Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 09/05/2016
Ridurre il debito e favorire la ripresa economica
Ridurre il debito e favorire la ripresa economica
09/05/2016  | Sindacato.  

 

di Antonio Foccillo

 

Il Presidente della Banca Centrale tedesca, Jens Weidmann, nel suo tour italiano, torna ad attaccare l’Italia per l’eccessivo debito, sostenendo che l’alto debito in alcuni Paesi: “può indurre a esercitare pressione sulla politica monetaria, affinchè essa ridimensioni il suo mandato di garanzia della stabilità dei paesi a favore di una politica monetaria orientata a garantire la solvibilità degli Stati (1)”.

 

Queste considerazioni ci portano a fare alcune valutazioni sulla situazione del nostro debito.

 

In Italia sembra sia impossibile far calare il debito pubblico senza strangolare l’economia e promuovere la competitività senza tagliare drasticamente nel sociale, nell’istruzione e nella ricerca. Per ridurre sia il debito che l’indebitamento, i Governi italiani hanno fatto ricorso ad operazioni di finanza straordinaria e la cartolarizzazione dei crediti, insieme alle privatizzazioni, hanno concorso ad una prima diminuzione del debito per un importo pari all’1.2% del PIL.

 

Alla luce di quanto finora evidenziato, possiamo dire che, nel tentativo di ridurre il debito pubblico, la politica fiscale italiana è stata asistematica ed altalenante nei suoi obiettivi. Inoltre rimane opinione diffusa che una seria e convinta politica di recupero dell’evasione fiscale, accompagnata dalla riduzione delle aliquote nominali, avrebbe portato ad un incremento delle entrate erariali e alla contemporanea diminuzione dell’aliquota media per tutti i cittadini.

 

è a tutti evidente che il debito pubblico elevato impedisce di avviare la ripresa, poiché ogni anno decine di miliardi di euro se ne vanno per pagare gli interessi ai detentori, in buona parte esteri, delle nostre obbligazioni statali e quindi una buona parte della ricchezza nazionale viene trasferita all’estero e non può essere investita per lo sviluppo delle imprese e per il mondo del lavoro in generale.

 

Esistono paesi con debiti pubblici immensi come il Giappone che va ben oltre il 200% sul PIL e gli USA del cui debito, di 15mila 340 miliardi di dollari. In Europa, Parigi e Berlino, da un lato, hanno modificato i loro bilanci mentre, da un altro, hanno obbligano la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Grecia ad operazioni puramente recessive e antisociali.

 

I debiti pubblici di Francia e Germania sono ufficialmente sotto il 100% del Pil, in realtà, secondo l’Agenzia dello sviluppo per la riunificazione ed altre istituzioni, in Germania il debito pubblico sta verso il 115% del Pil; quello francese è invece calcolato in un perimetro di amministrazione pubblica ampliamente ridotto, mentre il calcolo giusto lo porterebbe oltre il 120% del Pil. Il calcolo del debito italiano è esatto, al netto dei 60-70 miliardi che lo Stato deve ai suoi fornitori.

 

Ciò significa che le modifiche di Francia e Germania rappresentano il principale pericolo di una futura destabilizzazione dell’Eurozona, perché mentre per l’Italia l’entità del problema è trasparente, per Francia e Germania vi è l’azione di “occultamento” attuata dai due governi, resa possibile dal loro maggiore potere geo-politico e di influenza nelle istituzioni internazionali. Da notare, che i debiti pubblici di Francia e Gran Bretagna, in valore assoluto, venti anni fa erano poco più della meta di quello italiano e quello tedesco era inferiore. Ora i debiti dei quattro maggiori Paesi europei sono sostanzialmente simili tra loro, con quello tedesco superiore agli altri. Gli svantaggiosi tassi pagati dal nostro Paese vengono generalmente giustificati da un deficit di credibilità dell’Italia, ma nessuno si è preoccupato di evidenziare che il differenziale sugli interessi a nostro sfavore è anche e soprattutto una conseguenza della rigida misurazione statistica del debito pubblico in rapporto al Pil, che i nostri politici hanno subito. L’Italia, ha un patrimonio delle famiglie molto elevato che, anche solo limitatamente alla parte finanziaria, equivale a circa il 175% del Pil (in Germania è appena del 126%) quindi il rapporto tra debito pubblico e ricchezza finanziaria netta privata fornisce un’idea più precisa sia della dimensione del nostro debito pubblico sia del suo rapporto con il Pil. Una più precisa valutazione del rapporto debito/ricchezza cambierebbe parecchio la prospettiva di assegnazione dei rating dei debiti sovrani ed in particolare il rating italiano, ammesso che le agenzie di rating siano obiettive ed indipendenti. A partire dal 1994 lo Stato italiano ha venduto pressoché di tutto, incassando cifre considerevoli. Sono state vendute (per intero o in parte) aziende pubbliche come Telecom o le banche ex Iri, con un incasso di 140 miliardi di euro; sono stati piazzati immobili per 20 miliardi e persino crediti nei confronti di soggetti terzi per 26; è stato alienato addirittura un pezzetto dell’etere, sotto forma delle frequenze Umts, con un irripetibile incasso di 13,8 miliardi.

 

Nonostante queste cessioni il debito ha continuato a crescere fino agli attuali livelli. Questo perché la spesa pubblica non ha mai smesso di correre, vanificando i benefici; ma anche perché all’Italia è venuta meno una fetta della propria credibilità e si è puntato tutto, in particolare in passato, su entrate straordinarie come i condoni fiscali ed edilizi.

 

Infine non abbiamo dimenticato le prospettive di vendere anche beni pubblici come l’acqua, anche se in un recente referendum la stragrande maggioranza dei cittadini italiani si sia espressa sul mantenimento di alcune prerogative in capo ad aziende pubbliche: questo è il senso inequivocabile del referendum sull’acqua.

 

Riproporre l’azzeramento del deficit e la riduzione del Debito negli anni continuando la linea “lacrime e sangue” è sbagliato. Azzerare il deficit significa ridurre pian piano il debito, in anni ed anni di sacrifici e di forti “attivi primari”, con lo stato che spende meno di quanto incassa e con la popolazione fa forti sacrifici, ricevendo servizi inferiori alle tasse pagate. Questa strada sarebbe seria se non fosse realizzata con una montagna di tasse – molte al livello locale - (che causano anche recessione ed involuzione economica) invece che riducendo massivamente la spesa improduttiva, gli enormi sprechi, la dilagante corruzione e limitando seriamente i costi della politica che ormai appaiono insostenibili a tutti i cittadini. Bisognerebbe, poi, a livello Europeo e nei vari Paesi, individuare, invece, un nuovo modello di sviluppo. Esistono vari tentativi di disegnare un nuovo modello di sviluppo, fondato sui diritti e la qualità sociale, un nuovo welfare fondato sulla giustizia e l’eguaglianza, politiche di solidarietà e di cooperazione internazionale. Ciò perché la popolazione, ignorata dalla politica, avanza alcune priorità: arginare l’impoverimento sociale e la perdita di posti di lavoro, difendere il potere d’acquisto delle famiglie, dei lavoratori e dare reddito a disoccupati e a chi – come i pensionati a regimi modesti – si trova fuori dal mercato del lavoro.

 

In sostanza il paese reale, in Italia, chiede alle forze politiche di rilanciare con fermezza la regia e la forza delle politiche pubbliche capaci di orientare i comportamenti e le proposte dei mercati, cose che il pareggio di bilancio inserito in Costituzione non consente di fare agevolmente. Inoltre chiede di riportare l’economia finanziaria al servizio dell’economia reale, innovare le produzioni e i consumi individuali e collettivi sulla base di un nuovo modello di sviluppo, di cui abbiamo sempre più bisogno.

 

La politica deve abbandonare le vecchie strade, mettere fine a privilegi e corporativismi, ridistribuire la ricchezza (perché questa è la vera condizione per crearne della nuova) e ridurre le diseguaglianze, ridare speranza ad un paese che altrimenti rischia di essere stritolato da una crisi che accentua le debolezze strutturali di un sistema economico e istituzionale da tempo in difficoltà. è necessario ripristinare un ruolo più incisivo dell’intervento pubblico capace di dare regole vere e rispettate ai mercati finanziari, di disegnare una vera politica industriale, di attivare meccanismi di incentivo e di stimolo dell’economia reale. Si tratta di ridisegnare un sistema in cui il mercato – e gli operatori privati – non siano lasciati senza regole, ma possano agire dentro una cornice in cui prevalga il bene comune, la responsabilità sociale, l’interesse collettivo. A nostro avviso, è necessario creare quella qualità sociale che rappresenta il tratto distintivo di un’economia che rimette al centro il lavoro e le persone, i loro diritti sociali inalienabili, le relazioni umane e la dimensione comunitaria della produzione e del consumo. La qualità sociale parte dalla dignità del lavoro e nello stesso tempo condiziona le attività e i risultati della produzione in un’ottica di economia solidale al servizio del bene comune.

 

Bisogna che si rivedano e si ricontrattino gli accordi UE. Ciò si rende necessario perché la creazione della UE nella concezione mercantilistica ha determinato una redistribuzione del reddito al contrario: dai poveri ai ricchi.

 

Oggi gli Stati, dopo aver ripianato, con soldi dei cittadini, gli ingenti debiti delle banche, si trovano a dover pagare a quelle stesse banche il debito contratto per il mantenimento della credibilità davanti ai mercati ed in questo i politici si rivelano essere prigionieri del capitale finanziario. I miraggi della sovranità popolare, della rappresentatività, della mediazione degli interessi svaniscono e resta un regime che poco ha a che vedere con la democrazia, poiché questo sistema, dominato dall’economia del debito, ci ha imposto la censura della libertà di criticare, principale caratteristica delle società democratiche, essendo ogni critica zittita da uno stato di eccezione permanente. Contro questa tendenza dissolutrice dobbiamo porci l’obiettivo di esaltare contemporaneamente quei valori di libertà e quei principi di solidarietà che sono stati i nostri caratteri ideali. I soli che possano impedire che la povertà e l’emarginazione vengano viste come uno scomodo fardello da occultare più che una questione da risolvere. Su queste idee – ricordiamo - era nato il progetto di un unico grande paese europeo fondato su valori di pace e prosperità per sfuggire ai totalitarismi e alle tentazioni guerrafondaie. Oggi di quel sogno resta un’Europa messa in ginocchio dalla crisi; un’autorità che si sta dimostrando sempre più lontana dalla realtà e dalle aspettative dei cittadini e che, invece di integrare, sta amplificando differenze culturali e sociali mettendo in ombra affinità e senso di coesione.

 

L’Europa dei popoli è divenuta l’Europa delle banche e della finanza e ciò che resta di un progetto di pace e di unità sono solo parole criptiche di ingegneria finanziaria lontanissime dai reali interessi della gente. La Unione Europea è divenuta solo un campo di battaglia, dove la guerra dei mercati ha sostituito in gran parte quella militare. C’è da aggiungere che le politiche di austerity hanno comportato sacrifici per i cittadini, ma il mondo politico non ha rinunciato al proprio sistema clientelare e alla crescente corruzione. Con la giustificazione del rigido vincolo di bilancio, gli stati attingono le risorse dai cittadini, aumentando la pressione fiscale come testimonia la politica economica di austerità che continua indifferente alle tante tragedie umane, alle difficoltà di tutte quelle famiglie che hanno oltrepassato la soglia della povertà a causa delle politiche elitarie e disumane che hanno realizzato. Certamente non è questa l’idea fondante dell’Unione Europea. Questa è un’Europa incapace nei fatti di mettere al primo posto gli uomini, i suoi cittadini al posto del suo sistema monetario, solo perché questa politica economica risulta conveniente ad alcuni Stati europei che lucrano su altri stati europei e quindi gliela impongono. Perciò, dopo vent’anni di politiche economiche di stampo neoliberista, i problemi della società europea restano apertissimi con una emergenza di portata storica che è quella della disoccupazione ed, in particolare, di quella giovanile, che costituisce una dissipazione del nostro bene più prezioso, la risorsa umana e colpisce accentuando disparita territoriali, di genere e generazionali. è evidente che l’Europa non può avere come bussola esclusivamente il mercato: lasciare ancora alle sole forze di mercato la possibilità di decidere il grado di convergenza delle condizioni di lavoro e il progresso sociale significa creare ulteriore povertà, quindi sfiducia e malcontento con qualche rischio per la democrazia. I mercati non possono decidere sui diritti inalienabili dei cittadini ed i politici eletti dal popolo non possono soprassedere dal valutare sempre la legittimità di chi assume decisioni che coinvolgono i loro cittadini. Non può essere permesso che la nostra vita sia scandita da organismi come la Bce, il FMI e una stessa Unione Europea spoglia di un governo europeo eletto dai cittadini e che, quindi, essendo legittimato dal voto popolare potrebbe rispondere delle scelte che compie.

 

Questo è il problema che l’Unione deve affrontare e risolvere al più presto.

 

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1) Articolo: Il ritorno del paladino dell’austerità contro i “ricatti” degli Stati cicala. La Repubblica del 27.4.2016