Quando eravamo tutti berlinesi
NOVEMBRE 2019
Inserto
Quando eravamo tutti berlinesi
di   Piero Nenci

 

Quando cade, un muro fa sempre un gran rumore e solleva un gran polverone. È successo con le mura di Gerico crollate circa 1150 anni a.C. dopo un complesso e spettacolare rituale; era già successo con le mura di Troia quando i troiani stessi sbrecciarono gli stipiti e spalancarono la porta della città per introdurvi il fatale feticcio del cavallo; è successo, molto più modestamente il 20 settembre 1870 con le mura di Roma quando i gagliardi soldati di Cadorna alle 10 del mattino cominciarono a cannoneggiare un tratto indifeso delle mura aureliane vecchie di mille e seicento anni. E successe poi nel novembre 1989 anche al muro di Berlino che, tra l’altro, non era né bello né antico, né famoso. Succederà inevitabilmente anche a tutti i muri tecnologici di oggi costruiti con pietre, cemento e ferro, fatti di tralicci metallici o di palizzate irte di punte o più semplicemente di un aggrovigliato intreccio di filo spinato magari percorso da corrente elettrica o addirittura scavato come un canale e popolato di affamati coccodrilli. Certo, finché resiste, un muro divide, chiude, impedisce, separa, estranea, soffoca, seppellisce. Ha scritto il poeta greco Costantino Kavafis: “Senza riguardo, senza pudore né pietà m’han fabbricato intorno erte, solide  mura. E ora mi dispero, inerte, qua. Altro non penso; tutto mi rode questa dura sorte. Avevo da fare tante cose là fuori. Ma quando fabbricarono come fui assente! Non ho sentito mai né voci né rumori. M’hanno escluso dal mondo inavvertitamente”.

Quel sorprendente novembre Dunque il 9 novembre di trent’anni fa, cadde (o, più esattamente, ne furono aperti i primi varchi) il muro che separava la zona di Berlino in mano al regime comunista dalla zona della Berlino libera di cui erano stati responsabili amministratori americani, inglesi e francesi. La notizia arrivò in Italia tramite l’Ansa alle 19,30 e dalle 20 in poi dilagò, attraverso i telegiornali, in tutto il Paese. Così avvenne in tutto il mondo. Era successo che a Berlino, durante una conferenza stampa trasmessa in diretta il portavoce del partito di Unità socialista (la Sed) Gunter Schabowski annunciò che tutte le norme per i viaggi all’estero dei cittadini della Repubblica socialista tedesca (Ddr) sarebbero state revocate. “Da quando?” chiese il giornalista italiano dell’Ansa Riccardo Ehrman; “Per quanto ne so io, ab sofort” (con effetto immediato), rispose Schabowski. In realtà il portavoce non era stato preciso: visto che l’emorragia di cittadini tedeschi dalla Germania dell’est verso la Germania occidentale, attraverso l’Ungheria e la Cecoslovacchia, era ormai incontenibile il governo comunista aveva messo a punto nuove regole per frenare appunto quel continuo esodo. Regole che sarebbero dovute entrare in vigore nei giorni successivi e di cui non si conoscevano ancora le procedure. L’informazione data da Schabowski era dunque intempestiva e incompleta ma non appena la ascoltarono dalla radio e dalla tv, decine di migliaia di berlinesi dell’est uscirono di casa e si misero in marcia verso Berlino ovest puntando soprattutto al posto di controllo più importante, noto come Charly Point che abbiamo tutti conosciuto dal racconto di John Le Carré del 1963 e dal successivo film La spia che venne dal freddo di Martin Ritt. Davanti a quella massa di persone che alle ignare guardie di confine ripetevano quanto avevano ascoltato dalla radio e dalla televisione di Stato e quanto avevano raccolto dai mezzi di comunicazione occidentali e che premevano per riversarsi a Berlino ovest la polizia di frontiera non poté far altro che aprire i varchi. Schabowski venne poi definito “l’uomo che abbatté il muro con le parole”. Il partito lo esautorò e lo espulse non appena si accorse di quanto stava succedendo. Quel muro resisteva dall’agosto 1961: la notte tra il 13 e il 14 agosto un esercito di poliziotti e di compagni operai riuscirono a completare buona parte della barriera cittadina, che alla fine risulterà lunga 43 chilometri, alzando un muro alto tre metri e mezzo. Dove non era possibile murare pietre e mattoni si ricorse a barriere metalliche e filo spinato e quando quel muro provvisorio invecchiò fu rinnovato con lastre di cemento armato. Così i cittadini berlinesi che si trovavano nella zona orientale della città sotto il regime di Mosca senza mai averlo scelto con libero voto, si svegliarono il 15 agosto tagliati fuori dall’Europa e dal resto della loro città governata dagli occidentali che presto la lasciarono libera. Ricordiamo come tutto ciò avvenne.

La storia inizia in Normandia Questa storia inizia il 6 giugno 1944 quando l’esercito alleato riesce a sbarcare truppe e mezzi sulla costa nord della Francia. È il notissimo D-Day. Ci vollero tre mesi per ricacciare l’esercito di Hitler dalla Francia e liberare Parigi. A fine ’44 gli anglo-americani arrivano ai confini del grande Reich e a marzo ’45 oltrepassano il Reno mentre dal fronte orientale si avvicina a grandi tappe l’esercito di Stalin: nel gennaio ’45 Budapest, a fine mese il lager di Auschwitz; ad aprile invade Vienna e risale verso Berlino che viene occupata a fine mese. Il 7 maggio 1945 il Reich alza bandiera bianca: Alfred Jodl (vicecapo di Stato maggiore) firma la resa incondizionata con gli anglo-americani ma a Stalin questo atto di resa non basta e chiede che il giorno dopo sia lo stesso capo di Stato maggiore, Wilhelm Keitel, a sottoscrivere la disfatta della Germania nelle mani di Zukov. La guerra è finita. Cosa fare dell’Europa e, soprattutto, della Germania e dei suoi alleati era già stato discusso. A Yalta, in Crimea sul Mar Nero, tra l’11 e il 14 febbraio 1945. Roosevelt, Churchill e Stalin stabilirono che la Germania doveva arrendersi incondizionatamente, tutte le forze militari tedesche dovevano essere sciolte e le industrie belliche rase al suolo, ma gli americani non erano d’accordo a ridurre la Germania alla semplice economia agricola; il territorio conquistato sarebbe stato diviso in quattro zone d’influenza tra i quattro vincitori, compresa quindi la Francia, nonostante il governo di Vichy avesse collaborato coi tedeschi.

Nell’aprile 1945 si aprì la conferenza Onu a San Francisco dove fu approvato il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. In questa occasione l’Urss si impegnò ad entrare in guerra contro il Giappone (membro del Patto d’acciaio con Germania ed Italia e che era ancora lontano dall’arrendersi) chiedendo in compenso la parte meridionale dell’isola di Sachalin, le isole Curili, la restituzione dei territori conquistati dal Giappone durante la guerra del 1904 e la partecipazione all’amministrazione del sistema ferroviario della Manciuria. Quando questo fu noto, il partito repubblicano Usa accusò l’Amministrazione Roosevelt d’aver favorito l’espansione dei russi verso la Cina. I democratici risposero che in oriente la guerra avrebbe potuto continuare non si sa fino a quando con enorme perdite di uomini e mezzi, era prioritario farla cessare quanto prima, né era ancora pronto il deterrente della “bomba”. Restava comunque certo che gli Usa non abbandonavano l‘Europa all’Urss, avevano anzi ribadito alcuni principi: “il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo” e “la restaurazione dei diritti sovrani e dell’autonomia dei popoli che ne erano stati privati dai tedeschi e dagli italiani aggressori”. Perché allora l’Europa si trovò divisa in due blocchi? Gli storici osservano che ciò non è derivato dagli accordi di Yalta ma dalla non osservanza di quegli accordi da parte di Stalin il quale nel 1945 cominciò ad imporre strutture “socialiste”nell’Europa orientale occupata dell’armata rossa. I responsabili delle tre potenze vincitrici della guerra si incontrarono di nuovo a Potsdam (nel Brandeburgo, non lontano a Berlino) tra il 17 luglio e il 2 agosto 1945 per precisare e completare gli accordi di Yalta. C’erano Truman e Byrnes per gli Usa, Churchill e Eden per la Gb, Stalin e Molotov per l’Urss. Discussero di disarmo, denazificazione e democratizzazione della Germania e più precisamente: del controllo dell’economia della Germania, dello smantellamento dei suoi trust e cartelli industriali, della confisca di parti degli impianti produttivi come riparazione dei danni di guerra, della spartizione della sua marina di guerra. Fino alla firma del trattato di pace i territori tedeschi  ad est della linea Oder-Neisse sarebbero passati alla Polonia. Le popolazioni tedesche  residenti in Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Ungheria (che erano state il pretesto delle annessioni volute da Hitler negli anni 1938 e ‘39) dovevano esserne espulse. La Polonia invasa ed occupata da tedeschi e russi doveva essere libera di costituirsi un suo governo indipendente. L’Austria, che con l’Anschluss del 1938 era stata annessa al Reich, fu divisa dai vincitori in quattro zone e venne esentata dal pagare le riparazioni di guerra. Poi nel 1955, quando l’Urss accettò di sottoscrivere il trattato di pace, fu lasciata completamente libera. I tre grandi si accordarono anche per l’evacuazione dall’Iran, per l’internazionalizzazione della zona di Tangeri e per avviare negoziati per una revisione della convenzione di Montreux sugli stretti.

La spartizione e il blocco di Berlino Oltre alla capitale anche tutto il territorio della grande Germania del 1937 venne diviso dagli occupanti in quattro ripartizioni; i poteri vennero affidati ai quattro comandanti delle forze d’occupazione, più un Consiglio di controllo interalleato con sede a Berlino. Quanto alla capitale del Reich, che al momento dello stop alla guerra si era venuta a trovare tutta in territorio occupato dai sovietici, fu stabilito che sarebbe stata divisa in quattro settori: il più esteso sarebbe stato quello sovietico, perché i russi l’avevano conquistata, situato ad est; gli americani avrebbero avuto la fetta sud, gli inglesi l’ovest e i francesi quella nord. Come è arcirisaputo i rapporti tra il blocco occidentale e l’Unione sovietica si deteriorano peso: Churchill disse che “una cortina di ferro era calata sull’Europa da Stettino a Trieste” e il giornalista americano Lippmann scrisse che se la guerra guerreggiata era terminata era ora in atto “una guerra fredda”. Nel 1947 entra in esecuzione il piano Marshall per aiutare l’Europa distrutta dalla guerra e viene proposto anche all’Urss che però lo rifiuta. Di fronte a questo atto ostile i partiti comunisti vengono esclusi dai governi dei Paesi occidentali. Per ritorsione e per mettere in difficoltà inglesi, americani e francesi che occupano metà Berlino e costringerli ad andarsene il 24 giugno 1948 Stalin ordina il blocco di tutte le comunicazioni viarie, ferroviarie e fluviali da e per Berlino (che, ripetiamo era tutta in territorio in zona sovietica) e il taglio delle forniture elettriche per strangolare la città. Così i cittadini tedeschi che non erano sotto l’amministrazione sovietica rimasero isolati ed assediati. Fu allora organizzato quel gigantesco ponte aereo alleato (il Luft Bruke) che durò 462 giorni (dal 26 giugno ’48 al 30 settembre ’49) per rifornire due milioni e mezzo di cittadini di cibo e beni di prima necessità. Due i corridoi aerei d’andata: da nord dagli aeroporti di Lubecca e Amburgo e da sud da Wiesbaden e Francoforte; uno quello di ritorno nella zona centrale britannica. Si legge che furono eseguiti più di 277 mila voli e trasportate 2,34 milioni di tonnellate di merci: alimentari, farmaceutiche, energetiche ed altre materie prime per aiutare i due milioni e mezzo di tedeschi in difficoltà. Si legge anche di un atterraggio e di un decollo dopo l’altro; furono trasportate 40 mila tonnellate di latte, 4.500 di verdure, 3 mila di carne e pesce, 1.500 di zucchero. Altre fonti però riportano cifre meno clamorose. Accaddero anche degli incidenti: 30 aerei andarono distrutti e 80 soccorritori persero la vita. Si commentò che in quei mesi i berlinesi educati al nazismo capirono chi era il vero nemico e cosa significasse la democrazia. Politicamente si venne a creare una situazione che dava fastidio allo stesso Stalin: così mentre a Washington gli occidentali sottoscrivevano il Patto Atlantico da Mosca la Tass il 24 aprile ’49 annunciò che il blocco di Berlino ovest sarebbe stato tolto. E raccontò ai suoi lettori che non era stato propriamente un blocco: le strade erano state chiuse per riparare alcuni ponti pericolanti e la ferrovia era stata sospesa per interdire il flusso del mercato nero. I berlinesi dell’ovest non avrebbero sofferto la fame se avessero portato le loro tessere annonarie a Berlino est. Ma i cittadini tedeschi sotto amministrazione alleata si guardarono bene dal farlo: avrebbe significato che volevano essere inglobati nella zona comunista da dove, appena potevano, molti scappavano. Infatti quando a Berlino est fu indetto il Congresso del popolo, dalle zone libere raccolsero solo qualche migliaio di voti dei cittadini della Berlino ovest. Finito il blocco i berlinesi assediati poterono sfamarsi, oltre ad una montagna di patate arrivò la frutta fresca (ne toccò mezzo chilo a testa), materie prime e carburante per far ripartire l’industria e materiale edile per ricostruire le case distrutte: i disoccupati erano circa 120 mila. Il nuovo sindaco di Berlino libera Ernst Reuter disse “Non vogliamo la libertà solo per noi ma elezioni libere per tutta la città per costituire un unico municipio”. E invitò i russi occupanti ad andarsene da dove erano venuti.

La rivolta di Berlino est Nel 1949 fu creata la Nato mentre Mosca organizzava il Comecon, il Consiglio di mutua assistenza economica per i Paesi ad essa sottoposti. Il 23 maggio gli alleati lasciano libera la Germania, i tre settori da loro amministrati si fondono, nasce la Repubblica federale tedesca (Rft) con capitale Bonn. I settori di  Berlino inglobati in territorio in mano russa partecipano alla nascita del suo nuovo Stato da lontano. Nello stesso mese, quasi a monito, Mosca rivela d’aver messo a punto la sua atomica al plutonio. Anche se fredda è davvero guerra e si teme che possa riscaldarsi improvvisamente: nel giugno ’50 scoppia il conflitto di Corea, l’anno dopo negli Stati Uniti esplode la red scare (la paura rossa) alimentata dal senatore repubblicano McCarthy per emarginare quanti si dichiaravano “di sinistra”. Ethel e Julius Rosenberg, simpatizzanti comunisti ed ebrei, vengono sottoposti a giudizio per tradimento. Il 6 marzo 1953 muore Stalin, tre mesi dopo a Berlino est esplode la rabbia degli operai berlinesi contro il regime che ha tolto loro ogni libertà. Appena pochi giorni prima il governo comunista aveva annunciato alcune misure meno restrittive ma i lavoratori, evidentemente, non gli prestarono fede: il 15 giugno’53 gruppi di lavoratori – soprattutto edili – organizzarono una manifestazione di protesta contro un provvedimento del ministero dell’industria che imponeva un aumento del 10% del tempo di lavoro a salario invariato. Girando per le strade gli scioperanti invitavano tutti ad uno sciopero generale. L’appello fu ascoltato: il giorno dopo il numero dei lavoratori in piazza era di 40 o 50 mila e la protesta da economica divenne politica. Chiedevano: libere elezioni in tutto il territorio tedesco sotto amministrazione di Mosca, la scarcerazione dei detenuti per motivi politici, le dimissioni del governo. La polizia non reagì. Mosca incolpò dei disordini l’incapacità dei dirigenti comunisti tedeschi. La folla fu eccitata e si fece violenta: rovesciarono auto ministeriali, assaltarono con le pietre le vetrine di propaganda sovietica, qualcuno si arrampicò sulla Porta di Brandeburgo strappò la bandiera rossa e la sostituì con quella nazionale tedesca. Quest’ultimo gesto fu proprio insopportabile per i dirigenti comunisti: erano stati proprio i “liberatori russi” ad issare la prima bandiera rossa su Berlino (sull’ex Parlamento distrutto) nel 1945 e la Porta di Brandeburgo era proprio al confine con la Berlino libera e dunque quel gesto era un atto di protesta che ora tutto il mondo poteva osservare. Era proprio questo l’effetto che i berlinesi in rivolta volevano ottenere. La gente entusiasta si unì ai lavoratori in rivolta: furono bersagliati da sassi il palazzo del governo, incendiate le garitte ai posti di blocco, tagliati i cavi elettrici e paralizzata la metropolitana, fu preso d’assalto l’ufficio del Politburo difeso con le armi dalla polizia, si tentò di dare alle fiamme le sede della direzione dell’industria. Alle due del pomeriggio il governo di Berlino est proclamò la legge marziale: proibito ogni assembramento, coprifuoco dalle 21 alle 5 del mattino, carri armati a blocco delle uscite verso Berlino ovest, forze armate che occupano le strade e, “per la prima volta, sparano su quella classe operaia di cui dicevano di voler difendere gli interessi”. I dimostranti cercano di reagire: attaccano i tanks con sassi e mattoni, fanno resistenza lungo la Stalinallee, lanciando tutto quello che trovano. A sera si contano 20 morti e circa 200 feriti (alcune fonti riferirono che i morti erano più di 50). Il giorno 18 torna la calma, la polizia comunica d’aver arrestato un agente provocatore, un istigatore alla ribellione mandato da Berlino Ovest, si chiama Willy Gottling. Mandato davanti alla corte marziale e giustiziato. Scherzi della sorte: il giorno dopo negli Usa gli americani manderanno sulla sedia elettrica i coniugi Rosemberg. Ultimo particolare: quando anni dopo Adenauer celebrò l’anniversario di quella rivolta, accanto alle bare dei caduti fece porre anche una bara vuota per ricordare Willy Gottling.

La guerra fredda si riscalda Il 12 agosto i tecnici russi in Kazakistan fanno esplodere la loro prima bomba ad idrogeno. In risposta alla Nato (cui aderisce anche la Repubblica federale tedesca) nel 1955 i Paesi dell’Est Europa aderiscono al Trattato politico e militare di Varsavia elaborato dal nuovo segretario del Pcus Nikita Krusciov che, l’anno dopo, il 25 febbraio, durante il XX congresso del partito, fa scoppiare un’altra bomba: la denuncia dei crimini di Stalin e l’inizio del processo di destalinizzazione.

Che simpaticone questo Kusciov che una volta all’assemblea dell’Onu protestò togliendosi una scarpa e battendola sul piano della scrivania. Anche senza Stalin la guerra fredda si riscalda di nuovo: la prima mossa pericolosa accadde in Ungheria dove il presidente Imbre Nagy il 1 novembre 1956 annunciò l’uscita del suo Paese dal Patto di Varsavia: tre giorni dopo l’armata rossa represse quella pacifica rivolta nel sangue. I Paesi occidentali non intervennero. Nagy fu giustiziato come traditore. Un anno dopo l’Urss riuscì a mandare in orbita il primo satellite artificiale della storia, lo Sputnik, e pochi mesi dopo anche il primo essere vivente, la cagnetta Laika. Nel 1958 gli americani risposero col loro primo satellite artificiale Explorer. Infine, il 13 settembre 1959, un atto di distensione: il vertice Eisenhower-Krusciov a Camp David ma subito l’anno dopo un altro lampo di crisi: quando la contraerea russa abbatté dal cielo di Sverdlovsk in Siberia un U-2, aereo spia americano. I contrasti continuarono: nel 1961 l’Urss spedì in orbita il primo essere umano, Jurij Gagarin (quello che poi in un’intervista disse di aver guardato bene ma di non aver proprio visto Dio su nel cielo). 1961, altro momento di attrito quando la Cia tentò e fallì lo sbarco nella Baia dei Porci, sull’isola di Cuba, di 1.500 esuli cubani per abbattere Fidel Castro. Il 5 maggio anche gli americani riuscirono a mandare in orbita un loro pilota, Alan Shepard. Il 25 luglio, John Kennedy, nuovo presidente Usa, annunciò pubblicamente che in caso di aggressione sovietica Berlino si sarebbe trasformata nella Stalingrado del mondo libero. Si torna dunque a parlare della ex capitale tedesca, il bubbone che duole, là dove la notte del 13 agosto il governo della Germania comunista comincia a costruire il muro. Il muro non è un’invenzione dei burocrati rossi della Germania est, guidata in quel periodo da Walter Ulbricht; la riscrittura dei confini europei dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale tracciata a tavolino dai burocrati dei Paesi vincitori aveva già dato il cattivo esempio. Ulbricht dapprima dichiarò di non aver alcuna intenzione di stendere uno sbarramento per separare definitivamente le due Berlino ma poi la notte del 13 agosto 1961 dette l’ordine di alzare la barriera, con qualsiasi mezzo: muri, palizzate, fossati, cortine di filo spinato. Questo Ulbricht era stato un operaio ebanista, sindacalista, membro del partito socialdemocratico; nel 1919 fu tra i fondatori del partito comunista tedesco. Costretto all’esilio dall’avvento di Hitler riparò a Mosca e con Whilhem Piek fondò il Comitato per la Germania libera. Rientrato in Germania nel 1945 con l’esercito sovietico diventò il primo segretario del partito socialista unificato (Sed) mentre Piek esercitò le funzioni di Presidente della repubblica. Il centro del potere politico della Germania comunista fu il castello di Schonhausen a Pankow, un quartiere settentrionale di Berlino.

All’improvviso ecco il muro Dunque di fronte all’insofferenza dei berlinesi della zona sovietica Ulbricht dette ordine di erigere il muro, e volle che fosse fatto subito. Fu un’azione improvvisa e ben poco pianificata: non tenne conto dove fosse l’entrata o l’uscita di una casa, da dove arrivassero i tubi dell’acqua o del gas, se c’era un giardino o un orto, se tutto un casamento dovesse essere abbattuto o tagliato in due. L’importante che fosse fatto al più presto. Furono i berlinesi stessi a battezzarlo Schandmaurer, “muro della vergogna”. Scrisse martedì 15 agosto 1961 il Corriere della Sera: “I comunisti rafforzano lo sbarramento di carri armati e filo spinato. Riusciremo a controllare la situazione a Berlino, dichiara Adenauer esortando la popolazione a non cedere al panico”. In cronaca si legge: fischi e sassate dei giovani berlinesi verso i gendarmi di Pankow. Dimostrazioni di protesta degli operai nella parte occidentale della città: sospesi per un quarto d’ora traffico e lavoro. Gli ambasciatori di Usa, Gran Bretagna e Francia a colloquio. A Bonn si riparla di sanzioni economiche. Circa 6 mila persone sono riuscite a fuggire nelle prime ore del blocco. Altri giornali scrissero di “Berlino chiusa in un profondo rancore”; una “terra di nessuno divide in due la città, creata per evitare il ripetersi di incidenti. Chiuso il passaggio di Porta di Brandeburgo ai cittadini di Berlino ovest”. Muro che divenne subito l’oggetto dell’insofferenza dei reclusi e presto obiettivo di aggiramenti e sfondamenti – 14 solo durante il primo anno – con grossi camion lanciati contro le sbarre dei varchi presidiati. Una notte il guidatore di un automezzo fu colpito da una raffica dei Vopos, i poliziotti: riuscì ad oltrepassare lo stesso il confine morendo subito dopo ma portando i suoi passeggeri nascosti nel cassone in zona ovest. Cominciato all’improvviso in varie zone della città il muro venne via via rafforzato e completato. Dopo 5 anni era lungo 25 chilometri: dopo aver chiuso la Berlino comunista da quella occidentale era continuato verso nord e verso sud attraverso la campagna, attraverso le città che aveva incontrato. Si è calcolato che sulla prima tratta di muro di 25 chilometri era stato steso tanto filo spinato da poterci cingere l’Equatore. Alla fine, dopo anni di lavoro, il muro dei muri risultò lungo 155 chilometri. La parte più moderna e meglio attrezzata (quella degli anni ’70) presentava lungo il confine una interminabile fila di pannelli di cemento armato spessi 10 cm. e alti 3-4 metri alla cui base c’era una larga piattaforma affiancata da un fossato dopo il quale veniva il tracciato illuminato per la ronda motorizzata delle guardie, chiamato striscia della morte perché l’illuminazione permetteva di vedere e acchiappare anche un topolino che l’attraversasse; c’era poi il corridoio per i cani alla catena, molto lunga: permetteva ai mastini di inseguire e bloccare chiunque su cui riuscissero ad affondare i denti; 32 le torri di avvistamento. Il tutto chiuso da un secondo muro, quello di retrovia, alto 2-3 metri sormontato da un reticolato elettricizzato e dotato di segnali ottici e acustici a contatto. Nei suoi 28 anni di vita i tentativi di oltrepassarlo, tra riusciti e no, furono 5 mila 75, di cui 574 quelli dei disertori. Qualche mese fa Letture, il settimanale del Corsera, ha ricordato che anche un italiano ha lasciato la pelle a quel muro, Benito Corghi, 38 anni, camionista di Rubiera (Re) che trasportava carni dalla Ddr alle Coop emiliane, allora rosse. La notte del 4 agosto 1976 questo lavoratore – tessera Pci in tasca – arriva alla barriera di Berlino est per rientrare in Italia; ha dimenticato il certificato veterinario delle carni che trasporta, non può passare. Decide di tornare indietro a piedi a prenderlo, non è lontano, pensa in un’ora di farcela, con la mano sinistra tiene stretto il borsello coi molti documenti che porta sempre con sé; una pattuglia di Vopos lo intercetta, gli intima l’alt e gli grida “Hande Hoch!” Lui alza solo il braccio libero, una raffica lo stende. Il settimanale aggiunge; “Si calcola che dal 1961 al 1989 nei pressi del Berliner Maurer (da loro chiamato “barriera di protezione antifascista” e dall’opinione pubblica “muro del sangue) abbiano perso la vita 600 persone”.

Le vie di fuga Vie di fuga nessuna, bisognava inventarsele. E quelli che ci riuscivano, una volta approdati a Berlino ovest se ne vantavano, le raccontavano ai giornalisti che le scrivevano in giro per il mondo e la polizia comunista correva subito ai ripari. La prima vittima Rudolf Urban, 47 anni; abitava un palazzo con l’entrata dalla parte comunista e le finestre dalla parte libera, pensò che andarsene dal quarto piano sarebbe stato uno scherzo ma uno dei nodi tra due lenzuola non resse e lui precipitò. Due giorni dopo ci provò una signora di 59 anni e dopo qualche settimana un’ottantenne: entrambe finite sul lastrico della libertà. Un ragazzo venne contrabbandato a Berlino ovest chiuso in una valigia, una ragazza legata sotto una vecchia Trabant, un’altra ragazza infilata nel serbatoio della benzina di un camion opportunamente modificato. Uno dei colpi più audaci fu quello di scavare un tunnel: a 12 metri di profondità, lungo 145 metri, largo 70 centimetri dove strisciarono con successo 57 cittadini dell’est. Si legge anche di tre giovani che arrangiarono alla bene meglio delle divise militari molto simili a quelle dei Vopos e passarono indisturbati dall’altra parte del confine; o di un tizio che riuscì con la sua macchina ad insinuarsi in una colonna di auto russe e una volta superato il confine sgommò rapidamente in altra direzione. Infatti il monumento in memoria dei militari russi caduti durante la battaglia per la capitolazione di Berlino era stato costruito in territorio che allora era fuori cortina e tutte le mattine si ripeteva il rito dell’alzabandiera fatto dai russi in territorio in mano agli americani; quel cittadino che di comunismo non ne voleva sapere aveva studiato attentamente la situazione, aveva capito che ci si poteva infilare nel corteo di auto, aveva tentato e c’era riuscito. Un sommozzatore evase per via subacquea, un gruppo di berlinesi acquistarono i biglietti per una gita sull’Havel (uno dei fiumi che faceva da confine), poi occuparono il natante, costrinsero i manovratori ad attraccare sulla sponda ovest e se andarono. Un ingegnere costruì un piccolo sommergibile, ci mise del tempo ma riuscì a traghettare tutta la famiglia dall’altra parte. Un altro gruppo, di  tre famiglie, scelse la libertà per mezzo di una mongolfiera per la quale lavorarono un paio d’anni. Altri approfittarono delle ferie: in vacanza al mare lungo le coste del Baltico si allontanavano con noncuranza verso ovest e appena si sentivano fuori osservazione cominciavano a correre: la Germania democratica li accoglieva a braccia aperte. Un gruppetto di ragazzi scelse la libertà accampandosi in un villaggio naturista; un giorno si allontanarono, sempre nudi per non destar sospetti, con un piccolo natante puntando al largo verso un mercantile finlandese che li ripescò, li rivestì e li lasciò andare per il loro destino. Enrico Altavilla, da cui abbiamo ripescato queste vecchie storie, ha scritto che nei pressi del posto di blocco dagli americani chiamato Check point Charlie è stato allestito un museo con tutti i cimeli adoperati per le fughe.

Il lentissimo sgretolarsi di quel muro Intanto la storia continuava a correre e anche il mondo sovietico, pur camminando molto lentamente, cominciò ad uscire dalla paralisi. Nel 1962 esplose la crisi di Cuba, si rasentò forse una guerra ma alla fine l’Urss smontò le basi missilistiche che stava istallando sull’isola. Anzi nell’aprile dell’anno dopo Washington e Mosca si collegarono col famoso “telefono rosso”: per parlarsi prima di premere i bottoni delle atomiche. A giugno Kennedy andò a Berlino per gridare che anche lui era un berlinese. Il mese dopo a Mosca fu firmata la messa al bando degli esperimenti nucleari non sotterranei. L’anno dopo – il 22 agosto – i comunisti italiani persero la loro bussola quando morì Togliatti; qualche mese più tardi i vertici di Mosca destituirono Kruscev sostituendolo con Breznev e dettero una frenata al processo di destalinizzazione. Nel ’67 Nicolae Ceausescu diventa presidente della Romania. Nel 1968 fiorì la “primavera di Praga” del governo di Alexander Dubcek, subito soffocata da Breznev in nome della “sovranità limitata”. E l’anno dopo in Cecoslovacchia arrivò al potere il filosovietico Gustav Husask accolto con fischi dalla gente mentre lo studente Jan Palach, in segno di insofferenza e protesta si dette fuoco davanti all’università. Nel luglio 1969 gli americani compiono la spedizione sulla luna rafforzando il proprio prestigio. Invece il mondo comunista traballa e la Germania di Willy Brand porge una mano ai compatrioti dell’est inaugurando una linea di ostpolitik. A loro volta gli americani giocano la carta dell’ammissione della Cina comunista all’Onu. Poi il presidente Nixon va in visita a Pechino e quindi si tiene un vertice Usa-Urss sugli armamenti strategici. Nel 1976 anche i comunisti italiani escono dalla riserva: Berlinguer parla di “vie nazionali al socialismo”, nonostante Breznev lo richiami ad essere “fedele ai principi dell’internazionalismo”. E per indicare al mondo quale sia la strada della pace l’Urss annuncia la produzione dei missili nucleari SS20. L’anno dopo, il 1977, in Cecoslovacchia viene pubblicata Charta ’77, il manifesto sottoscritto da 240 intellettuali che chiedono il rispetto dei diritti civili.1979: Usa e Urss firmano un trattato (il Salt 2) per la riduzione delle armi strategiche. Ma nel mese di settembre, quando con un colpo di Stato in Afghanistan Hafizullah Amin prende il potere, l’Urss considerandolo filoamericano invade il Paese. In segno di protesta il nuovo presidente americano Jimmy Carter boicotta il giochi olimpici di Mosca del 1980. Il 4 maggio muore il dissidente maresciallo Tito. Altro scossone per l’Urss quando in ottobre scioperano gli operai dei cantieri navali di Stettino, in Polonia, che organizzano il movimento sindacale di Solidarnosc guidato dal sindacalista Lech Walesa. Nel 1981 la politica degli Stati Uniti passa nelle mani del nuovo presidente Ronald Reagan che non si fida dell’Urss: la definisce “impero del male” e quindi promuove il riarmo. Come in risposta in Polonia riprende l’offensiva comunista col colpo di Stato di Wojciech Jaruzelski che mette fuorilegge Solidarnosc e detta la legge marziale. Ma l’anno dopo scompare anche Breznev cui succede Jurij Andropov (ex capo della famigerata polizia segreta Kgb): 1983, in settembre un jumbo sudcoreano esce dalla rotta e viene abbattuto da un caccia sovietico, muoiono 269 persone. Per protesta gli Stati Uniti vietano l’atterraggio a New York dell’aereo del ministro degli esteri russo Andrej Gromyko che doveva partecipare all’assemblea Onu. Per cui l’anno dopo Urss e Paesi comunisti boicottano le olimpiadi di Los Angeles. Nel 1985, si ripresenta la distensione: il nuovo segretario del partito comunista sovietico Michail Gorbaciov porta avanti una politica di riforme imperniate sulla ristrutturazione economica (perestrojka) e sulla trasparenza (glasnost); è una svolta che fa presa: infatti l’anno successivo Gorbaciov si incontra col presidente Reagan per discutere degli arsenali nucleari in Europa ma ci vorrà più di un anno perché i due Paesi riescano a porre una firma sotto un documento per lo smantellamento dei missili tattici nucleari in Europa. In visita a Berlino Reagan si affaccia dal muro e invita Gorbaciov: “Abbatti questo muro! Dimostra che state dalla parte della libertà!”. Saranno un trentamila ad applaudirlo, anche dall’altra parte lo ascoltano. Anche papa Woytila da un’altra sponda, preme contro questo muro: da Danzica dove incontra Solidarnosc e ringrazia Walesa. Poi ecco il 1989, l’anno in cui tutto il vecchio mondo si sfaldò.

La sera del nove novembre Durante la conferenza stampa trasmessa in diretta, Schabowsky “dà l’annuncio sensazionale del crollo definitivo del muro come se si trattasse di una cosa normale: da questo momento in poi tutti coloro che vorranno andare in occidente lo potranno fare attraverso ogni parte del confine tra Repubblica democratica tedesca e Repubblica federale”. Così riferì su la Repubblica Vanna Vannuccini. Precisando che “la notizia si diffonde in un attimo, l’esultanza incontenibile dei tedeschi orientali è preceduta solo da qualche attimo di incredulità. Gi impiegati al telefono dei centri stampa piangono e si abbracciano, gridando: ‘l’incubio è finito’. Un tassista dice: ‘se ci hanno preso in giro ancora una volta giuro che li ammazzo’. Al Checkpoint Charlie brindano con birra e vino. Kohl apprende la notizia a Varsavia dove è in visita ufficiale e dice di essere pronto ad incontrare anche subito le autorità di Berlino est. “Cade la Bastiglia dell’Est” titola sul Corriere della Sera Franco Venturini: “Il muro è diventato un’illusione ottica, l’inutile reminiscenza di un incubo che per quasi trent’anni ha marchiato di infamia la storia dell’Europa post bellica”. Scrive ancora: “Il muro è crollato senza picconi e senza ruspe e diventa da oggi una testimonianza che varrebbe la pena i tenere in piedi: un monumento al paleo comunismo travolta dal risveglio delle aspirazioni libertarie, una denuncia degli orrori stalinisti, una confessione di fallimento di quei regimi che hanno tenuto in ostaggio per decenni l’Europa del silenzio”. “Pochi hanno dormito ieri a Berlino quando si è sparsa la notizia che il muro era aperto”, riferì su La Stampa Tito Sansa. La sbarra che ostruiva il valico stradale di Invalidenstrasse venne alzata per l’ultima volta, non sarebbe più stata riabbassata. “Alle 23.36 al passaggio sulla Beinestrasse, quando la cancellata chiusa da  28 anni e tre mesi si è aperta, uno stridulo urlo di gioia si è levato da una fila di pedoni lunga centinaia di metri. La coda delle auto si perdeva a vista d’occhio”. Altri hanno raccontato che le scene di giubilo furono ancora più esplosive nei pressi ella porta di Brandeburgo dove i valichi furono abbattuti in poche ore lasciano passare una fiumana umana da est verso ovest e viceversa: la gente festeggiava con balli e baci, fiumi di spumante e di birra, brindavano anche le guardie di confine: finalmente i berlinesi potevano incontrarsi di nuovo, parlarsi e abbracciarsi. Ce le ricordiamo bene queste scene che quella sera ci arrivavano in diretta da Berlino cogliendoci di sorpresa. Sapemmo poi che solo nella prima settimana senza muro circa 5 milioni di tedeschi erano passati al di qua della vecchia cortina ormai piena di ruggine. Marco Gasparini nella sua Storia per immagini del vecchio muro ci spiegò che lo scricchiolio del crollo si era già avvertito un mese prima a Lipsia quando quasi 70 mila persone, a dispetto dell’ordine dato alla polizia di sparare a vista sui manifestanti, erano scese in piazza senza paura per una fiaccolata a sostegno del diritto alla libertà. Tutti i tentativi del Comitato politico comunista capeggiato da Egon Krenz (da poco succeduto ad Erich Honecker) di evitare quella protesta erano falliti. Le promesse di adeguarsi alla perestrojka non erano state credute. E a Berlino, il mattino seguente all’annuncio che i varchi verso ovest erano aperti, con precisione tedesca il ministero firmava le nuove disposizioni per la concessione dei visti di espatrio a chiunque li chiedesse. E annunciava la riapertura di una linea del metrò chiuso dal 1961 e l’istituzione di cinque nuove linee di autobus per evadere verso occidente. Anche George Bush saltò sulla seggiola quando apprese di quell’improvviso crollo (la sua Cia non ne aveva colto gli scricchiolii) e si chiese cosa sarebbe potuto succedere. Intanto a Berlino giovani e meno giovani si divertivano con quel nuovo gioco: saltare sul muro e a mani nude o col primo attrezzo trovato abbatterlo, sbriciolarlo e irriderlo.

Mezza Europa cambiò pelle Sì, non era solo quel muro che cedeva; dall’inizio del 1989 era succeduti parecchi fatti che avevano cambiato la geografia socio-politica dell’Europa. Il 25 marzo le elezioni a suffragio diretto per il Congresso del popolo dell’Urss avevano portato al potere un personaggio del tutto nuovo, Boris Eltsin cui erano andate quasi il 90 per cento delle preferenze. Il 17 aprile il sindacato-partito Solidarnosc polacco veniva riconosciuto ufficialmente: Walesa e il generale Jaruzelski si incontravano e alle elezioni del 18 giugno quel sindacato appoggiato ed aiutato anche da papa Wojtyla otteneva la maggioranza assoluta. Il 2 maggio la cortina di ferro tra Ungheria ed Austria andava in corto e permetteva ai tedeschi dell’est di iniziare l’esodo verso l’Europa libera senza passare da Berlino. Il 6 luglio Gorbaciov, succeduto ad Eltsin, fu invitato a parlare al Consiglio d’Europa del suo progetto “Casa comune europea”. Il 18 ottobre si era dimesso il vecchio segretario del partito comunista della Ddr. Avrebbe potuto resistere a tutti questi scossoni il muro che separava in due la Germania?  Appena due giorni prima del crollo Vadim Zagladin, consigliere del leader Gorbaciov, in una intervista a la Repubblica, aveva ammesso l’implosione del vecchio impero comunista sovietico: si trattava di “un processo normale, anzi necessario” che si sviluppava in modo diverso Paese per Paese; “Dunque per noi non esiste alcun problema se queste popolazioni vogliono costruire un modello di socialismo nuovo. Vogliamo però che restino amici ed alleati”. Alla domanda: ma non sta andando al macero il concetto stesso di comunismo, rispose: “Credo che quanto sta succedendo sia uno sviluppo di quel concetto. Che non è morto e vivrà, in quei Paesi e anche all’ovest”. Certo, il comportamento della Germania federale poteva nascondere “alcuni elementi di destabilizzazione. È nostro compito prevenirli”. Riguardo all’iniziativa del segretario del Pci, Achille Occhetto, che aveva avviato un terremoto nel partito comunista italiano Zagladin disse che il personaggio gli piaceva molto: “lo trovo coraggioso e antidogmatico; cerca di trovare qualcosa di nuovo per rendere il suo partito membro uguale della comunità democratica italiana, ma con un proprio ruolo. È uno sforzo molto importante, che merita successo”. Il consigliere i Gorbaciov salvò anche Togliatti: “Ha dato un grande apporto allo sviluppo del Pci, può anche aver commesso alcuni errori ma questo è un problema dei compagni italiani. Per noi è uno dei fondatori della Repubblica italiana ed ha fatto di tutto per evitare la guerra civile in Italia cercando l’unione di tutte le forze democratiche”.

Crollò anche il muro italiano Non è certo questo lo spazio per raccontare tutto il travaglio del partito comunista italiano in quel periodo alla fine degli anni ‘80. Il tema merita di essere approfondito come merita. Certo guardando indietro, agli anni della Resistenza del Pci al fascismo e al nazismo, al suo protagonismo dal 1945 in poi, al suo sforzo per non perdere la bussola nonostante le insofferenze interne e le pressioni esterne, nonostante la messa al bando, nonostante le barriere che si trovava a dover superare ogni volta cercava di compiere un passo, il comunismo italiano del 1989 ci appare stravolto, come preso alla sprovvista per un terremoto che gli toglieva ogni spazio. Ci limitiamo qui a rileggere alcuni passi di articolo di giornale scritto da Gianfranco Piazzesi sul Corriere del 15 novembre ’89, intitolato “Il Pci abbandona il comunismo”. I comunisti italiani non hanno nulla di cui vergognarsi o da rinnegare. Dunque nessuna rottura ma soltanto un “nuovo corso”, nel segno della “discontinuità”. Quest’ultima parola, aggiunge Piazzesi, non era molto gradita ai tesserati ma permetteva comunque di dare un volto nuovo al Pci che disconosceva il socialismo reale, si piazzava nel contesto occidentale e ne voleva essere un protagonista. Tra riformismo e massimalismo il partito sceglieva una nuova via, il “riformismo forte”. Ma al di là dei termini, l’articolo ci informava di una “fase costituente” per la “rifondazione” del partito. Non poteva far altro, commentava il giornalista: dopo quanto si stava facendo nei Paesi ex comunisti della ex oltrecortina era necessario cambiare stazionamento o restavi sotto il crollo del muro. Adesso nasceranno le grane: le possibili scissioni (come infatti avvenne) ma, soprattutto, una scelta chiara e risoluta tra riformismo e massimalismo e un convincete programma politico. Negli stessi giorni la Cgil aveva aperto a Firenze la propria Conferenza di organizzazione: fu un’occasione ghiotta per chiedere ai sindacalisti di sinistra che ne pensavano della svolta in atto nel Pci. La maggioranza sembrò propensa al cambio del nome del loro vecchio partito; molti, giustamente, volevano però sapere quale strada il nuovo partito avrebbe imbroccato. Contrario, decisamente, Fausto Bertinotti che poi uscì dal partito di Occhetto. Entusiasti i socialisti: “l’alba di una nuova fase della politica italiana”. A riguardare indietro, a quella fine degli anni novanta il partito di Togliatti, Longo e Berlinguer ci appare, oggi, proprio come un reperto archeologico. Ma glorioso, carico di storia, con progetti e idee che potrebbero essere rivitalizzati anche ora e che merita molto rispetto.

Valutazioni e proposte della Uil Ad esprimersi compiutamente sul crollo del muro più famoso dei nostri tempi, dopo i vari commenti attraverso le interviste e le battute dei Segretari generali dei sindacati, fu per la Uil il responsabile dell’Ufficio internazionale, Antonio Foccillo: “Passata l’euforia per la conquista della libertà, della democrazia, della scoperta del pluralismo, quanti e quali problemi si frapporranno al futuro felice (della Germania dell’est), visto che nell’Occidente tante sono state le lotte e le conquiste costate tanti sacrifici, prima di raggiungere un certo livello di benessere?”. Certo noi abbiamo il dovere di “aiutarli per favorire questo processo storico che ha scavalcato non solo la razionalità ma anche la fantapolitica”. Nessuno ci avrebbe scommesso sullo sgretolamento del muro e sulla rivoluzione innescata da Gorbaciov. “Oggi un brivido scorre lungo la schiena della vecchia Europa, non si sa ancora se di soddisfazione o di timore. Troppi ancora sono gli ostacoli per un’Europa unita”. Quindi il sindacalista ha accennato alle paure che già serpeggiavano qua e là: “Si riuscirà a far convivere questo anelito di democrazia e di libertà con le future difficoltà quando si dovranno scontare pesanti ulteriori sacrifici per far uscire questi Paesi dal pesante gap economico e sociale rispetto ai Paesi europei, mentre già si comincia a temere una probabile riunificazione delle due Germanie per i sistemi economici e per i futuri confini?” E quindi Foccillo ha indicato la linea per il sindacato: “Anche il sindacato italiano e quello europeo possono fare ancora tanto nei processi di rinnovamento degli stessi sindacati di questi Paesi che oggi si confrontano con il nuovo e con le nuove funzioni attraverso la cooperazione, le Joint Venture o la formazione. Scriveva Bakunin nel suo programma dell’Alleanza internazionale della Democrazia socialista: ‘…solo col pensiero l’uomo giunge alla coscienza della sua libertà, ma solo col lavoro la realizza’. Ed è questo il difficile: come fare, passata l’euforia del momento, per far sì che attraverso il lavoro di quegli uomini la libertà possa realizzarsi”. Giorgio Benvenuto esaminò la nuova situazione venutasi a creare in Europa qualche mese dopo, passate l’euforia e le polemiche del momento, nella relazione che tenne a Firenze il 26 aprile 1990 al Forum delle tre Organizzazioni sindacali italiane che aveva per tema, appunto, La transizione democratica in Europa centrale e orientale. Una relazione di una dozzina di pagine, densa di argomentazioni, dalla quale riportiamo alcuni passaggi: “La subitaneità dell’accaduto ha trovato l’Occidente impreparato a metabolizzare il fenomeno e a darne una valutazione strategica. Il vento del cambiamento a messo a nudo realtà che abbiamo il dovere di cogliere e con cui dobbiamo confrontarci. Realtà negative e positive, ma finalmente ‘realtà’”. Ora c’è un fervore nuovo in Europa, c’è la realtà della gente padrona delle sue scelte e sembra “perdersi nella notte dei tempi il ricordo delle persecuzioni religiose, degli imprigionamenti e dei processi farsa”. E qui il segretario della Uil ricordò i sette casi  più clamorosi di una “selvaggia repressione, tentativo di stravolgere lo spirito dei popoli oppressi”. Ora noi abbiamo il compito di proporre soluzioni: papa Wojtyla con “le comuni radici cristiane dell’Europa” e Gorbaciov con la “comune casa europea” hanno suggerito delle strade; “noi posiamo richiamarci ai valori liberali e libertari dell’Occidente per riportare l’Europa al centro del grande dibattito internazionale”. Ma dobbiamo farlo con prudenza poiché “abbiamo valori da proporre ma non modelli da esportare”; ci dobbiamo dunque avvicinare ai problemi dei Paesi europei di nuova democrazia cercando prima di tutto “un linguaggio comune che non è quello trionfante dei media e neppure quello di un consumismo senza regole, ma quello dell’integrazione”. “La Comunità europea è chiamata a ripensare i suoi progetti: mezz’altro continente – con immensi problemi di ricostruzione – è entrato nella nostra prospettiva e nel nostro futuro supernazionale. Dobbiamo dunque estendere ad est la nostra frontiera europea e non siamo minimante pronti a farlo e questa corsa verso l’est rischia di produrre effetti gravemente negativi”. Da qui l’urgente necessità di avviare un dialogo con le forze sociali e politiche che si vanno formando nelle democrazie allo stato nascente per non sacrificare all’urgenza dei problemi di governabilità “la limpidezza dei processi di trasformazione dei movimenti in partiti e sindacati realmente rappresentativi”. Ci sono ancora situazioni non chiare: la capacità dell’Urss a procedere speditamente sulla strada dell’effettiva liberalizzazione e il processo di unificazione delle due Germanie e del ruolo che la nuova entità nazionale vorrà svolgere in Europa e nel mondo. E una terza incognita: il passaggio della politica mondiale da un sistema bipolare ad un reale sistema multipolare. Insomma un grande impegno per la politica e per tutto il movimento sindacale. Come sindacato potremmo formulare due proposte: “la prima: definire una politica unitaria Cgil-Cisl-Uil di collaborazione organica con i sindacati dei Paesi di nuova democrazia finalizzata al traguardo della grande Europa; la seconda: un programma minimo di riforme strutturali per l’Europa al quale legare fin d’ora il complesso della nostra iniziativa sindacale. I problemi hanno dimensioni gigantesche, dovremo mettere insieme tutte le nostre forze per avviarli a soluzione. Dobbiamo avere il coraggio di lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Forse è il modo migliore per superarlo”.

Una sovranità senza più limiti A conclusione citeremo quanto ha affermato di recente Jacques Rupnick (ex collaboratore di Vaclav Havel, ora docente di scienze politiche a Parigi): in Polonia i generali comunisti avevano capito di non poter far affidamento sulla forza e quindi arrivarono ad un compromesso con Solidarnosc; in Ungheria i riformatori aprirono il confine con l’Austria senza immaginare che i vicini tedeschi ne avrebbero approfittato per fuggire in massa verso la Germania libera, creando la prima falla nel muro. L’ha raccontato in tono leggero Beppe Severgnini sul settimanale Sette. “Ma tutto questo non sarebbe potuto succedere senza l’accettazione tacita di Mosca ed è qui che Gorbaciov fece la differenza. Nel 1988 aveva abbandonato la dottrina Breznev della “sovranità limitata” (predicata fin dal ‘68 per giustificare l’intervento in Cecoslovacchia) e lasciato che ogni Paese del blocco sovietico agisse a modo suo. Nello stesso anno parlando all’Onu aveva dichiarato che “nessuno può rivendicare il monopolio sulla verità”, linea che fino allora aveva legittimato i regimi comunisti. Insomma il 1989 “è stato la destinazione finale di un lungo viaggio iniziato nel 1956 con la rivoluzione a Budapest, una riforma radicale a Praga e l’emergere del più ampio movimento sindacale nell’Europa postbellica con la nascita di Solidarnosc: finalmente dal socialismo dal volto umano si era arrivati al linguaggio più esplicito sui diritti umani.” A trent’anni da quello storico crollo in questi mesi tutti hanno parlato e scritto del muro e degli avvenimenti collegati alla sua erezione e al suo abbattimento con storie già conosciute e nuove, con diagrammi e statistiche. Da noi si è tenuta la settimana tedesca in Italia: l’ambasciatore tedesco Viktor Elbling presentandola ha dichiarato: “I muri che abbiamo, compresi quelli metaforici, devono cadere, devono abbassarsi e la conoscenza reciproca, la cultura sono strumenti fondamentali per farlo”. Quale la parola- simbolo per ricordare l’avvenimento del 1989? Secondo la metà degli italiani intervistati è “libertà”, per il 26% è “speranza”; altri hanno detto “pace”. E per la metà degli italiani quell’avvenimento è da “non dimenticare”: la caduta del vecchio muro è stato “un avvenimento importante per tutto il mondo”. Fra i molti commenti ci sembra interessante citarne un paio. Theo Waigel (ministro delle finanze di vari governi tra il 1989 e il 1998) ha riferito che nessuno si aspettava quanto accadde la sera del 9 novembre ’89 anche se molti pensavano che prima o poi dovesse succedere. L’annuncio di Schabowski fu davvero “il frutto di una serie di equivoci e cattiva comunicazione tra i vertici della Ddr” ma poi nella notte intervenne Gorbaciov con due telefonate: una al cancelliere della Repubblica federale Khol il quale lo assicurò che le truppe sovietiche di stanza in Germania non correvano alcun rischio ma lui da Mosca doveva scongiurare ogni intervento militare che avrebbe significato un massacro. L’altra telefonata squillò a casa del sindaco di Berlino ovest Willy Brandt e anche Brandt lo rassicurò che la sovranità dell’Urss sulla sua zona di Berlino non era in pericolo. Anche il cancelliere e il sindaco di Berlino pensavano che il tracollo della Ddr stesse maturando ma occorrevano ancora due o tre anni. E all’ovest non tutti lo desideravano: Mitterand e la signora Thatcher erano contrari alla riunificazione. Ne ha scritto Sergio Romano sul Corriere del 3 novembre scorso: la premier inglese perché “temeva mutamenti territoriali che avrebbero pregiudicato gli equilibri del secondo dopoguerra”, per cui aveva assicurato Gorbaciov che la Nato non avrebbe cercato di dissolvere il Patto di Varsavia. Da parte sua avrebbe proposto al presidente francese un’intesa simile a quella del 1904 fatta per contenere la crescente potenza del Reich. Anche Andreotti si diceva poco favorevole alla riunificazione delle due Germanie; diceva è meglio averne due o tre che una sola. Romano aggiunge che forse non avevano tutti i torti: l’apertura dell’Unione europea agli ex satelliti dell’Urss, fortemente voluta da Berlino, ha creato alcuni problemi: sono entrati nell’Ue Paesi che non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità e che hanno pregiudicato i rapporti tra la Nato e l’Urss. Forse la soluzione migliore sarebbe stata quella prospettata dai socialdemocratici che avevano suggerito una Confederazione tedesca composta da due Germanie. A conclusione citiamo una vignetta di Giannelli: davanti ai ruderi del muro uno Stalin imbufalito chiede a vari personaggi del tempo chi sia stato; compare un piccolo Occhetto, allora segretario del Pci, che risponde “Sono stato io”. Ma questo è un altro discorso di cui parleremo un’altra volta.

 

 

 

 

Note

 

Dizionario enciclopedico di storia, Rizzoli-Larousse, 2003

I percorsi della storia, De Agostini, 1977 Europeo, giugno 2009

Marco Gasparini, Il muro di Berlino, Ediz. Capricorno 2014

Per l’episodio di Benito Corghi, La Lettura, 14 luglio 2019

Enrico Altavilla, in Un secolo in prima pagina del Corriere della Sera, Il muro di Berlino…. Jacques Rupnik, in La Lettura, 21 luglio 1919

Beppe Severgnini e Theo Waigel in Sette, speciale muro, 3 novembre 2019

 

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