Immigrazione  - Guglielmo Loy
Rifugiati sì, migranti economici no?
Si può far finta che basti cacciare gli «intrusi» per ristabilire l'equilibrio?
barconi-immigrati-agosto2017.jpg
28/07/2017  | Immigrazione.  

 

IL BLOG http://www.huffingtonpost.it/

 

Maurizio Caserta Economista, Presidente dell’Associazione Mediterraneo, Sicilia, Europa

Aldo Premoli Giornalista e scrittore. Responsabile comunicazione Centro Studi Mediterraneo Sicilia Europa

 

26/07/2017 Ma sì, lo dicono in tanti e quindi sarà pur vero: una cosa è accogliere un rifugiato siriano. Ben diverso è sbarcare i naufraghi da barconi colmi di giovani africani in cerca di fortuna: tali sono i migranti economici.

 

La superstar del momento, Emanuel Macron, ha idee chiarissime a proposito: chiude i porti francesi che si affacciano sul Mediterraneo e poi convocava un vertice tra le opposte fazioni libiche ignorando i partner europei. Bel colpo: c'è un sacco di gas nel sottosuolo libico e la Total non vede l'ora di cominciare le perforazioni. Poi c'è l'ungherese Viktor Orban che da leader della riottosa coalizione di Visegrad impartisce lezioni da cattedre alte come sgabelli dell'asilo. E infine ecco gli opportunisti dell'ultima ora: il ventinovenne Sebastian Kurz Ministro degli Affari esteri austriaco a caccia di voti, lancia proclami incendiari minacciando di blindare il Brennero: immediatamente smentito dal suo Cancelliere.

 

Molto più composto il nostro Marco Minniti, instancabilmente impegnato a concretizzare l'ormai celebre "aiutiamoli a casa loro". Di cui però rivendicano la primogenitura anche le Meloni e i Salvini: questi ultimi senza andare troppo per il sottile nei distinguo tra categorie.

 

Senza dubbio c'è differenza tra un profugo siriano che fugge dalla infinita distruzione che ci viene proposta ogni giorno da ogni telegiornale. Una bella differenza con un migrante economico che arriva sul molo di levante di Catania in cerca di fortuna. Li vedi scendere barcollanti dalle navi di soccorso. Poi qualcuno di questi giovanotti, per lo più africani, qualche settimana dopo li ritrovi accovacciati ai bordi del giardino di Villa Bellini nel centro storico del capoluogo etneo, aggrappati a un cellulare recuperato chissà dove. Cercano di carpire una connessione wi-fi dalla centralissima pasticceria Savia. Provano a chiamare qualcuno in grado di comunicare con le famiglie di origine, che aspettano fameliche di recuperare il denaro consegnato ai trafficanti per il loro pericolosissimo viaggio. Quello e magari qualche cosa d'altro per mantenere fratelli e sorelle.

 

Quindi "aiutiamoli a casa loro"? Va bene. Ma cosa sta succedendo "a casa loro"?

 

Una zona che avrebbe un enorme bisogno di aiuti è il Corno d'Africa. Oggi 6 milioni di persone sono a rischio di fame in Somalia e altri 1,4 milioni lo sono in Sud Sudan, Nigeria e Yemen. È la più grave emergenza dopo la Seconda guerra mondiale, secondo le Nazioni Unite. La Somalia dipende dalle esportazioni di bestiame per il 70% del suo reddito. Non piove da 3 anni consecutivi, il che significa che 12 milioni di capre, pecore e cammelli sono morti, i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati e le famiglie devono decidere se resistere sino allo stremo di fianco al loro bestiame, nella speranza che le piogge arrivino e siano forti oppure trasformarsi in rifugiati nel proprio paese, cercando aiuto in qualsiasi campo polveroso di rifugiati metta loro a disposizione uno spazio.

 

Le carestie che hanno flagellato il mondo negli ultimi '50 anni hanno infierito quasi esclusivamente sul Continente africano. Le temperature medie hanno cominciato a crescere nel sud del continente, di 1 Celsius in Kenya e di 1,3 Celsius in Etiopia tra il 1960 e il 2006. La conseguente siccità si innesca con intervalli di 1 o 2 anni contro i precedenti periodi di 6-8 anni.

 

Questa trasformazione climatica non è una prerogativa del Corno d'Africa. È perfettamente evidente anche in Africa occidentale dove, quando è combinata con guerre e guerricciole, crescita dei prezzi del cibo per l'introduzione di monoculture da parte delle multinazionali occidentali e (sempre più intensamente) cinesi e marginalizzazione politica ed economica, danno come risultato carestie e fame anche in paesi ricchi come la Nigeria.

 

A ciò si aggiunga la scandalosa presenza di personaggi come Josè Eduardo dos Santos, il presidente di un paese come l'Angola che galleggia sul petrolio e dove la fine della guerra civile ha avviato la ricostruzione. Milioni di dollari che finiscono esclusivamente nelle tasche di aziende straniere, qualche businessman locale e di Isabel, la figlia di Josè Eduardo: il magazine Forbes la colloca in testa alla lista delle miliardarie del Continente. Un caso isolato? Per niente. Nelle acque di fronte al Senegal incrociano navi cinesi che con sovrano disprezzo di ogni regolamentazione, rastrellano qualsiasi possibile fonte alimentare proveniente dal mare. Altre nazioni dalla Thailandia alla Corea del Sud all'Argentina si sono opposte con veemenza a questo sistema di pesca devastante operato dai cinesi in tutti i mari del globo. Per il Senegal e i suoi 14 milioni di abitanti il pescato non è un lusso, ma un elemento base della dieta necessaria alla propria sopravvivenza. Proteste del governo in carica? Nessuna.

 

Chi affronta fame e siccità e corruzione, tuttavia, non si trasforma immediatamente in vittima passiva in attesa di una qualche carità per essere salvato. I nuclei familiari, in prima fila le donne, fanno sforzi sovrumani prima di essere costretti a chiedere aiuto: pasti ridotti, qualsiasi genere di traffico, beni venduti, bambini dispersi, miglia e miglia attraversate a piedi o con ogni genere di mezzo a disposizione.

 

Ma non sottilizziamo. Secondo i soloni di casa nostra bisogna rimandarli tutti a casa. Quelli che sono già qui il più presto possibile. Gli altri vanno bloccati nel sabbione libico. Sono migranti economici: mica profughi!

 

Il sentimento che sembra prendere corpo non è molto diverso da quello che qualche mese fa ha portato gli italiani a sostenere la legittimità dell'uso delle armi quando qualcuno si introduce in casa propria. È una questione di diritti di proprietà. La proprietà è inviolabile. Il territorio è inviolabile. Il mio paese è inviolabile. Dal mio territorio posso cacciare chiunque si introduca illegittimamente. Ciò che accade fuori non è di mia competenza. Questo è il sentimento prevalente. I siciliani hanno un bel detto: "fora do me pisolu, futti macari cu me soru" (fuori da casa mia, puoi pure andare a letto con mia sorella).

 

Il problema è che, sebbene questo sentimento sia diffuso e forse presente in ciascuno di noi, non si costruiscono così le società. La tutela dei diritti di proprietà dei componenti di una comunità va resa coerente con una analoga tutela dei componenti di un'altra comunità. Se si ignora questa esigenza si rischia di generare conflitti che possono risolversi in maniera drammatica. Questo è quello che succede. Si può ancora pensare che fuori da casa propria, tutto è lecito e ammissibile? In verità basta un po' di intelligenza per capire che quel conflitto, in un contesto globalizzato, prima o poi si riversa negativamente all'interno della "casa".

 

Si può far finta che basti cacciare gli "intrusi" per ristabilire l'equilibrio. Quella stessa voce andrebbe invece utilizzata per sollecitare le autorità globali, a partire dall'Unione Europea, ad elaborare rapidamente misure destinate a regolare tutti i conflitti che la modernità ha creato. Semmai vanno cacciati i leader che non sono all'altezza del compito.