Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 05/11/2015
Si ripropongono scelte economiche sbagliate, senza confronto e partecipazione
Si ripropongono scelte economiche sbagliate, senza confronto e partecipazione
05/11/2015  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Queste considerazioni nascono dall’analisi sulle scelte economiche, sociali e politiche che da tempo stanno influenzando la vita dei cittadini, non ultima la legge di stabilità 2015. Gli slogan proposti sono sempre retorici ed enfatici. Presuppongono benessere, sviluppo e migliori condizioni di vita, ma alla fine si rivelano quali risanamento, sacrifici e tagli lineari di beni e servizi ai cittadini con la conseguente cancellazione dei diritti di cittadinanza.

 

In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, vi è ancora la possibilità di garantire a tutti gli stessi diritti? In questi anni abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Negli Anni Settanta ci fu una grande affermazione dei diritti civili, oggi siamo in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente. La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato e di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti che non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico. Il caso dell’Ilva di Taranto ne è la dimostrazione: per anni sono stati trascurati i diritti di lavoratori e cittadini, come il diritto alla salute. Adesso tutto ciò sta portando a una crisi economica drammatica dell’azienda. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. La politica si è fatta fortemente condizionare da un’idea di diritti e non diritti che proveniva dalla pressione dalla forza della finanza. Così alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Nel merito, dopo la fine della prima Repubblica ed in particolare a partire dal premier Mario Monti si sono prefigurate forme di privatizzazione del pubblico e del servizio sanitario nazionale con un costo dei servizi tale da non poterlo più garantire ai cittadini, pertanto come conseguenza la salute è garantita solo dalla possibilità che ognuno avrà di comprarsela sul mercato. Non ha più importanza quanto afferma l’articolo 32 della Costituzione, laddove si dice che la salute è un diritto fondamentale del cittadino. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Così anche per la formazione, l’assistenza etc.Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma col censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria.

 

I diritti, anche in presenza di crisi economiche, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose e la soluzione che tutti prospettano di “avere più Europa”, presuppone che l’Europa non sia soltanto economica. Tuttavia dell’Europa sociale non c’è traccia, se non una inapplicata Carta dei diritti e quindi, per molti Paesi, Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’ e ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini.

 

Parlando di lavoro, l’articolo 36, dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e quindi per essere tale non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, che afferma solo un minimo per la sopravvivenza che umilia le persone. Un’economia basata sulla considerazione che il lavoro non è una merce da comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative.

 

In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro, ignorando la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti, la corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Inoltre l’elevato costo del lavoro è anche il risultato del drenaggio di risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente piuttosto che un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati – secondo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi.

 

In definitiva il lavoro è stato sacrificato a favore di altri tipi di interesse.

 

In questo contesto di smarrimento e di impotenza dell’uomo a stabilire regole di convivenza adeguate alla realtà come si è configurata in questi ultimi decenni, è stata una politica con la p minuscola.

 

La Politica invece, è un’attività autonoma, che ha solo in se stessa e non fuori di sé, la giustificazione che la legittima: garantire la concordia interna dei cittadini e la sicurezza esterna dello Stato. Quindi, nella capacità operativa della politica di evitare scelte sbagliate e di essere all’altezza del compito affidatogli che dà “prova morale” del suo agire politico. Governare, infatti, significa riuscire ad essere efficaci, così che è l’inefficacia ad essere “immorale”.

 

Gli uomini hanno accettato, e continuano ad accettare, di vivere politicamente insieme per vivere meglio. Alla Politica, dunque, è affidato l’incarico di individuare le forme migliori e gli attori più capaci a realizzare le condizioni concrete per una vita felice, ragione necessaria del vivere insieme. Alla Politica i cittadini hanno diritto di chiedere volontà, forza, capacità per decisioni che perseguano e realizzino il “bene comune”, registrato quanto meno su quella speciale “amicizia utilitaristica”, indicata da Aristotele, seppure come ultima, tra le tre autentiche forme di filia capaci di mettere comunque in forma una società, che si giustifica sull “interesse di tutti”.

 

Fine dello Stato è la libertà, che significa insieme la meta diretta del benessere materiale e non solo di quello spirituale. Non può esserci vera libertà politica per l’uomo, se a questa non si accompagni l’affrancamento dalle immediate necessità economiche. Infatti, il criterio discriminante della libertà è la sicurezza materiale e morale.

 

Sovrano è colui che decide. Carl Schmitt nella sua opera conferma ciò. Il cittadino, allora, è davvero sovrano solamente quando può partecipare direttamente alle scelte fondamentali della Città alla quale appartiene. Se al suo posto sono altri a decidere, magari istituzioni bancarie, compagnie assicurative, proprietà di giornali a queste fortemente intrecciate, lobby economiche-politiche, consorterie finanziarie transnazionali poco palesi, è evidente che dire che sovrano è il popolo è un artifizio retorico e mistificante. Il cittadino, il popolo, unico titolare della sovranità, è costretto a godere, invece di un mezzo titolo di sovranità e di cittadinanza. In altre parole ad essere libero a metà. E ancora meno, se gli si sottrae la titolarità della moneta. Come si può, infatti, chiamare libero un popolo, quando non può disporre della proprietà della moneta e quando questa è in possesso di istituzioni bancarie private, che badano ai loro profitti privati e mai all’interesse comune dei cittadini?

 

La democrazia rappresentativa e la democrazia partecipativa

 

Il presupposto della democrazia liberale moderna, cioè il principio della rappresentanza sembra essere ormai superato poiché, nel mondo globalizzato, appare più adeguato un sistema di democrazia diretta che le moderne tecnologie elettroniche e di telecomunicazioni potrebbero consentire in nuove forme.

 

Nelle società odierne è evidente come il liberalismo non sia affatto sinonimo di democrazia, anche se le origini dei sistemi rappresentativi nascono da concezioni liberali che esprimevano lo sviluppo e la maturazione delle società mercantili e delle condizioni oggettive per il sorgere del capitalismo.

 

Di fronte al tentativo in atto di privatizzare e comprimere i soggetti della democrazia, bisogna reagire per ricostruirne l’autorevolezza e la legittimazione. Ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, in assenza delle quali la convivenza civile viene meno e una comunità politica si sfalda.

 

Oggi sembra prepararsi l’eclissi della democrazia stessa, che prelude non un ad un vero e profondo cambiamento, ma a possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi, nuove deleghe in bianco alla tecnocrazia o al populismo. Infatti, l’impotenza della politica alimenta giudizi generici e sommari, suggestioni antipolitiche che producono un avvitamento fatale frutto di quella privatizzazione della politica che – con i suoi episodi eclatanti di corruzione, di uso personale dei partiti e delle funzioni pubbliche – è conseguenza del più generale processo di privatizzazione che ha reso subalterna la politica all’economia, secondo l’assunto che la politica non serve o al massimo deve assicurare il consenso a decisioni prese dai grandi poteri finanziari, obbedendo alla nuova “teologia dei mercati”. L’alternativa proposta a questa crisi di legittimità, che prescinde dall’analizzarne le ragioni strutturali e le conseguenze pericolose, è ridurre il peso della rappresentanza sostituendo alla politica la tecnica, come se questa fosse neutra e di per sé legittima. L’evoluzione o meglio l’involuzione della politica rappresentativa ha inizio dai partiti di massa che dal sistema di contatto strutturato con la propria base elettorale di cui percepivano velocemente le necessità e ne elaboravano soluzioni e strategie politiche sono passati a cedere progressivamente alle tensioni oligarchiche che si muovevano al loro interno, provocando la crisi di questo sistema. Ma la politica nel rinnovarsi (purtroppo non in meglio) ha compiuto il passaggio dalla leadership delle ideologie alla leadership del leader, sempre più mediatizzata e ridotta a slogan. Il presupposto per modificare profondamente l’attuale situazione è una ricostruzione culturale e sociale della qualità della politica, partendo da una radicale messa in discussione della infezione ideologica “privatistica” che ha dominato, anche a Sinistra, l’ultimo ventennio.

 

La Rappresentanza

Il concetto di rappresentanza (1) rimanda a uguaglianza, libertà, legittimazione. Tenendo conto del principio di uguaglianza diventa difficile fondare un ordine politico legittimo, perchè nessuno ha più diritto di un altro a rappresentare gli altri. La soluzione è quella di delegare il potere ad una persona che agisca nel nome della collettività come unico interprete legittimo della volontà generale. Le scelte che egli farà si considerano fatte in nome di tutti quelli che l’hanno delegato a farle. Questo ordine politico sottintende un patto in cui tutti i singoli individui cedono una parte del loro potere ad una persona che agirà in vece loro. La particolarità è che gli individui stringono il patto non con un rappresentante già presente, poichè è compito del patto creare il soggetto collettivo. Una volta determinato il rappresentante, egli non ha più nessuno di fronte a lui: è l’unico soggetto politico legittimo. Gli individui quindi non sono più presenti, ma vengono, per così dire, assorbiti nel corpo rappresentativo. Gli individui non trasferiscono però alcun contenuto politico, che sarà stabilito solo da chi è legittimato a farlo. Da questo momento in poi il rappresentante è dotato di un potere indiscutibile: qualsiasi diritto di resistenza viene negato.

 

In conclusione, come tutti i più pregnanti concetti politici, anche quello della rappresentanza cerca di rendere presente ciò che per sua natura è assente e questa aporia sta proprio nel patto e relativa delega al rappresentante poichè costui è sia effetto, sia condizione del patto stesso. Mai come in questo passaggio di secolo la democrazia appare, nelle sue diverse tipologie costituzionali, vulnerabile e inclinante verso oligarchie, strutturate in poteri anche non politici, economici, sociali, mediatici, o verso governi personali. La democrazia non sopravvisse alla città antica, potrebbe non sopravvivere alla nazione moderna. Occorre ancorarla a dei valori che la salvino anche nei grandi scenari della deterritorializzazione del potere, delle unioni sopranazionali, delle egemonie transnazionali, insomma di quelle forme inedite che sta assumendo la globalizzazione, ivi comprese quelle città-mondo in cui sta andando a concentrarsi metà della popolazione del pianeta, e che fungono da capitali dei mercati globali. Per quanto la democrazia sia senza dubbio una questione di regole e procedure, sebbene la democrazia richieda che esistano dei criteri ‘minimi’, la democrazia non si esaurisce infatti nelle regole, perché, inevitabilmente, è anche un ‘prodotto culturale’: non nel senso che la democrazia richieda determinate basi culturali per essere efficiente, ma nel senso che il significato di «democrazia» è sempre un prodotto culturale, è il sempre il risultato di un confronto teorico, di conflitti sociali, di esclusioni e di inclusioni, di contrapposizioni e alleanze internazionali. Quindi, se è vero, se non vi sarà partecipazione dei soggetti rappresentativi, a partire dal sindacato, per trovare forme di condivisione e coesione nelle scelte politiche in modo da agire sul quadro esistente per modificarne alcuni aspetti in termini riformistici, saranno i conflitti sempre più esponenziali a determinare una rottura radicale rispetto all’attuale assetto politico con conseguenze tutte sconosciute e non certo ottimali.

 

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1) Rappresentanza, ovvero la trasmissione formale del potere tra chi detiene la sovranità (il popolo) e chi è legittimato da questi ad esercitarla dal verbo latino arcaico re-ad-praesentàre, da cui il latino classico repraesentàre. e cioè di “dar forma a”, e, dunque, in questo senso, di “rappresentare”.