La questione femminile
MAGGIO 2020
Attualitą
La questione femminile
di   Barbara Francia

 

Nel corso del tempo la condizione della donna ha subito profondi cambiamenti, a seconda della società considerata, dell’evoluzione politica e giuridica dei popoli, della diversità degli elementi geografici e storici e della sua appartenenza ai vari gruppi sociali. Nelle società del passato, in quasi tutti i periodi storici, la donna è stata sottoposta a un trattamento sfavorevole rispetto a quello riservato all’uomo dal punto di vista giuridico, economico e civile. Le donne sono state private di diritti fondamentali ed escluse dalla vita sociale e dalle attività pubbliche. Paradossalmente, la donna aveva maggiore potere nelle civiltà arcaiche, nelle quali rivestiva un ruolo importante, era a capo della famiglia e veniva considerata una figura potente nella comunità, poiché generava la vita. Nel mondo classico, con particolare riguardo all’antica Grecia, il ruolo della donna è mutato completamente in peius. Filosofi quali Platone o Euripide la consideravano ignorante, inferiore, difettosa e incompleta, ragione per la quale essa doveva rimanere sino alla morte subordinata alla potestà del padre o del marito. Lo stesso schema si ripeteva in epoca romana. Il mondo romano era contrassegnato da una radicata misoginia, che attingeva le proprie convinzioni nella medicina e nella filosofia greca. La donna rappresentava una mutazione degenerativa della specie ed era considerata psicologicamente e spiritualmente inferiore all’uomo. A Roma la donna era una figura subalterna al paterfamilias e doveva occuparsi esclusivamente della gestione della casa e della cura dei figli, l’uomo al contrario ricopriva le cariche pubbliche. Nel periodo medioevale la donna veniva considerata in modo duale: angelica e spirituale per gli stilnovisti, ma al contempo anche stregonesca e maligna secondo la cultura popolare. Ovvero, nella donna si incarnavano bene e male, pertanto, le donne continuavano ad essere soggette al potere maschile. Anche il mondo cristiano non ha fatto eccezioni, poiché per la cultura cristiana la donna aveva pochi diritti, ad esempio non era libera di fare testamento, doveva sottostare all’uomo e doveva occuparsi prevalentemente della sfera del privato. In sostanza, la cultura del tempo e la tradizione ci hanno consegnato l’immagine di una famiglia mediterranea fortemente connotata da una rigida struttura piramidale al cui vertice risiedeva il pater familias, mentre la donna esplicava solo funzioni di maternità, necessitando della protezione del marito, relegata nel panorama delle mura domestiche per la cura dei figli e la gestione della casa. I figli poi, emanazione del padre, erano subordinati alla sola autorità paterna e, talvolta, solo in sua assenza, a quella materna.

È stato il Lavoro ad assicurare più libertà alle donne. Il Lavoro ha fatto sì che le donne non rimanessero confinate nella sola dimensione domestica e che non fossero più sottomesse agli uomini. Nella seconda metà dell’Ottocento sono iniziati i primi dibattiti sulla questione femminile e si sono diffuse idee e posizioni femministe sul tema del lavoro e della parità tra uomini e donne. Molti filosofi e studiosi del tempo, tra i quali spicca anche il nome di Anna Kuliscioff, sostenevano l’importanza di introdurre in Italia e in Europa una Legge che tutelasse il lavoro di donne e bambini sul piano dell’orario e del salario. Nei primi anni del 900 sono state varate leggi volte a regolare il lavoro femminile, a riconoscere la donna lavoratrice, rafforzandone anche la posizione nella famiglia. Il socialismo dell’epoca iniziava a promuovere la contrattazione collettiva, seppur duramente, ma, mentre la promozione della contrattazione veniva attuata in modo proficuo nelle fabbriche, la situazione nelle campagne era decisamente peggiore, poiché si trattava di realtà in cui le donne lavoravano in un sistema regolato esclusivamente dalla tradizione. Nell’età giolittiana era forte la spinta verso una profonda modernizzazione sociale, che si voleva attuare attraverso la riforma del contratto di lavoro e mediante la proposta di legge sul divorzio. Nel 1902 Zanardelli aveva presentato un disegno di Legge concernente le “Disposizioni sull’ordinamento della famiglia”, in cui proponeva di introdurre il divorzio e di modificare l’ordinamento della famiglia, considerando le profonde modificazioni sociali e del Lavoro. Purtroppo, sono falliti, in quegli anni, i tentativi di introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, così come la riforma del contratto di Lavoro. Non erano maturi i tempi per l’introduzione di una Legge sul divorzio, poiché i socialisti, per quanto progressisti, non riconoscevano la centralità dello stesso, perché anteponevano al divorzio le conquiste sociali, senza le quali i diritti civili sarebbero stati destinati ad una ristretta cerchia di persone che potevano permetterseli. Il divorzio si identificava con la modernità e sarebbe stato raggiunto in futuro, ma le tematiche dell’emancipazione non potevano anteporsi a quelle di classe, perché ciò si sarebbe tradotto nella prevalenza di istanze borghesi sugli interessi del popolo. Nella seconda metà del Novecento lo Stato liberale ci ha lasciato in eredità una struttura familiare in cui le norme napoleoniche convivevano con la legislazione sociale, la quale considerava la donna lavoratrice avviandone il processo di emancipazione.

Tuttavia, durante gli anni del fascismo, è stato fatto un enorme passo indietro rispetto alle conquiste sociali e culturali raggiunte nel periodo storico, politico e ideologico appena precedente. Il fascismo ha criticato aspramente la debolezza dello Stato liberale, reo di non aver saputo risolvere le contraddizioni tra Stato laico e religione. Con l’avvento del fascismo, in Italia, sono state introdotte delle Leggi ingiuste, che non hanno garantito una diversificazione tra la figura di donna e quella di madre, anzi, la maternità è stata esaltata a discapito del ruolo sociale della donna e ciò ha comportato l’allontanamento della donna dal mondo del Lavoro. Le donne venivano così escluse dai posti chiave della società e la Riforma Gentile relegava le ragazze nei licei femminili, indirizzandole ad un’educazione di genere volta ad evitare l’accesso delle donne nelle università. In tal senso, si limitava completamente la presenza della donna nel mondo del lavoro e le donne trovavano la propria dimensione solo all’interno della famiglia, società rigida e maschilista, improntata ad una severa divisione dei ruoli. Nella società fascista la donna viene onorata e celebrata nella veste austera e sacra di madre, la quale si occupa diligentemente dell’accudimento dei figli e del marito, essa apparentemente incarna l’anima della famiglia, ma nella realtà viene oppressa e umiliata, relegata ad un ruolo marginale, che stava scomparendo nello Stato liberale. In sostanza, La famiglia rappresentava elemento centrale dello Stato fascista e doveva rispondere alle esigenze di politica demografica del regime. Le persone erano obbligate a sposarsi, a procreare, a lavorare per dare figli alla difesa della patria, poiché il fine ultimo era quello di salvare la razza italica, la quale doveva essere forte e bianca, per effetto dell’introduzione delle leggi razziali nel 1938. Il nuovo Codice civile, che sarebbe entrato in vigore nel 1942, inizia ad essere discusso nel 1919, prima ancora dell’avvento del fascismo, per quanto però sia stato ideato ed emendato sotto l’influenza ideologica e culturale del regime. Le norme racchiuse nel Codice civile hanno assicurato la totale sottomissione della donna all’interno del matrimonio, stabilendo che la moglie dovesse seguire la condizione civile del capofamiglia di cui assume il cognome, obbligandosi ad accompagnarlo dovunque egli ritiene opportuno di fissare la sua residenza. Il potere dell’uomo sulla donna viene rafforzato, poiché la donna è completamente soggetta alla figura maschile ed è tenuta a seguire il marito ovunque e in ogni circostanza. La situazione è mutata radicalmente con la fine del regime fascista. Infatti, con la fine del totalitarismo e con la fine della Seconda Guerra Mondiale, si sono poste le basi per la costruzione di una società nuova e si è cercato di attribuire un ruolo del tutto diverso alla donna, come risultato di un lungo processo di emancipazione.

La Costituzione italiana ha affermato con forza valori democratici, fondativi di una società moderna, che si discostava fortemente da quella precedente. Sfortunatamente, sono stati necessari alcuni anni di evoluzione giuridica, ideologica e culturale, affinché i principi della Carta costituzionale venissero concretamente attuati. Ad ogni modo, il cambio epocale è avvenuto a partire dal 1968, anno storico delle contestazioni, degli scontri politici e culturali generazionali, anni in cui la Corte costituzionale, divenuta pienamente operativa, ha emesso sentenze storiche, attraverso cui è stato smantellato tutto l’impianto normativo della famiglia, del rapporto uomo-donna, costringendo di fatto la classe politica ad una riflessione, a dover pensare ad una prospettiva di radicale riforma della famiglia. Gli anni Settanta sono stati importanti per anche per il Sindacato, si è trattato di periodo storico in cui il Sindacato è stato protagonista, poiché ha avuto la capacità di comprendere i profondi mutamenti culturali della società, del mondo del Lavoro, interpretando concretamente la realtà storica del tempo. Il Sindacato ha creduto e sostenuto le battaglie ideologiche ed è stato partecipe dei mutamenti storico-giuridici di quegli anni: la Legge sul Divorzio e la riforma del Diritto di Famiglia del 1975. Con la Legge n. 151 del 1975 la famiglia viene riformata, diventando finalmente del tutto paritaria sul piano dei diritti, dei doveri, sotto il profilo della libertà. I figli naturali sono riconosciuti alla stregua dei figli nati all’interno del matrimonio e hanno medesimi diritti nella successione. Oltre a ciò, attraverso l’istituto della comunione dei beni, si attribuisce alla donna il riconoscimento del proprio contributo nel possesso, mantenimento e accrescimento dei beni della famiglia. La rottura della struttura familiare tradizionale patriarcale e cattolica è stato un cambiamento forte, non accettato profondamente dalla società del tempo, perché quel modello familiare aveva radici tanto profonde da influenzare la nostra società ancora oggi. Orbene, è evidente che negli ultimi cinquanta anni la vita delle donne sia profondamente cambiata: le diseguaglianze di genere, nel pubblico e nel privato, si sono attenuate, il grado di istruzione femminile è molto elevato e anche la presenza delle donne nel mondo del Lavoro è aumentata considerevolmente. Tuttavia, l’emancipazione femminile, malgrado l’evoluzione culturale e la presenza delle donne nel mondo del lavoro, non è completa e totale. Ancora oggi, la donna ricopre ruoli marginali nei più decisivi contesti lavorativi, politici e sociali. In tal senso, la Politica e il Sindacato devono agire in modo mirato per evitare le asimmetrie attualmente presenti nel sociale e nel mondo del Lavoro. Il Sindacato deve coadiuvare la politica al fine di intervenire sul tema, per evitare l’aumento delle disuguaglianze e delle discriminazioni, che minano l’elaborazione dei diritti fondamentali e i principi democratici della società. Il Sindacato, con l’avvento di nuovi temi, deve essere sempre più proiettato sulle questioni sociali. Anzi, sarebbe auspicabile che il Sindacato diventasse Sindacato Sociale, un’organizzazione volta a ricoprire un ruolo fondamentale in uno spazio sociale che necessita di essere regolamentato. In quest’ottica, il Sindacato dovrà impegnarsi nel trovare le soluzioni più adeguate alla diversità delle esigenze, per costruire un disegno democratico e politico, che sia il risultato espressione di maturazione civile e culturale.

 

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