Alta formazione, ricerca ed innovazione tecnologica: i fattori imprescindibili per lo sviluppo sociale ed economico.
MAGGIO 2019
Sindacale
Alta formazione, ricerca ed innovazione tecnologica: i fattori imprescindibili per lo sviluppo sociale ed economico.
di   Federazione UilscuolaRua

 

 

Le prospettive di sviluppo di una società dipendono in larga misura dalla capacità di accrescere conoscenze scientifiche e di tradurle in innovazioni. Senza dimenticare che i mutamenti storici e sociali prendono forma in determinati contesti e in costanza di una molteplicità di fattori, è altrettanto evidente che le scoperte scientifiche e le loro applicazioni tecniche abbiano assunto un ruolo centrale nella evoluzione dell’umanità. Solo a titolo d’esempio, i microprocessori, la teoria della relatività, la penicillina, la fissione dell’atomo, la macchina a vapore, la stampa (ma tante altre potrebbero essere citate) hanno operato nette cesure, scandendo un “prima” ed un “dopo” nel flusso degli eventi, con ricadute di lungo termine sul piano economico, sociale, culturale e ideale. Ancor più che nel passato, questi temi assumono oggi una rilevanza più profonda e decisiva. Non è un caso che Stati (e le stesse multinazionali) non solo destinino risorse finanziarie rilevanti in R&S, ma facciano sforzi sempre più significativi per assicurarsi le competenze delle migliori menti, spesso reclutandoli in altri Paesi.
 
A livello nazionale e ancor più globale, la competitività richiede sforzi ed investimenti crescenti in R&S, senza i quali intere imprese, settori e persino aree territoriali rischiano di subire processi irreversibili di obsolescenza e disoccupazione. La stessa questione ambientale riveste profili ancor più complessi e per certi versi contraddittori. Da un lato, il progressivo depauperamento delle risorse naturali è stato finora determinato da un modello di sviluppo basato su tecnologia, produzione di beni su larga scala e consumo di massa. Dall’altro, è altrettanto evidente che solo grazie al progresso scientifico e tecnologico si possono creare le condizioni per avviare una riconversione dei processi produttivi, per utilizzare in modo efficiente le risorse ed i beni, per definire finalmente nuovi modelli di sviluppo di ridotto impatto ambientale. 
 
Questo in particolare è stato uno degli obiettivi perseguiti con maggiore decisione dalla Presidenza Obama, ma si può riscontrare tale impegno in diversi Paesi in tutto il globo, nel Nord Europa come nel Qatar, ricchissimo di petrolio. Resta inoltre aperto il problema del rapporto tra progresso, benessere e povertà. Destano certamente preoccupazione ed indignazione i processi di crescente concentrazione della ricchezza in poche mani, a cui fa riscontro ancora oggi la negazione di bisogni primari, di giustizia e della stessa libertà per larghissima parte della popolazione mondiale. Di fronte a questi fenomeni, emerge in modo dirompente l’esigenza di ripensare alla stessa idea di progresso e di arrivare a coniugarla con una fattiva redistribuzione della ricchezza. Per riprendere le parole di Albert Einstein, concordiamo sul fatto che “Non esistono grandi scoperte né reale progresso finché sulla terra esiste un bambino infelice”. Riprendendo il pensiero di Franklin Delano Roosevelt, “La prova del nostro progresso non é quella di accrescere la ricchezza di chi ha tanto, ma di dare abbastanza a chi a troppo poco”. 
 
Siamo lontani dal dare risposta a questi problemi: anzi, siamo in una condizione più grave, considerando le potenzialità delle attuali tecnologie in rapporto a quelle del XX secolo e l’incapacità di riconsiderare anche i meccanismi del mercato, che senza limiti e regole tendono drammaticamente a perpetrare antiche e nuove forme di sfruttamento. Il caso Italiano: una rimozione in atto. Su questi temi in Italia dibattito politico e culturale appare da tempo decisamente lacunoso ed episodico. Certo, in (quasi) tutti i programmi elettorali si trova un qualche riflessione ed impegno su cultura, ricerca, università e innovazione. Si constata però puntualmente che il tutto resti poi sulla carta (specie se si tratta di promesse di investimenti finanziari...), assumendo il valore di uno slogan riempitivo dell’offerta politica del momento. In diversi casi, si tratta peraltro di interventi sporadici e limitati, suscettibili di essere modificati ovvero eliminati del tutto con l’avvicendarsi degli Esecutivi. Senza alcuna verifica degli effetti e dei risultati ottenuti, per pura necessità (sempre elettorale) di operare discontinuità, cancellando quanto prima è stato fatto. 
 
Le uniche costanti, immutabili negli ultimi 10 anni, sono il taglio dei finanziamenti e lo spoil system: su questo tutti i Governi si son trovati d’accordo, per necessità, per convinzione o per entrambe le cose. Come sosteniamo da tempo, in Italia è in sostanza assente una comune prospettiva di medio e lungo periodo, capace di definire obiettivi di ampio respiro e politiche di rilancio in materia di alta formazione e ricerca. Andrebbe forse sottolineato con maggiore fermezza che la politica del “mordi e fuggi” è in generale una semplificazione improponibile di problemi complessi. Se questo è vero in tutti gli ambiti, lo è probabilmente in misura maggiore per cultura, ricerca, innovazione ed università, dove i concetti di “programmazione”, “interdisciplinarità” e la stessa variabile “tempo” costituiscono fattori costitutivi ed imprescindibili. In questa assenza, il fenomeno maggiormente trattato è quello della cosiddetta “fuga dei cervelli”. In coincidenza di ogni nuova scoperta scientifica (da ultima la fotografia del buco nero), l’opinione pubblica italiana viene a conoscenza del fatto che tale risultato è stato raggiunto grazie all’impegno di ricercatrici e ricercatori emigrati all’estero, ove hanno trovato quello che qui non sono riusciti a trovare: un lavoro stabile, ben remunerato, strutture all’avanguardia, prestigio e riconoscimento del lavoro svolto. Sul tema è addirittura nato uno specifico filone di denunce giornalistiche, ripreso più o meno puntualmente da tutte le testate, con tanto di interviste e dati.
 
Queste storie suscitano sdegno e rammarico, nella constatazione di quanto il nostro Paese, per incapacità ed arretratezza, continui a perdere risorse e competenze, a tutto vantaggio di altri Paesi, che grazie alle ricercatrici ed ai ricercatori formati in Italia divengono nostri forti competitors. Ma tutto finisce puntualmente lì, almeno fino alla prossima scoperta. Finisce in sdegno e rammarico, che alla lunga in assenza di reazioni e risposte, diventano pura lamentazione e vuota retorica. Si ha quindi l’impressione che sia in atto da tempo una sostanziale rimozione. Non solo non si approfondisce, sul piano politico e culturale, il nesso tra sviluppo, alta formazione, scienza ed innovazione, ma si creano di fatto le condizioni a che tale questioni siano residuali. Per certi versi, lo stesso risalto mediatico accordato ai no vax e ai “terrapiattisti” è in parte l’effetto questa rimozione. Emerge una incapacità complessiva, della politica e dello stesso corpo sociale, di analizzare ed affrontare compiutamente le problematiche della ricerca e dell’alta formazione. In una epoca di semplificazione e di spinte demagogiche, la complessità è quanto meno una perdita di tempo, non porta a conclusioni certe, insinua il dubbio e, sopratutto, non fa consenso. Resta però un dato, con il quale prima o poi dovremmo tornare a fare i conti: la società è complessa e plurale. Essa richiede risposte articolate nei diversi ambiti e nel tempo, in base all’esperienza. Per funzionare e specialmente per affrontare le crisi, una società ha bisogno di garantirsi un continuo processo di accumulazione di cultura, di conoscenza e di tecnica. Senza le quali, l’unico prevedibile esito è il declino.
 
Volume e composizione degli investimenti. Tale ragionamento implica innanzi tutto la necessità di prendere atto di alcuni limiti strutturali. Tra questi, il basso livello di investimenti finanziari costituisce un elemento di estrema debolezza del nostro Paese. Considerando i dati più recenti a disposizione, nel 2017 in media nei Paesi OCSE si è registrato un rapporto tra spesa complessiva per R&S e PIL pari al 2,37%1, con un andamento di sostanziale stabilità a partire dal 2012 (2,31%), certamente condizionato dalla lunga fase di crisi economica. Sempre secondo l’OCSE, nello stesso periodo la spesa in R&S dell’Italia passa dall’1,27% all’1,35%. Tale volume di investimenti risulta nel complesso decisamente inferiore a quello degli Stati Uniti (dal 2,68% del 2012, al 2,79% del 2017), del Giappone (dal 3,21% del 2012, al 3,20% del 2017), del Regno Unito (dall’1,59% del 2012, all’1,66% del 2017), della Germania (dal 2,87% del 2012, al 3,02% del 2017), della Francia (dal 2,23% del 2012, al 2,19% del 2017). Secondo queste stime, l’Italia si colloca al 12° posto tra i 28 Paesi dell’UE per investimenti in ricerca. Ciò che è veramente cambiato in Italia è la composizione della spesa, non certo il volume complessivo. Nel 2012 gli investimenti delle imprese costituivano il 39,7% della spesa complessiva in R&S, mentre nel 2016 tale dato sale al 52,1%. Andamento opposto si rileva invece per la spesa pubblica (dal 42,5% del 2012 al 35,2% della spesa complessiva nel 2016) e per altri investimenti nazionali (dal 3,7% al 2,9% della spesa complessiva), mentre non varia il volume di investimenti finanziati dall’estero (dal 9,5% del 2012 al 9,8% nel 2016). Nello stesso periodo una analoga crescita del ruolo degli investimenti privati si rileva solo nel Regno Unito. In altri Paesi invece la composizione non muta, specie laddove storicamente il ruolo del privato è molto significativo (Giappone, Stati Uniti, Germania e Francia). Sempre secondo l’OCSE, nel 2015 in Italia la spesa complessiva in alta formazione ammonta allo 0,9% del PIL (0,6% al netto di R&S), mentre la media dei Paesi OCSE è pari all’1,5% del PIL (1,1%). Di contro, si investono complessivamente in alta formazione quote del PIL pari al 2,6% negli Stati Uniti (2,3%), all’1,4% in Giappone (1,1%), all’1,9% nel Regno Unito (1,5%), all’1,2% in Germania (0,7% netti), all’1,5% della Francia (1,0%). Secondo l’ANVUR “Rispetto alla composizione della spesa, se la quota a carico del settore pubblico in Italia è oramai stabilmente inferiore alla media dei paesi OCSE, quella sostenuta direttamente dalle famiglie, pari al 27%, è più alta di oltre 5 punti percentuali”2. In sintesi, in queste condizioni non si compete a livello internazionale, si garantisce un accesso all’alta formazione solo ai più abbienti, si negano alla radice opportunità di crescita sociale, si inibiscono processi di redistribuzione del reddito.  
 
Governance e programmazione. Ma da sole le risorse finanziarie non bastano. Serve una programmazione ed una politica in ricerca ed alta formazione capaci di garantire una organicità degli interventi. Per gli Enti Pubblici di Ricerca nel tempo si è andato consolidando un modello separato tra Enti vigilati dal MIUR ed Enti vigilati da diversi Ministeri. Tale sistema sta mostrando la corda e costituisce una delle cause della impossibiità di definire un coordinamento complessivo tra politiche e governance. In questa situazione si sta progressivamente accentuando una divaricazione, con effetti negativi nei diversi Enti anche per ciò che concerne l’organizzazione delle attività, e la stessa gestione del personale. L’assenza di una governance ha inoltre determinato una separazione strutturale tra EPR e Università, con una scarsissima ed episodica implementazione di sinergie e collaborazioni su temi e linee di attività. Andrebbe incentivata invece una maggiore collaborazione, rendendo più agevole la condivisione di competenze e lo sviluppo delle professionalità, anche e soprattutto attraverso processi di sburocratizzazione e semplificazione.   Ancora, resta irrisolta la questione del rapporto tra pubblico e privato. Il tessuto imprenditoriale italiano è costituito in larga parte da piccole e medie imprese, che in assenza di incentivi hanno una oggettiva difficoltà ad investire strutturalmente in R&S, soprattutto in fasi di recessione e di bassa crescita dell’economia. I dati l’ISTAT3 relativi al 2016 mostrano che le imprese investono prevalentemente in sviluppo sperimentale (49,2%) e ricerca applicata (41,5%). Gli investimenti in ricerca di base avvengono invece in larga misura nelle Università (56,0%), nelle Istituzioni Pubbliche (25,6%) e nelle Istituzioni private non profit (33,8%). Bisogna quindi procedere ad una maggiore integrazione di soggetti e di filoni di attività, evitando di continuare a tagliare risorse. Al contempo, è necessario effettuare una valutazione puntuale degli effetti di pluriennali politiche di incentivi alle imprese, da ultimo quelli definiti da Industria 4.0, evidenziando quali siano state le ricadute in termini, di competitività, adeguamento delle infrastrutture materiali ed immateriali, sviluppo, occupazione e redistribuzione del reddito. Dal nostro punto di vista, ribadiamo la centralità della ricerca pubblica: da qui la nostra critica ad interventi atti a ridimensionarne il ruolo. Con la stessa convinzione, riteniamo che maggiori sforzi debbano essere attivati per rendere strutturale un rapporto sinergico tra EPR, Università ed imprese, nel rispetto dei ruoli e delle funzioni, promuovendo collaborazione e innovazione tecnologica per rendere sempre più competitivi il tessuto economico e la stessa Pubblica Amministrazione. L’assenza di coordinamento sulla progettazione, secondo l’ANVUR, è uno dei fattori di debolezza nello stesso utilizzo delle risorse della UE. Per tali ragioni, riteniamo ormai non più rinviabile il tema della costituzione di una agenzia della ricerca, con il compito di promuovere e di gestire una programmazione unitaria degli interventi e delle attività. Nel merito, alcune ipotesi interessanti erano state avanzate nello scorso anno dallo stesso Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Come in precedenti occasioni, tutto appare ora caduto nel dimenticatoio. 
 
Precarietà e valorizzazione del personale. Personale e crescita professionale sono un ulteriore e cronico punto di debolezza del nostro Paese. Si è già fatto riferimento tal senso al fenomeno della “fuga dei cervelli”. Gli stessi dati dell’OCSE confermano la presenza di criticità lampanti: nel 2017 sempre in Italia si contano complessivamente ricercatori impegnati full time nell’ordine di 5,4 ogni 1.000 occupati, contro gli 8,9 degli Stati Uniti (2016), i 10 del Giappone, i 9 del Regno Unito, i 9,3 della Germania, i 10,3 della Francia. Il precariato diffuso in Ricerca, Università ed AFAM è da tempo un elemento strutturale del sistema, creato dalla continua giustapposizione di una miriade di tipologie (contratti a tempo determinato, cococo, assegni di ricerca, borsisti, dottorati, etc.). Con cadenza decennale, soprattutto sull’impulso delle norme comunitarie e della serie interminabile di ricorsi, si è tentato di dare una risposta ad uno stato di precarietà diffusa, spesso fuori controllo e difficile da stimare. Dopo la Finanziaria per il 2007, il D.lgs 75/17 e la stessa Finanziaria per il 2018 hanno previsto norme e risorse specifiche per la stabilizzazione dei precari. Nulla però fa pensare che dopo questa fase il numero dei precari non torni di fatto a crescere, anche a causa dei limiti imposti in tema di turn over. Il processo di stabilizzazione in corso, con scadenza al 2020, sta avvenendo con notevoli conflitti e contraddizioni. In Enti come in particolare il CNR, l’ENEA, l’INAF, l’INVALSI e l’INAPP il Sindacato registra l’assenza di una adeguata interlocuzione, con i Vertici e con gli stessi Ministeri vigilanti, nonostante l’elaborazione di proposte sostenibili e capaci di concludere il processo di stabilizzazione dei precari in tempi rapidi. Anche nelle Università la situazione appare difficile e lacunosa. Va sottolineato che le stabilizzazioni ex D.lgs 75/17 riguardano esclusivamente il personale tecnico e amministrativo. Del resto l’Università italiana sconta un processo di progressiva precarizzazione senza fine. Sotto questo profilo, ha pesato e continua a pesare l’eliminazione della figura a tempo indeterminato introdotta dalla L. 240/10, previsione errata e controproducente su cui abbiamo chiesto da tempo modifiche sostanziali. Al contempo, cresce la numerosità di una serie di figure precarie che svolgono compiti di ricerca e di docenza: ricercatori a tempo determinato (3.637 unità, secondo i dati del MIUR al 2015), di borsisti (6.693 unità) e degli assegnisti (20.025 unità). Tanto per offrire un parametro, sempre nel 2015 si contano 12.124 ordinari (-16,6% rispetto al 2011), 19.081 associati (+20,1%) e 16.580 ricercatori di ruolo (-29,4%). Come sottolineato da alcuni commentari, siamo di fronte ad un fenomeno di esplosione del numero dei precari, di incertezza diffusa sul futuro, di accentramento di potere in mani di pochi all’interno degli Atenei. Con buona pace di riforme adottate per eliminare le baronie nelle Università. A nostro parere, è necessario intervenire definendo un sistema di regole certe e contrastando forme di sfruttamento nei confronti di giovani (e non più giovani) ricercatori negli Atenei. Bisognerebbe in particolare tornare a ragionare su ipotesi di ruolo unico per la docenza, con l’obiettivo finalmente di abbattere vetusti steccati, di valorizzare il lavoro di docenza e di ricerca dei precari (anche attraverso retribuzioni adeguate), di delineare soprattutto con chiarezza i percorsi di crescita professionale, eliminando coni d’ombra e indebite rendite di posizione e di potere. Va in particolare messa in luce la stretta connessione e sovrapposizione tra precarietà, blocco delle assunzioni e arresto delle dinamiche di carriera. In buona sostanza, tali interventi hanno determinato insieme una progressiva riduzione del personale nelle Istituzioni pubbliche della ricerca e dell’alta formazione, un decremento dei livelli retributivi ed una crescita dell’età media degli addetti. Tali limiti devono essere scardinati. Non solo quindi va contrastata la precarietà strutturale. È necessario riavviare reclutamento ordinario per Ricerca ed Alta Formazione pubbliche, favorendo un programma straordinario di assunzioni dei giovani. Ed ancora, bisogna distinguere le stabilizzazione dei precari e le nuove assunzioni dai processi dalle stesse progressioni di carriera, eliminando sovrapposizioni che hanno determinato, nei fatti, il blocco del ricambio generazionale, e delle dinamiche di carriera. Senza questi interventi, dovremmo rassegnarci a vedere confermati dati assolutamente preoccupanti sul numero di addetti in R&S, sulle scarse opportunità di lavoro in ricerca ed alta formazione, sul basso livello delle retribuzioni. 
 
Normative e Contratto: il ruolo del Sindacato. Queste sono le ragioni che ci portano a chiedere un più approfondito confronto tra Governo e parti sociali, nella comune consapevolezza che alta formazione, ricerca ed innovazione tecnologica costituiscono i fattori imprescindibili per lo sviluppo sociale ed economico del Paese. È urgente condividere interventi di modifica delle normative di riferimento e dei contratti nazionali, per garantire una maggiore autonomia delle Istituzioni. Nel solco già tracciato dall’ultimo CCNL Istruzione e Ricerca, resta l’obiettivo principale di ricondurre pienamente nell’alveo della contrattazione collettiva le materie inerenti il rapporto di lavoro, confermando il processo di delegificazione già avviato. Sulle tematiche della ricerca, dell’università e dell’alta formazione il Sindacato è chiamato a svolgere un ruolo centrale. Un significativo passo in avanti si è fatto con la sottoscrizione dell’Intesa dello scorso 24 aprile. I prossimi incontri convocati all’ARAN nel mese di maggio possono essere l’occasione per avviare un confronto sul rinnovo del CCNL 2021-2023, sulla modifica degli ordinamenti e della classificazione del personale di Ricerca, Università ed AFAM, con l’obiettivo di definire proposte e di creare finalmente i presupposti al rilancio di questi Settori.
 
1 Nel dettaglio, si rimanda al testo “Main Science and Technology Indicators, Volume 2018 Issue 2” dell’OCDE, consultabile al link
 
 
2 “Sintesi - Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2018”, pag. 35, consultabile al link
 
 
Nel dettaglio si rimanda report “Ricerca e Sviluppo in Italia. Anni 2016 – 2018” consultabile al link
 
 
 
 
 
 
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