Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 05/03/2016
Rapporto tra sindacato e politica
Rapporto tra sindacato e politica
05/03/2016  | Sindacato.  

 

di Antonio Foccillo

 

Questa volta voglio affrontare un tema abbastanza spinoso, che trova anche all’interno della nostra organizzazione sensibilità diverse: quello del rapporto fra politica e sindacato.

 

Il sindacato, in qualche caso, è stato fondatore di partiti laburisti, in altri, ha avuto una presenza egemone ed, in altri ancora, ha svolto una funzione meramente dialettica, fino ad essere, in ultima analisi, addirittura cinghia di trasmissione.

 

Questo stretto rapporto fra sindacato ed, in particolare, partiti di sinistra, ovviamente ha influenzato le scelte delle politiche economiche, sia al governo sia all’opposizione, che questi hanno sostenuto nei loro Paesi.

 

In Italia, il rapporto tra i sindacati confederali e la politica è un rapporto che esiste da sempre, anche se ha subito negli ultimi vent’anni una profonda trasformazione per ciascuna organizzazione: la Cgil ha abbandonato il tradizionale ruolo di “cinghia di trasmissione” del partito comunista per riprendersi una propria iniziativa; la Cisl ha perso il principale punto di riferimento politico, la Dc, ma ha conservato, se non implementato, il tradizionale legame con il mondo dell’associazionismo cattolico; la Uil, invece, che già in passato non aveva uno stretto legame con i tre partiti laico-socialisti, anche se i loro valori erano punti di riferimento nell’iniziativa e nella proposta sindacale dell’organizzazione, con l’avvento della seconda repubblica e con la relativa crisi di quei partiti ha maggiormente rafforzato la propria indipendenza e autonomia dalla politica.

 

Cgil, Cisl e Uil, negli anni del proporzionale, si muovevano in una logica coerente che ho prima rapidamente delineato. Ma credo sia più opportuno andare a vedere quello che è successo un minuto dopo la disintegrazione del sistema dei partiti del cosiddetto arco costituzionale e del sistema proporzionale.

 

Il bipolarismo del maggioritario ha spaccato in due la società e anche il sindacato, a detta di molti, doveva fare la stessa fine: una parte di qua e l’altra di là. Esattamente quello che non successe dopo la seconda guerra mondiale. Ed, infatti, puntualmente, non è successo neanche questa volta, sebbene il rischio di inseguire il bipolarismo sia esistito ed esista tuttora.

 

Se il sindacato, infatti, si schiera con uno dei due poli, finisce col rischiare di perdere autorevolezza, poiché non sarà più riconosciuto dagli stessi lavoratori come libero ed indipendente.

 

Pertanto, si tratta, oggi, di riconoscere come il cambiamento del rapporto sindacato-politica sia tanto importante, da non poter più essere valutato con l’ottica del passato, abbandonando, quindi, anche polemiche che spero siano superate e riconosciute come del tutto inutili.

 

Quello che, è avvenuto, con il governo Monti prima e, soprattutto, poi con il governo Renzi, che hanno ridimensionato il confronto fra sindacato e quadro politico, ha riportato in primo piano il problema del ruolo del sindacato perché è stato rimesso in discussione il rapporto progressivo e dialettico tra sindacato e pubblici poteri.

 

Non si può assistere passivamente a questo processo di progressivo deterioramento nella capacità della politica di vedere nel sindacato un interlocutore stabile.

 

Il sindacato deve porsi il problema della proiezione politica istituzionale di questo cambiamento culturale: la frammentazione sociale, tanto diffusa e irreversibile nella nostra società, è compressa e mortificata dall’incomprensione e dalle rigidità spesso convergenti del sistema istituzionale, del sistema politico, del sistema di relazioni sindacali.

 

Si possono individuare varie soluzioni ed alternative, ma credo che questo atteggiamento non possa essere modificato, se non attraverso una nuova cultura laica, che tanta parte e tanto ruolo ha avuto nel nostro Paese negli anni passati e che, oggi, sembra essersi affievolito.

 

Quando dico spirito laico, intendo quella esperienza che ha formato tanti di noi nel sentimento del dubbio e non delle certezze, della difesa della libertà di chiunque di potersi esprimere liberamente anche quando la sua posizione è minoranza, dell’evitare dogmi ed egemonie culturali e politiche, del valutare tutti gli aspetti dei cambiamenti e, soprattutto, di stimolare la partecipazione di tutti al dibattito ed al confronto.

 

La cultura laica ha fatto della sua bandiera lo spirito della solidarietà e delle pari opportunità e nella costruzione della società ha fatto prevalere valori ed ideali di fraternità, di pluralismo, di uguaglianza, di tolleranza, di rispetto del pensiero altrui, di democrazia partecipata, in cui l’uomo e la donna siano soggetti cui la società si uniformi e non viceversa.

 

Solo attraverso la riproposizione di questa cultura, la democrazia potrà ritornare ad essere essenza fondamentale, esprimendosi attraverso la partecipazione collettiva, che con uno slogan può essere sintetizzata nel permettere a tutti di controllare, partecipare e decidere.

 

Proprio la Uil, che è portatrice di quella idea laica e riformista, ha impostato il proprio raggio d’azione alla ricerca del dialogo con le altre organizzazioni e con i vari interlocutori sociali, politici e istituzionali, scegliendo di andare a tutti i tavoli con l’unico obiettivo di fare trattative ed accordi, lasciando poi ai propri dirigenti di ricercare una sponda politica personale.

 

In questi ultimi anni, la politica tradizionale non è stata capace di dare una risposta concreta alle disfunzioni e alle inefficienze della nostra macchina istituzionale, e, soprattutto, alla sfiducia drammatica dei cittadini nei confronti del sistema. Ne deriva la poca fiducia nei partiti e nel parlamento che mette in discussione la democrazia di una repubblica che non funziona.

 

La società si sta orientando sempre più verso la virtualità delle discussioni, i partiti politici hanno chiuso le sezioni ed in realtà il sindacato è una delle poche realtà dove ancora si discute veramente, collettivamente. Questo è, storicamente, un punto a favore del sindacato, rispetto al partito politico: senza voler entrare in competizione, è però evidente che il sindacato ha conservato strumenti, metodologie e pratiche democratiche che, invece, il partito politico ha smarrito.

 

A questo punto, innanzitutto, bisogna decidere se si ritiene di rafforzare le istituzioni indebolendo il ruolo dei partiti, come è nelle democrazie maggioritarie dove le leadership sono fortemente personalizzate e investite direttamente dal popolo, oppure rafforzare i partiti come unica difesa dello stato sociale, poiché essendo venute meno le premesse del compromesso socialdemocratico, per continuare a garantire un livello adeguato di servizi e prestazioni pubbliche, deve intervenire la politica, e cioè i partiti. Ciò impone la fine della strategia del maggioritario, delle primarie, della personalizzazione dei leaders, perché indeboliscono i partiti, mentre l’idea di un partito diverso, dotato di una forte cultura politica, va nella direzione opposta.

 

Una delle problematiche con cui bisogna fare i conti, proprio per l’intreccio fra economia e democrazia, è l’irruzione sulla scena sociale e politica dei mercati, che ha portato con sé la dottrina finanziaria, in cui la moralità della condotta sociale viene dettata dal responso della Borsa e dagli interessati segnali delle agenzie di rating e dei grandi investitori. Questa dottrina ha messo da parte il fine dell’agire politico, cioè la giustizia sociale, sostituita da una sorta di armistizio con la “fame” speculativa della finanza alla quale è trasferita, attraverso i mercati, la ricchezza sociale dei popoli e quella personale dei cittadini.

 

La messa in moto di tali processi e strumenti di coercizione decisionale indebolisce anche i sindacati, rimasti a lottare su scala nazionale contro sempre più stringenti e inappellabili “raccomandazioni” europee che vedono nell’abbassamento dei salari e nella precarizzazione dell’occupazione l’unico metodo per recuperare competitività; che rendono fatue le lotte dei movimenti per i beni comuni. Infine, lega le mani ai partiti e alle loro politiche, qualunque sia il colore che vinca le elezioni e formi il governo, ma, soprattutto, priva la cittadinanza della possibilità di definire il proprio futuro collettivo giudicando autonomamente fra diverse rappresentazioni della realtà e diverse risposte politiche alla crisi.

 

Il sindacato deve, quindi, prendere atto del mutato scenario politico per lanciare nella mischia una proposta che costringa soprattutto il governo a confrontarsi, cosa che negli ultimi tempi ha abbandonato.

 

Il sindacato deve ripensare le proprie strategie, poiché ruolo e natura sono inalterabili e non si deve porre il problema della collocazione ma deve, invece, elaborare una propria autonoma proposta e, sulla base di questa, condizionare il dibattito politico, costringendo la politica ad inseguirlo su proposte innovative e condivise, idee alternative che, in democrazia, il sindacato può affermare tra i lavoratori ed i cittadini, soprattutto, anche se ovviamente non esclusivamente, attraverso l’organizzazione di espressioni di dissenso pacifiche e simboliche.

 

Solo una proposta forte, articolata e condivisa può sfuggire alla logica del bipolarismo. Questa, caratterizzandosi per il merito, guadagna l’autorevolezza che deriva dall’essersi generata autonomamente, senza passare per vie collaterali ed evidenziandone gli aspetti innovativi, l’impatto nella dinamica sociale, in tutti i suoi aspetti. Si richiede, quindi, uno sforzo elaborativo che un sindacato che si dovesse limitare al quotidiano non potrebbe fare.

 

Diritti contrattuali, stato sociale, servizi pubblici sono qualcosa sul quale il sindacato deve elaborare una progettualità, per acquisire consenso nella società.

 

È necessario un sindacato che non abbia l’obiettivo di sostituirsi alla politica, ma di dare alla politica contributi e stimoli innovativi, che diventino opzioni, modelli alternativi sui quali la politica è costretta a confrontarsi. Poi si vedrà se sarà la sinistra o la destra a rispondere, anche se appare evidente che su alcune materie la sinistra dovrebbe essere più sensibile. Ma deve essere la pratica quotidiana a dirlo. È la politica che deve dimostrare di credere in alcuni principi e darne seguito. Quanti cittadini, ormai, non vedono grandi differenze tra i due schieramenti, soprattutto in materia di politica economica?

 

Oggi la nostra classe politica, in considerazione del fatto che il suo ideale politico non è conseguibile ha ceduto la ricerca del bene comune sostituendolo con quello personale. Ciò, non delegittima la funzione politica ma questa classe politica, stretta – come dice Ritter - da contrasti di interessi razionalmente insolubili e da quell’insufficienza morale con cui ogni essere umano sconta le conseguenze della sua misteriosa doppiezza di natura (1).

 

In definitiva il sindacato – per lo meno la Uil – potrebbe dare alla politica, proprio per il fatto che non ha collateralismi con la politica, un contributo costruttivo, un modello alternativo che si richiami ai valori ed ai principi che appartengono al suo Dna.

 

Nel contempo, si potrebbe dare un contributo concreto alla ricostruzione di una forza riformista, che rappresenti non solo la continuità storica con quel patrimonio di uomini e di idee che arricchiscono l’albero genealogico del socialismo italiano, ma che sappia anche guardare al futuro con una prospettiva adeguata, consapevole della realtà globale che muta quotidianamente, sotto tutti i punti di vista, creando nuovi problemi, nuove sfide.

 

Il merito dei contenuti su cui battersi è molto chiaro, ciò che è di più difficile identificazione è lo strumento per attuare queste politiche ed il sindacato deve favorirne l’individuazione andando a stimolare, quasi a provocare, la politica, sfidandola sul merito.

 

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1) RITTER, Il volto demoniaco del potere, tr. it. di E. Melandri, Il Mulino, Bologna 1971