Un ritratto di Gianni De Michelis: un ministro socialista
MAGGIO 2019
Il ritratto
Un ritratto di Gianni De Michelis: un ministro socialista
di   Francesco Gennaro

 

 

Si è spento un uomo straordinariamente intelligente, espressione di una Politica con la “P” maiuscola che purtroppo sembra appartenere ad una dimensione terribilmente lontana. Ho avuto il privilegio di conoscerlo da vicino nella cosiddetta Seconda Repubblica, durante il mio primo percorso di apprendimento valoriale, culturale e politico sotto la sua appassionata egida. Aveva una rara capacità di sintonizzazione proprio con i più giovani, che spronava a impegnarsi e a leggere dentro e dietro le questioni. Era un Socialista puro. Non era mai banale, intellettualmente provocatorio e di sopraffino acume. Si divertiva quando lo imitavo, l’autoironia la possiedono soltanto i giganti. Era anti-dogmatico, riformista a trazione integrale. Era metodista. Ascoltarlo qualche minuto valeva frequentare un master. Dietro il temperamento apparentemente aggressivo si celava un uomo infinitamente generoso. Ma soprattutto era preparatissimo. Ed un impareggiabile oratore. Andrebbe studiato da chi si accinge a intraprendere un determinato tipo di percorso formativo. In tale direzione, per esempio, mi permetto di suggerire ai più giovani di cercare sul sito di Radio Radicale (l’emittente storica che ha  registrato e raccontato l’Italia di ieri e di oggi, ma non più quella di domani a causa di una miopia inaudita unita ad analfabetismo democratico) la sofferta assemblea nazionale del PSI del 25-26 novembre del 1992 che si svolse a Roma. Si fronteggiavano due posizioni ormai difficilmente sintetizzabili che trovavano in Claudio Martelli ed in Gianni De Michelis i principali interpreti. Beh, tra colpi di fioretto e di sciabola in quel duello è sintetizzata tutta la capacità - immensa - dell’ancien regime.
 
Con la scomparsa di Gianni De Michelis tramonta un’era in cui la classe dirigente si formava davvero e con solidità e solo poi si selezionava. Lo dimostra anche la sua biografia: si è laureato in chimica industriale e ne è stato docente universitario a Padova e poi all’Università Cà Foscari di Venezia. Nelle più importanti biblioteche del mondo - la British Library, la biblioteca centrale di Pechino, quella del congresso a Washington, la Très Grande Bibliothèque di Mitterrand ed altre - ha carpito nozioni di demografia storica diventando uno dei più importanti esperti in vita. Era capace di leggere più libri in un solo viaggio continentale in aereo; e d’altronde è stato un suo pallino sin da giovane, giacchè nel 1965, per 400mila lire, acquistò un pacchetto di azioni della casa editrice Marsilio, di cui divenne presto Amministratore Delegato, prima di passare la mano al fratello Cesare che ne ha segnato la consacrazione; non si può, peraltro, non annotare quelle pile di fogli e libri alte mezzo metro sui tavoli e per terra, dappertutto, che invadevano il suo bilocale ai Parioli, dove per entrarvi occorreva avventurarsi in un vero e proprio slalom. Ricordo la composizione della sua rassegna stampa in epoca più recente: non mancavano riviste statunitensi, quotidiani tedeschi e spagnoli. Non dimenticherò le sue strigliate ricorrenti a diversi interlocutori amici “Se solo avessi letto Die Zeitung di ieri…” oppure “Ma ancora non l’hai guardato l’ultimo newsweek..?”. Che leggeva rigorosamente in lingua originale. Avrebbe parlato per ore per rispondere a qualsivoglia quesito; ad ogni domanda apriva un seminario di studi. Aveva una curiosità fanciullesca che necessitava sempre di stimoli nuovi ed era proiettato perennemente nel futuro. Il suo impegno politico iniziò già all’università: fu presto uno dei leader dell’UGI (Unione Goliardica Italiana), ne divenne presidente a poco più di vent’anni, per poi abbandonare a soli 24 anni. Risale al 1960 la sua prima tessera socialista, presa a Venezia nella sezione PSI di campo San Barnaba, “feudo” della sinistra. Intanto distribuiva volantini fuori dai cancelli delle fabbriche di Marghera, un’area che occupava quasi 40 mila lavoratori e faceva picchetti, anche a Mestre. Varcò il consiglio comunale della sua Venezia a soli 24 anni e ricoprì l’incarico di assessore con delega all’Urbanistica.
 
Nel 1969 entrò nella direzione socialista (ecco l’inizio dell’avanzata nel partito che poi lo condusse fino alla responsabilità nazionale dell’organizzazione ed alla presidenza del gruppo parlamentare), aderendo alla corrente legata a Riccardo Lombardi, da cui attinse l’impronta ragionante globalistica. Giunse il 1976,  l’anno del Midas (dal nome dell’hotel romano dove si tenne il celeberrimo Comitato centrale del PSI), ovvero l’emblema dello scacco matto e dell’ascesa dei vivaci quarantenni con un’ambizione non priva di ingredienti preminenti come la preparazione e l’ancoraggio al mutamento dei tempi e della società: conquistarono la guida del partito. Gianni De Michelis, insieme a Claudio Signorile, Fabrizio Cicchitto e ad altri esponenti legati alla sinistra interna risultarono decisivi per il new deal targato Craxi. Gianni e Bettino si ritrovarono ancora più vicini nel 1980, quando il primo abbandonò la sua storica “cordata” per sostenere il secondo nella vera e propria svolta craxiana. Sosteneva: ”Se Craxi era Garibaldi, io ero il suo Cavour”. E con lui fu sempre leale senza mai diventare servile. Diede benzina, dunque, alla grande mobilitazione culturale di Craxi per spezzare gli ultimi legami del Psi con il marxismo-leninismo e per creare una forza liberalsocialista. Il PSI era diventato un partito profondamente innovatore e anti-massimalista. Nel suo pantheon aveva rispolverato Proudhon, Bernstein, Russell, Rosselli, Gilas, Bobbio, affiancandoli a Turati e Matteotti. A completare lo snodo revisionistico arrivò il Garofano rosso disegnato dall’architetto Filippo Panseca, che rimpiazzava la falce ed il martello nel simbolo. Erano gli anni ruggenti dell’Italia ottimista, dell’avanzata degli yuppies, della Milano porta d’Europa, della moda e dell’impresa nostrana. Intanto il Nostro, esuberante e fuori dagli schemi, ruppe con la vecchia figura del grigio politico cui gli esponenti democristiani avevano abituato il Paese. Gaudente, voleva sfidare le benpensanterie e le ipocrisie di un’Italia dai rigurgiti bigotti e dei suoi numerosi colleghi che nascondevano doppie vite.
 
Fu molto criticato e pretestuosamente etichettato per questo suo lato, che invece licenziava con “assoluta normalità” da uomo separato, allora single, che si distraeva in discoteca ballando dopo essersi occupato per l’intera giornata di dossier di lavoro. Fu eletto alla Camera dei deputati ininterrottamente dal 1976 al 1994. Divenne il noto ed apprezzato Ministro che conosciamo. Dal 1980 al 1983 fu nominato Ministro per le Partecipazioni Statali, dal 1983 al 1987 Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. In questa fase della sua esperienza di uomo di governo lo si ricorda per il solido ed onesto dialogo con i lavoratori e con le organizzazioni sindacali, per la chiarezza nell’affrontare scelte anche impopolari. Erano numerose, infatti, le fabbriche che da Ministro lo videro varcare la soglia di ingresso per parlare a partecipatissime assemblee. Talvolta erano appuntamenti sofferti, in cui non usò giri di parole. Con coraggio indicava la strada dei sacrifici e degli investimenti per assicurare il futuro produttivo e occupazionale dell’azienda o dell’impianto, invocando l’abbandono della demagogia e della menzogna verso i lavoratori. Raccontava ai lavoratori gli accordi, i decreti, le scelte e gli scenari, anche quando di segno negativo. Non era sedotto dai facili applausi. Parlava a braccio, con estrema competenza. Gianni Agnelli lo presentava ad industriali esteri come “Quick”.
 
Anche Henry Kissinger lo ricordava con quell’appellativo. Poi venne il 14 febbraio 1984 Bettino Craxi su regia di De Michelis varò il il “decreto di San Valentino”, che tagliava 4 punti (poi diventati tre) di scala mobile, grazie al quale si battè l’inflazione a due cifre. Ripartì l’economia e l’occupazione. Era un’Italia che avendo avuto in corpo tre metastasi (terrorismo, inflazione e debito) doveva compiere una scelta razionale ed aggredì con successo le prime due. Quell’Italia passava dal 17° al 5° posto delle economie del mondo. Nel 1986 coniò la lungimirante espressione “giacimenti culturali” che fu architrave - attraverso l’art. 5 - della legge finanziaria di quell’anno, caratterizzando un piano volto ad aggredire la disoccupazione giovanile. Con quella definizione l’allora Ministro del Lavoro si riferiva al tesoro  costituito dal vastissimo deposito culturale, unico al mondo, posseduto dal nostro Paese e a cui si poteva e doveva assegnare centralità economica, sociale e produttiva. Come dovrebbe essere – se mi è consentito – ancora oggi Intanto, dal 1984 e sino al 1992 svolgeva il ruolo di Presidente della Lega Basket. Riuscì ad assegnare enorme popolarità alla pallacanestro italiana, come mai prima di allora. Fu anche tra i cofondatori dell’ULEB (Unione delle Leghe Europee di Basket). Ma è in politica internazionale che ha speso maggiori energie. Ancora oggi, ad ascoltare ambasciatori e diplomatici, lo si considera il miglior Ministro degli Esteri della storia repubblicana.
 
Lo si annovera tra i principali fondatori di Aspen Institute Italia, prima di diventarne Presidente dal 1984 al 1992; muore da Presidente onorario dell’Istituto di ricerca, studio e dialogo a forte caratterizzazione transatlantica. Ritornando alla Farnesina, ne è stato il titolare dal 1989 al 1992, dopo una parentesi da Vice Presidente del consiglio dei Ministri. Si distinse sui dossier più difficili nel periodo in cui il Muro di Berlino scricchiolava fino a crollare. Aveva previsto le più complesse transizioni globali. Nel 1985, in un summit a Tunisi, dichiarò: “Arriveranno sulle nostre coste a nuoto e nessuno potrà fermarli”.
 
Era la prima delle due macro previsioni sull’immigrazione, quando ancora l’emergenza era lontanissima; il secondo sussulto visionario in questo ambito accadde nel 1991, alla conferenza OCSE di Roma: “l’immigrazione sarà un problema di una gravità pari alla questione ambientale”. Affrontò la questione Europea, dei Balcani, del Medio Oriente e del Mediterraneo. Conosceva più di tutti la questione balcanica e adriatica; è infatti sua la creazione della “Quadrangolare”, una inedita forma di collaborazione tra Est ed Ovest, tra Austria, Italia, Jugoslavia ed Ungheria come embrione di più ampie intese volte al consolidamento di una rete di stabilizzazione di quell’area. Era il 1990, l’Italia aveva la presidenza della Comunità europea, De Michelis provò a convincere la Lady di Ferro ad ammorbidire il suo fermo veto al percorso del Trattato di Maastricht e al progetto di unificazione europea. Al vertice di “Roma 1” la Tatcher ne uscì rovinosamente sconfitta dinanzi alle ragioni italiane e alla capacità dell’allora nostro Ministro degli Esteri. E quel fallimento rappresentò per lei la ragione principale della sua fine politica. Firmò il trattato Maastricht che diede vita all’Unione Europea. Preparò il terreno per gli accordi di Oslo (1993) e per il processo di Barcellona (1995), con lo sguardo alla risoluzione nel Medio Oriente. Fu uno dei primi a comprendere la Cina e aveva chiara in testa la potenzialità dell’area mediterranea.  
 
 
Anche dopo il crollo della Prima Repubblica ha continuato ad occuparsi di politica internazionale, nelle vesti di consulente o consigliere istituzionale. Poi riuscì a tornare in Europa con le preferenze e con un progetto che mirava ad unire i Socialisti ovunque sparsi, senza la necessità di esprimere una collocazione ma con la propria autonomia incoraggiata dal proporzionale puro. Non ha mai smesso, in verità, durante tutto il corso della sua vita di coltivare il sogno di riunirli. Fu una campagna elettorale avvincente, consumata nel collegio dell’Italia meridionale. Era il 2004 e 34 mila persone scrissero il suo nome, nuovamente, sulla scheda elettorale. Io tra questi. Volò a Bruxelles e Strasburgo per 5 anni. Poi l’incarico all’IPALMO (Istituto per le relazioni tra i paesi dell’Africa, America Latina, Medio Oriente ed Estremo Oriente) dove lavorò ancora una volta generosamente ed incessantemente, con la sua carica prospettica e la sua visione.
Abbandonato l’assetto di un’Europa “carolingia” all’interno della quale il nostro Paese in qualche modo riusciva a partecipare attivamente al cuore dell’attività, De Michelis vedeva numerosi rischi a cominciare da quello che definì il “rattrappimento baltico della crescita”, ossia il rischio che la Germania si creasse una piccola Europa a sua immagine e somiglianza; e che l’Italia sarebbe divenuta conseguentemente geo-politicamente irrilevante. In questo fosco scenario ad epicentro tedesco la via d’uscita per un’Italia relegata
a condizione periferica era rappresentata dall’opportunità di un protagonismo progettuale sul Mediterraneo inteso in senso ampio, ovvero attraverso una grande apertura verso Sud e verso Est, il Maghreb, il Medio Oriente, il Golfo, la Russia. A suo parere, l’approccio verso quest’area doveva essere caratterizzato da scelte di integrazione, cooperazione, stabilità e pace e non di segno opposto;
a ben vedere, infatti, il tentativo di levare barriere e costruire fortezze è sempre vano anche nella storia, a partire dalle vicende della città di Troia fino ai nostri giorni: le mura alla fine cadono e le fortezze vengono prima o poi espugnate. Ed anche in relazione alla circolazione delle persone, per esempio, De Michelis predicava un radicale cambiamento nelle logiche e nelle modalità di governo del fenomeno dell’immigrazione: non il rombo dei cannoni ma la gestione di un nuovo mercato del lavoro. E rispetto alle relazioni internazionali, anche di fronte a dittature, sosteneva la via del dialogo, giacchè l’opzione della chiusura riteneva facesse solo il gioco dei peggiori. Non si riferiva soltanto all’Iran di Ahmadinejad ma ad un modo di interpretare il multilateralismo strategico e trattativista. In definiva, un gigante. Purtroppo, si sa, la storia viene sempre scritta dai vincitori o presunti tali, a propria immagine e convenienza. Ed allora lo si potrebbe ricordare non già come abilissimo uomo politico e di Stato, ma per il manuale “Dove andiamo a ballare stasera?”, ossia una guida alle discoteche più belle d’Italia scritta a quattro mani, insieme a Virginio Scotti; sì, proprio il noto Gerry, che nel PSI fece anche il parlamentare. 
 
O, ancora peggio, potrebbe vincere la peggior “character assassination”, con la distruzione di quella reputazione che passa attraverso la sola memoria dei giacobini processi di piazza e le vicissitudini giudiziarie che lo riguardarono. Non che mancarono responsabilità o errori, sia chiaro. La corruzione c’era. Era in linea con il resto d’Europa. L’Italia da Yalta uscì con uno statuto particolare, la divisione di fatto, anche se non geografica come la Germania. Russia e Stati Uniti avevano scisso il Belpaese tra rubli e dollari. I socialisti - che costituivano “il vaso di coccio tra vasi di ferro”- scelsero l’Alleanza atlantica, l’Occidente. I costi della politica erano fisiologicamente “drogati” dalla Guerra Fredda. Gianni sosteneva che la Cia coprì l’apertura anche del Conto Protezione per il finanziamento illecito al PSI. Il giorno dopo il disfacimento dell’impero comunista la Cia lascio frettolosamente l’Italia, in quanto questa non rivestiva più un ruolo geopolitico e, pertanto, non c’era più da garantire l’equilibrio di Yalta. Tesi, questa, avvalorata anche dalle dichiarazioni dell’ex ambasciatore Usa Reginald Bartholemew e dell’ex console Usa a Milano Peter Semler. Eravamo e siamo un Paese satellite. E dopo anni sono giunte anche le “scuse” dell’ex Pm d’assalto Francesco Saverio Borrelli, il quale dalle colonne dell’Espresso affermò candidamente che “non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Ne fa il paio l’intervista più recente a Gherardo Colombo sul Corriere, che archivia così, definitivamente, la sofferta querelle. Il metro della storia contro il righello della cronaca. Gianni asseriva spesso che “se i dirigenti della Seconda repubblica avessero letto almeno il Bignami della politica, avrebbero scoperto che la democrazia senza i partiti non si gestisce.  
 
 
L’oscillazione del pendolo sarà violenta: da una politica iperpersonalizzata bisognerà tornare al gioco di squadra, ai partiti”. In un periodo in cui valori preminenti vengono messi in discussione, in cui non si approfondisce più e non ci si confronta, in cui le istituzioni non svolgono più il loro ruolo di contenitori democratici della dialettica degli interessi, generali e particolari, c’è da augurarsi che si realizzi la sua ennesima profezia.
 
 
 
 
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