Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 05/08/2016
Qualcosa si muove
Qualcosa si muove
05/08/2016  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Nella dinamica politica e nel dibattito economico, finalmente, emergono e stanno diventando opinione comune ripensamenti sulla politica di austerity che tanti guasti ha prodotto.

 

Ne parlavamo già nel precedente numero della rivista. Voglio riprendere la questione, anche perché, in passato, chi come me contestava tale politica era considerato un conservatore o un disfattista.

 

I soloni della finanziarizzazione e della globalizzazione, enfatizzavano la necessità di fare sacrifici per evitare il “disastro”.

 

Sulla base di tale dogma economico, tutto veniva giustificato, anche le aberrazioni come ridurre diritti o aumentare povertà ed emarginazione. Addirittura si arrivava ad imporre governi tecnici, cambiando i governi eletti dai cittadini per far prevalere l’esigenza ineludibile - per loro - della economia finanziaria, in modo da aumentare sempre più i loro profitti. Questa politica, tuttavia, era spacciata quale unico modo per creare ricchezza per tutti e per realizzare sviluppo duraturo.

 

Pertanto, tutto doveva esser funzionale alle logiche del “neo liberismo” compresa la politica. Infatti, per evitare opposizioni, si enfatizzava il principio della necessità di governance, osannata quale efficiente partecipazione democratica.

 

La governance, invece, è stata utilizzata e solennemente celebrata per delegittimare e soffocare il conflitto sociale, ma, soprattutto, perché priva di quegli elementi caotici tipici degli esercizi di democrazia, non riassorbiti nella rappresentanza.

 

Tuttavia le caratteristiche della governance, termine alquanto variabile nei suoi significati, si sono rivelate, a seguito della crisi in atto, ben diverse dalle promesse.

 

Ed è un fenomeno che riguarda tutto il mondo, compreso l’Europa.

 

Infatti tutta l’Europa si è dotata di una governance di natura essenzialmente finanziaria, il cui interlocutore principale è la rendita e la cui missione è conservare e riprodurre gli attuali rapporti di forza tra i soggetti sociali così come tra gli Stati.

 

Questa governance ha sospinto gli Stati membri a rendersi efficaci articolazioni degli imperativi liberisti, eliminando tutto ciò che li poteva ostacolare.

 

La governante, insomma, malleva l’assunzione di vesti dirigistiche. A titolo di esempio si evidenzia la passata richiesta tedesca di istituire un supercommissario all’euro con il potere di bocciare o promuovere i bilanci nazionali. In tal modo, la governance si fa “governo”, non certo governo politico di cui si invoca retoricamente la necessità di una legittimazione democratica, ma “governo tecnico”, che altro non è se non il governo delle oligarchie.

 

Questa centralizzazione tecnocratica del potere, destinata a sfociare in un dispotismo tutt’altro che illuminato, ha usato, come si diceva, il terrorismo finanziario per giustificare il suo insediamento non elettivo al governo e, di fatto, comprime ogni forma di democrazia e partecipazione politica.

 

Anche in Italia il fenomeno non è stato da meno.

 

Innanzitutto si è rivelata falsa l’esaltazione della capacità della governance di aderire, in contrapposizione alla natura centralistica dello Stato, alla complessità delle società contemporanee, conferendo poteri sempre maggiori a regioni, province, comuni, municipi con una loro capillare articolazione sul territorio.

 

Poi, però, alla fine sono state abolite le province, è stata ridimensionata la capacità di legificazione delle regioni, sono stati accorpati i municipi e il tutto viene sottoposto a un rigido controllo non dal basso, ma dall’alto.

 

Per di più questo fenomeno di accentramento si estende oltre le sedi politico-istituzionali perché si abolisce, si accorpa e si concentra tutto quanto è possibile e, dove non è possibile accorpare, si istituiscono agenzie centralistiche di valutazione e di controllo attraverso le quali una burocrazia tecnocratica, spesso fuori dal mondo, detta le regole che costano posti di lavoro, riduzione dei diritti e dei servizi e spesso regressione culturale.

 

Insomma, il liberismo finanziario, secondo la prassi dei regimi ex comunisti, ha attuato la vecchia idea di pianificazione, ma questa volta al servizio dei “mercati”.

 

Sempre in nome della governance, sono state aperte agli imprenditori le porte del governo delle università, ridisegnate a loro uso e consumo per favorire la connessione tra pubblico e privato e, al fine di risolverne l’antagonismo, favorire una straordinaria cooperazione a favore dell’innovazione e dello sviluppo; inoltre si è puntato sulla sanità privata ed è stata sovvenzionata la scuola non statale.

 

Insomma è stato promosso - in nome di una inesistente concorrenza - l’interesse privato nella gestione dei servizi pubblici, dai trasporti allo smaltimento dei rifiuti, alla gestione delle reti idriche.

 

I risultati di questa messa in opera della governance sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dallo stato in cui versano la scuola, la ricerca e l’università, all’erosione di redditi e dei diritti sociali e politici per finire col sistema sanitario nazionale, delle cui prestazioni finora erogate le politiche di rigore prevedevano – come ebbe a dire Monti poco tempo prima di dimettersi – la non sostenibilità. Oltretutto è stato aggravato il tutto con politiche di continui tagli di risorse e con normative dirigiste, che si sono abbattute sui diversi servizi pubblici, della cosiddetta “spesa pubblica”.

 

Si può facilmente dedurre che la “governance”, è stata e continua ad essere solo un processo politico volto a conservare i rapporti di forze e le gerarchie sociali esistenti.

 

Essa, a volte, ha fatto anche da alibi alla corruzione, come strumento di governo, infatti, nelle istituzioni decentrate troviamo la soddisfazione degli appetiti delle clientele e le paradossali ruberie dei rappresentanti politici, l’intreccio sempre più spregiudicato di politica e affari, i sistematici rapporti di scambio con le reti di potere confessionali e non.

 

Rappresenta anche il modo con il quale il potere ha cercato di liberarsi del dispendioso sottobosco incaricato di comprare, tra promesse e favori, il consenso popolare.

 

Un esempio emblematico di questa teorizzazione sta avvenendo con le dichiarazioni di molti esponenti politici che dicono che se dovesse vincere il No al referendum costituzionale si aprirebbe una fase difficile che farebbe venire meno proprio la governabilità per mancanza di ricambi.

 

Ebbene come sempre di fronte ad un vuoto vi è sempre qualche altra cosa che lo riempie Infatti, un esempio di un probabile sostituzione di questo vuoto è avvenuto, nelle recenti elezioni, dove in alcune regioni, si è imposta, un’altra forma di democrazia, quella diretta, sostenuta in particolare dai 5 stelle, che è un fenomeno da non sottovalutare.

 

La democrazia diretta viene applicata in Svizzera, dove il popolo può bloccare, tramite referendum, una legge o una modifica della costituzione decise dal parlamento o può imporre un cambiamento legislativo o costituzionale tramite un’iniziativa popolare. Il voto viene espresso al seggio o per corrispondenza e, addirittura nei cantoni di Appenzello Interno e Glarona la votazione avviene per alzata di mano, procedura detta Landsgemeinde. In passato le landsgemeinden si tenevano anche in altri cantoni.

 

Norberto Bobbio avanzò delle riserve sulla vecchia idea del “potere a tutti”.

 

Egli sostenne: “La democrazia diretta è sempre stata una illusione. Lo è a maggior ragione in una civiltà altamente tecnicizzata come la nostra, in cui ciò che l’uomo produce è l’effetto di una organizzazione mastodontica, sempre più complicata, difficile da dominare, che riesce a funzionare soltanto se affidata a pochi esperti. Si immagini una fabbrica di 100.000 operai dove tutti siano chiamati a discutere i metodi, i tempi, il processo di produzione. Dopo dieci giorni sarebbe chiusa “.

 

Certamente definire la democrazia diretta un’illusione non può portare a sottovalutare o disconoscere l’esistenza di esigenze reali e diffuse di una nuova strutturazione del potere, che nascono dalla constatazione che oggi si è realizzato il passaggio del potere nelle mani di pochi, oltretutto non legittimati da alcuna procedura democratica, e che oggi lo detengono in nome di una pretesa superiorità del principio tecnocratico.

 

La democrazia diretta al contrario affida nelle mani dei molti che oggi ne sono privi.

 

Noi riteniamo che il progresso della nostra civiltà, altamente tecnicizzata, deve permettere all’umanità non solo il godimento delle sue conquiste economiche, che si vanno concentrando velocemente nelle mani di pochi ricchi, ma soprattutto non deve impedire che anche le conquiste politiche esociali progrediscano come quelle tecniche ed economiche.

 

Il problema del potere è reale. La soluzione vede l’élite dei pochi esperti, che dirigono la fabbrica immaginata dal prof. Bobbio, impadronirsi anche del potere formalmente politico, creando, ad esempio, una repubblica presidenziale in cui la democrazia è ridotta alla funzione puramente formale.

 

I giornali della nostra classe dirigente sembrano chiedere questa soluzione, attuata in certo qual modo dalla FIAT, fabbrica molto simile a quella immaginata dal prof. Bobbio.

 

In alternativa i 100.000 operai e impiegati della fabbrica immaginata dal prof. Bobbio conquistano effettivamente il diritto di discutere i metodi, i tempi, il processo di produzione e, per esercitare questo diritto, creano i loro comitati liberamente eletti, fino al consiglio di gestione, che insieme agli esperti dirige la fabbrica.

 

Ovviamente il controllo dal basso non trasforma gli operai in ingegneri, ma serve a salvaguardare i diritti e i doveri di uomo libero e di cittadino nel luogo del suo lavoro.

 

Tutto ciò pone anche un rinnovamento profondo dell’azione del movimento sindacale.

 

Nella moderna società, i monopoli hanno la possibilità di far pagare a tutti, gli aumenti sui salari e sugli stipendi, quindi l’azione sindacale deve restituire ai lavoratori il potere di discutere non soltanto i salari, ma anche i programmi di produzione, gli investimenti, i prezzi, permettendo loro di attuare un controllo democratico anche sulle influenze economiche e politiche della loro industria sulla vita nazionale.

 

Appare evidente, quindi, la necessita di modificare l’attuale azione del sindacato, con un rinnovamento che deve coinvolgere la loro struttura, i rituali e la strategia al di fuori della fabbrica. Il controllo dal basso può essere esercitato solo da organismi democratici eletti da tutti i lavoratori e funzionanti all’interno della fabbrica.

 

È una sfida, che almeno per quest’ultima parte, è stata colta con il protocollo sull’elezione delle Rsu in tutti i luoghi di lavoro, e per la verità se non decolla ancora è colpa degli imprenditori che stanno allungato i tempi.

 

Ma, bisogna, anche affrontare le altre questioni e questa discussione si deve avviare al più presto, comprese le regole costituzionali che sono materia che riguardano tutti e dalle quali, a parere mio, il sindacato non può restare fuori.