapporto tra legge e contratto verso quest’ultimo, restituendogli dignità e ruolo, e ribadendo l’importanza di un doppio livello di contrattazione nel quale il livello nazionale sia la fonte primaria del rapporto di lavoro, pur lasciando spazio alla contrattazione decentrata per regolare le specificità delle singole realtà lavorative. Si è calato il sipario sul blocco degli incrementi salariali dei pubblici e risollevato finalmente il potere di acquisto di questi lavoratori. Ma non solo! Recentemente l’accordo interconfederale di marzo con Confindustria sul nuovo modello contrattuale si è posto proprio l’intento di rafforzare la funzione sociale della contrattazione collettiva, specificando come i CCNL siano in grado di ricercare le soluzioni più adatte a favorire lo sviluppo sociale, economico, occupazionale e reddituale dei singoli settori. Le parti, in quella sede, hanno precisato come corrette e vive relazioni sindacali costituiscano un valore aggiunto per un contributo fattivo alla crescita del Paese, alla diminuzione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, all’aumento dell’occupazione e al miglioramento della tanto ambita competitività. A tal fine hanno definito un modello su due livelli di contrattazione collettiva con compiti e funzioni distinte che determinino condizioni per migliorare i salari reali e la produttività, precisando però il compito assegnato al CCNL di regolazione dei rapporti di lavoro e di garante dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori del settore. Nello stesso senso si è mossa anche la Confederazione Europea dei Sindacati (ETUC) che, nella sua azione programmatica 2015/2019, ha definito i salari quali motore della crescita economica e ha affermato: “Il rafforzamento della domanda interna costituisce un fattore chiave per la ripresa dell’economia dell’UE, oltreché per il sostegno all’innovazione e alla produttività delle imprese e dei vari settori”, ammonendo: “la competitività europea deve basarsi su prodotti, servizi e posti di lavoro di qualità piuttosto che sulla riduzione del costo del lavoro. […] Relazioni industriali più solide, solide istituzioni della contrattazione collettiva e salari minimi garantiti per legge, laddove le organizzazioni sindacali ne facciano espressa richiesta, costituiscono strumenti fondamentali a sostegno della domanda interna e a garanzia di salari equi per tutti. Un salario equo costituisce la migliore modalità per lottare contro le disuguaglianze e garantire una distribuzione equa. Su questo punto l’autonomia delle parti sociali di contrattare e di stabilire i salari collettivamente costituisce un elemento chiave”. E ancora nel documento: “È giunto il momento di invertire la spirale al ribasso dei salari”. A tal fine la CES si è impegnata “a sostenere incrementi salariali in Europa e a innescare la ripresa del potere d’acquisto dei lavoratori attraverso una più solida politica comune sindacale in materia salariale e tramite un coordinamento rafforzato e un maggiore sostegno alla contrattazione collettiva”. La CES si è proposta di farlo con un nuovo metodo di coordinamento della contrattazione collettiva e dei salari nel quadro della governance economica dell’UE, il c.d. “Collective Bargaining Toolkit”.

Questo strumento mira ad affrontare e prevenire, attraverso negoziati e discussioni specifiche con la Commissione Europea e con i Comitati del Consiglio dell’UE, gli attacchi avverso corrette relazioni industriali e il potere di acquisto dei salari. Con il lancio del toolkit sulla contrattazione collettiva la Ces intende, poi, migliorare il proprio metodo di coordinamento e di raccolta dei contributi da parte degli affiliati, grazie al loro coinvolgimento. Si tratta di una chiara risposta a quell’idea, fin troppo avallata dalla stessa Corte di Giustizia, che ha portato a far prevalere il diritto alla libera circolazione dei servizi e alla libertà di stabilimento delle aziende sui diritti sociali, pur se parimenti tutelati dai Trattati. Si è legittimato, nei fatti, il dumping sociale, permettendo alla circolazione dei capitali di prevaricare anche sul diritto del lavoro dei singoli Stati membri. Tutto ciò ha scatenato una concorrenza a ribasso che ha fatto smarrire la natura stessa dell’Unione - la solidarietà al di là dei confini nazionali - e di certo non ha portato vantaggi in termini di tutele e garanzie occupazionali dei cittadini europei. Per questi motivi le priorità che il sindacato europeo vuole porsi e si sta ponendo con la sua azione sono la conservazione, in primo luogo, di tutti i diritti della contrattazione collettiva, ivi compreso il diritto di sciopero, e di conseguenza la lotta al decentramento forzato e incontrollato della contrattazione collettiva. In questo contesto, la CES continuerà ad insistere sulla necessità di rispettare l’autonomia della contrattazione collettiva, ribadendo che i salari sono una competenza nazionale e che la contrattazione collettiva è il principale strumento di incremento dei salari e di lotta contro il dumping sociale. La CES, pertanto, per contrastare questo vento neoliberista, promuoverà il rafforzamento della contrattazione collettiva e degli incrementi salariali negli Stati membri attraverso una stretta cooperazione con i suoi affiliati che sostenga lo sviluppo delle istituzioni, della copertura e del coordinamento della contrattazione collettiva, della sindacalizzazione e del potere di contrattazione e, soprattutto, della partecipazione del sindacato alla governance economica nei vari livelli.

In conclusione, ancora una volta è evidente quanto mai sia necessario rilanciare il progetto di una Unione Europea politica e sociale, forse proprio ripartendo da una Costituzione, la cui portata garantisca con forza i valori sociali e democratici che la Carta di Nizza ha messo nero su bianco ma che sono stati inibiti dalla finanza globale. Il cammino d’integrazione europea potrà solo fare passi indietro se l’Unione si “accontenterà” di essere una mera Comunità monetaria e di libero mercato e di certo sarà sempre mal vista o non compresa nelle sue potenzialità di pace, solidarietà e benessere che nel dopo guerra l’avevano portata a nascere. Un rilancio che passa nel rispetto dei diritti dei lavoratori, nella protezione del loro benessere, nella loro emancipazione e non mortificazione in un mercato del lavoro globale che sta smarrendo tutte le conquiste del dopo guerra. Un rilancio che passa per l’idea di comunità e quindi di solidarietà e non per il mantra della competitività a tutti i costi pur che vi sia un profitto, come in una sorta di selezione naturale dove il più forte ha la meglio in una concorrenza sempre più individualistica che crea disuguaglianze ed emarginazione. Ecco perché in questi anni sono stati messi nel mirino della troika non solo il garantismo delle contrattazioni collettive ma anche i sindacati confederali stessi. I diritti che tutelano e promuovono costituiscono, infatti, un impedimento e soprattutto un costo per un mercato che, sempre più violento e sempre più insensibile ai bisogni delle persone, si trova a sgomitare in una cornice di crisi economica globale. Eppure fino a quando i salari, come già ricordato, saranno considerati una componente di spesa e non di crescita - soprattutto se garantiti e tutelati con la contrattazione - della domanda interna di un Paese, difficilmente, come ovvio, sarà pronosticabile una forte ripresa dei consumi.

 

 

Potrebbe anche interessarti: