Fermarsi, no. Avanti tutta. Daje...
MAGGIO 2020
70 anni di Uil
Fermarsi, no. Avanti tutta. Daje...
di   Camillo Benevento

 

Questo articolo ci era stato mandato da Camillo Benevento prima di morire e solo le vicende della Pandemia non ci hanno permesso di pubblicarlo. Come lui stesso dice i tanti anni di Uil non vanno celebrati ma si studiano. Senza dubbio la sua figura ha caratterizzato la vita della Uil nei tanti incarichi che lui ha svolto, compreso quello di essere direttore di Lavoro Italiano, ed ultimo, fino alla fine dei suoi giorni direttore della rivista della Uiltrasporti. Ciao Camillo 

 

70 anni di UIL non si “celebrano”, più che altro si “studiano” e così facendo si ripropongono alla coscienza di chi ha avuto la sorte di viverli nei giorni di speranze e anche di delusioni che hanno accompagnato periodi tra i più accesi e persino “convulsi” del nostro Paese. La fine “a puntate” del secondo conflitto mondiale aveva segnato l’apertura di una problematica dialettica per tutte le nazioni che avevano vissuto quegli anni, tanto più che, come l’Italia di guerre ne aveva praticamente combattute due: e, ciascuna da una parte diversa (e opposta). Differenza a prescindere restava il fatto che, nelle vecchie o meno vecchie dimensioni la presenza nel mondo del lavoro, anche in diverse graduazioni era stata pur sempre “momento strategico” della convivenza civile e non poteva essere ignorato. Le istituzioni cambiano ma lavoratori, pensionati, disoccupati restano sullo scenario sociale. E chi por mano ad essi? La sola arma di salvaguardia per evitare l’isolamento ufficiale restava, per il mondo del lavoro il sindacato, in qualunque struttura si presentasse (confederali, cooperative ecc…) sia nei tempi di sviluppo che in quelli di depressione. Oltra venticinque milioni di italiani dai 16 anni in poi vivono (bene o male) della propria attività, anche nulla facendo. La ricerca del “qualcosa per vivere” è legge di natura. La persona contro (o di fronte) al “genere”. Ne verranno sempre fuori iniziative da non archiviare e rilanciare. Nemmeno le dittature possono “cancellare” i sindacati tanto è vero che le più grandi e numerose del mondo per il numero degli iscritti sono oggi la Cina, la Russia, gli USA e il Giappone. Solo in USA esiste tra questi la figura del “sindacato” democratico. Innumerevoli sono nel mondo sindacati (si chiamano proprio così) a personale “differenziato”.

Esercitano anch’essi attività di difesa dei lavoratori e degli aspiranti al lavoro anche quello che è il “nostro” concetto dei sindacato democratico non è cosa per loro. Settanta anni fa i lavoratori italiani vivevano anch’essi in un sindacato “quasi” democratico, al quale poter aderire o restarne fuori, ma una volta iscritti, tenuti a rispettare sempre le direttive dell’apparato. I quali apparati erano spesso “guidati” dalle direttive di taluni partiti politici che volevano regolare la politica economica del Paese secondo la propria visione della società. Questo sindacato era la CGIL controllata dal PCI, il quale PCI (il PCI di Togliatti e Secchia) non avrebbe derogato un millimetro dai consigli che gli venivano da Mosca. Uno degli episodi che fece traboccare il vaso fu il titolo di testa in prima pagina dell’UNITA’ organo ufficiale del PCI: “I lavoratori della CGIL portano a Stalin, capo dei lavoratori di tutto il mondo, il saluto dei lavori italiani”. Era veramente il colmo. Nella CGIL vivevano e speravano ancora lavoratori, pensionati, nulla facenti in attesa di poter avere un’attività che equivalesse al “vivere”. Erano iscritti al PSI, al PSDI, al PRI al PLI o a nessun partito, ma tutti volevano che il sindacato fosse il “tutore principe della loro vita vissuta”. Si giunse inevitabilmente alla “rottura” della CGIL, che rimane la più numerosa per iscritti ma si vide abbandonata da lavoratori e disoccupati dei partiti non comunisti o senza partito. Non comunisti o senza partito ma non senza una visione precisa della propria condizione di “genere”, che li portava a distinguere, ciascuno di loro, quale dovesse essere la propria visione della società. Queste erano le “correnti” che andavano nascendo all’interno dei sindacati democratici “tout court” la UIL la LCGIL, la UILIA rispettivamente PSI, PSDI, ACLI CISL, PR/PLI (quest’ultimo presto confluito nella UIL).

Nemmeno qui era però possibile aver finito l’analisi perché nella UIL socialisti di orientamento Romitiano e Lombardiano potevano confrontarsi quotidianamente con Craxiani e De Bertiani e tra i repubblicani il contrasto tra La Malfiani e Pacciandiani cresceva di giorno in giorno (finì per portare nella UIL i La Malfiani e nella CISL i Pacciandiani). Non trascurabile nemmeno l’apporto di entusiasmo di giovani neofiti della sinistra sociale, alcuni provenienti dalla PSI e attratti da un sapore “laburista” che avevano lavorato per interpretare le istanze di “partito del lavoro” (fondarono dopo poco tempo un settimanale “La Strada” la cui direzione fu assunta da Ugo La Malfa. Finito il racconto? Nessuna delle “cose” raccontate ha lasciato le cose come prima. Di sicuro hanno reso la UIL la più “autonoma” dalle imperanti politiche dei Partiti e più vicina all’Europa dove analoghi processi erano andati sviluppandosi. Fu più facile la “conoscenza” reciproca che si rivelò quando un avvenimento eccezionale sembrò stupire il mondo del lavoro: la vittoria della UIL, il più piccolo sindacato in Italia nella più grande industria del Paese (la FIAT) e uno dei colossi nel mondo. Prova evidente di quanto nel mondo fosse quotata la UIL. Ma c’è di più. La considerazione che la UIL avesse portato un’aria nuova nella gestione contrattuale non lasciò senza una valutazione positiva da parte dei sindacati di tutta Europa, i quali si riflessero anch’essi su questi metodi contrattuali così che si poté assistere a comportamenti non molto dissimili tra le Organizzazioni sindacali europee fossero questi sindacati, cooperative, confederazioni. E anche in questo senso servì quello che era ormai lo slogan della UIL: Il sindacato unisce tutti i lavoratori, anche quelli che i partiti dividono. Le vicende sociali e politiche non consentirono a questa “formula” di resistere a lungo, ma “qualcosa” rimase sul tappeto. E diciamo che, a trarne i maggiori benefici fu non soltanto l’insieme dei sindacati, ma fu anche la UIL che era la più congenita a dare forma concreta. Crescemmo più degli altri e sapemmo interpretare al meglio i principi di “sindacato dei cittadini” che questa visione comportava. Lo dimostrarono i successi della UIL nella elezione dei consigli di fabbrica che, dopo quello della Fiat a Mirafiori, si moltiplicarono da settore a settore, da territorio a territorio. Da Torino a Milano, da Genova a Bologna, da Roma a Napoli, da Palermo, dai metalmeccanici ai tessili, dai chimici, dall’agricoltura al trasporto pubblico e così via.

Non sarebbe un’analisi completa se non riconoscessimo i grandi meriti di quei dirigenti della UIL che, al di là di ogni “dirigismo” o “sovranismo”, spesero la loro pratica, la “conoscenza” dell’individuo e del “genere” per raggiungere le proposte. Da Italo Viglianesi a Raffaele Vanni, da Angeletti a Larizza e a Veronese, da Barbagallo a Monosilio, da Ortolani a Corti, Chiari Degni ed altri ancora. Dobbiamo riconoscere che un’opera del genere, che aveva avuto in Giorgio Benvenuto l’antesignano e un grande impulso in Carmelo Barbagallo (regista finale Italo Viglianesi), fu dovuta alle grandi doti di questi compagni. Sbagliate se pensate che sia finita qui: il mondo politico, sociale e produttivo del nostro paese non tardò ad apprezzare il modo di servire la causa che, insomma, era un beneficio netto per il nostro paese. E ne volle il sostegno e la complessa maniera di saper scegliere il differenziale. La UIL ebbe così l’onore di veder chiamati suoi dirigenti responsabili ad altre ed importanti cariche internazionali e avemmo compagni nominati Ministri dal Capo dello Stato: Viglianesi, Ruffino, Simoncini, Luca Visentini attuale Segretario Generale della Confederazione Europea dei Sindacati, e infine Ruggero Ravenna Presidente dell’Inps. Un discorso su questo riconoscimento attraversò anche la CISL e la CGIL ma a noi tocca rendere soprattutto omaggio a questi Compagni che seppero presentare al Paese ciò che potevano prendere per la nazione Italia e per il mondo del lavoro. Non mi sembra, preciso che questo è il “mio” pensiero, che ci si debba fermare qui perché “siamo stati bravi”. No, compagni. Fermarsi, no. Avanti tutta. Daje……..

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