Le vittime italiane della “folle vendetta delle foibe”
MAGGIO 2020
Inserto
Le vittime italiane della “folle vendetta delle foibe”
di   Piero Nenci

 

“Folle vendetta”: lo dichiararono congiuntamente nel 2011 a Pola il Presidente della Croazia Ivo Josipovic e quello d’Italia Giorgio Napolitano definendo i massacri del secondo dopoguerra sul confine orientale “atroci crimini che non hanno giustificazione alcuna”. Quanti furono davvero gli infoibati: forse cinquemila, forse il doppio o il triplo e quanti i profughi dai territori istriani: circa 350 mila cacciati dalle loro case, dalle loro cose, dalla loro terra e molto mal accolti anche quando arrivarono in Italia. Il primo a deporre una corona su una foiba, a Basovizza nel 1975, il Presidente Leone. Gli sloveni protestarono e la bruciarono. Finalmente, dal 2005 anche queste vittime hanno un giorno consacrato alla loro memoria: il 10 febbraio è divenuto infatti il giorno del ricordo del loro martirio perché “le foibe furono una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono il dovuto rilievo”, come ha spiegato l’attuale Presidente Mattarella. E quest’anno anche la nostra rivista vuol essere presente. Per gridare: “mai più!” Per ricordare l’intricato contesto, i fatti salienti di quell’eccidio e di quella pulizia etnica e le loro cause. 

 

Un giorno di tarda primavera verso la metà degli anni ’50 m’ero trovato con degli amici triestini al Castello di Miramare. Dopo la visita alle sale del palazzo scendemmo nel parco. Io avevo un binocolo ed ero curioso di guardare oltre Trieste, verso le terre che avevamo dovuto cedere al compagno Tito; era una giornata ventosa, il cielo limpido, i miei amici mi indicavano a gesti, dicevano i nomi dei luoghi. Eravamo allegri e chiassosi come tutti gli studenti in vacanza. Al limite del parco, seduto su una banchina prospiciente il golfo c’era un uomo piuttosto anziano: immobile guardava lontano e piangeva. Ci allontanammo per non disturbarlo ma quando tornammo dalla sua parte lo vedemmo ancora in lacrime. Allora una ragazza non resistette: si accostò e gentilmente gli chiese se non stava bene, se avesse bisogno di qualcosa, se potevamo aiutarlo. Lui scosse il capo, si asciugò gli occhi con una mano e nel suo bel dialetto (che io qui riporto in modo inadeguato) rispose: “No, niente, vardavo el mio paes” e indicò col braccio un punto molto lontano. Disse poi: “Co xè vento e xe ciaro vegno qui e vardo là, lontan, Pisin. Là xè el me paes, la mia ciesa. Mi ero el sagrestan”. Vide il mio binocolo, glielo porsi. Gli tremavano le mani per la commozione. Diceva che vedeva proprio la chiesa, com’era vicina; il campanile, le case sulla piazza. Diceva di scorgere altre cose, che ora non ricordo, indicava la punta dopo la quale la costa la và indrio. La ragazza gli si era seduta vicino, gli faceva domande e lui non smetteva di raccontare tra un sorriso e nuovi singulti di pianto. Da quel momento anche noi cominciammo a capire quale tragedia erano state la guerra e il dopoguerra per quella frangia d’italiani di confine che avevano subito l’urto del dilagare del nazionalismo fascista prima, poi di quello slavo e comunista. È una storia lunga, spiacevole e intricata. Una storia che non va dimenticata.

 

Il nodo slavo

Trieste fu occupata dai romani nel 177 aC, Cesare ne fece una colonia, Augusto fece erigere il porto e lo fortificò. Nel medioevo e dopo l’anno mille la zona fu governata dai vescovi e sempre appetita da Venezia che nel 1382 la pose sotto protezione di Leopoldo III d’Asburgo. Nel 1700 Trieste conobbe un periodo di grande prosperità sotto l’imperatore Carlo VI che ne fece un porto franco, unico sbocco al mare dell’impero asburgico. Occupato da Napoleone nel 1805 tornò poi al dominio austriaco ed ebbe un nuovo periodo di sviluppo con rinnovati cantieri navali: nel 1913 passarono sulle sue banchine più di sei milioni di tonnellate di merci. Con la prima grande guerra Trieste fu un acceso focolaio di irredentismo e divenne l’obiettivo dell’esercito italiano che però poté arrivarci solo il 4 novembre del 1918 quando venne ricongiunta all’Italia. Anche gli slavi guardavano a questa città e al suo porto con grande interesse. Fin dall’800 era sorto un movimento per l’unità di tutti i popoli slavi del sud realizzabile solo dopo il crollo dell’impero austroungarico nel 1918 sotto la guida della Serbia che aveva partecipato alla guerra vittoriosa contro gli imperi centrali. Il 20 luglio 1917 a Corfù il Comitato jugoslavo in esilio aveva stilato una dichiarazione per affermare che serbi, croati e sloveni intendevano costituire una sola nazione a carattere monarchico, costituzionale e parlamentare. E il 23 novembre 1918, poche settimane dopo il cessate il fuoco, si aprì un congresso nazionale jugoslavo a Zagabria che dichiarò questa unione cui partecipava anche il Montenegro. Dal 1929 prese il nome ufficiale di Jugoslavia, primo re fu Pietro Karageorgevic, anziano e malato, per cui la reggenza passò a suo figlio Alessandro. Non fu facile per Alessandro I governare: il nuovo Stato comprendeva circa un 15% di tedeschi, ungheresi, romeni e albanesi. Inoltre, croati e sloveni non gradivano la politica accentratrice dei serbi. Problemi anche con l’Italia, soprattutto per la città di Fiume e della costa adriatica orientale; problemi con Ungheria e Bulgaria per i territori strappati loro col trattato di pace. Alessandro I cercò di risolverli imponendo un governo dittatoriale personale e tutti i popoli jugoslavi furono chiamati ad una dichiarazione di fedeltà. Il 9 ottobre 1934, durante una visita in Francia, Alessandro e un suo ministro furono assassinati da terroristi croati. Gli succedette un figlio minore sotto reggenza dello zio Paolo che tentò una politica più conciliante sia all’interno (la Croazia ottenne una certa autonomia) che coi Paesi limitrofi. Allo scoppiare della guerra del 1939 la Jugoslavia aderì al patto d’acciaio di Germania e Italia ma una congiura militare rovesciò il governo che passò nelle mani di Pietro II il quale aderì al campo opposto: subito la wehrmacht la invase smembrando lo Stato: Croazia indipendente, Slovenia e isole dalmate all’Italia, annessione alla Bulgaria di parte della Macedonia e all’Ungheria della Voivodina; la Serbia sotto il regime militare tedesco. La Croazia ebbe così campo libero: occupò la Bosnia dove la banda ustascia di Pavelic massacrò i serbi. Da qui nasce la resistenza serba guidata da Mihajlovic e dal comunista croato Josip Broz (Tito). Con l’arrivo dei sovietici Pietro II persa ogni possibilità di riprendere il potere si esiliò a Londra.

 

Le richieste italiane prima della grande guerra

Nel 1914, prima dell’inizio della guerra, il governo italiano d’allora si era proposto di chiedere all’Austria (Triplice Alleanza) per la sua partecipazione alla guerra, “come minimo”, il confine etnico fino al Quarnaro, quindi Trieste ed Istria comprese. Per Fiume, Zara ed altre città dalmate si chiedevano “garanzie per proteggere l’elemento italiano”. Naturalmente l’Austria era d’altro parere, non poteva assolutamente rinunciare al suo unico porto: cedere Trieste significava mettere in pericolo l’impero. Allora l’Italia avviò sottobanco trattative identiche con l’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) senza insistere per la città di Fiume che era l’unico porto per la Croazia. Quanto al trentino l’Italia pretendeva di poter arrivare al Brennero. Ma a Londra aveva presentato le sue richieste anche il Comitato per l’indipendenza delle terre slave: in caso di vittoria, pretendeva Gorizia, Gradisca, Trieste, l’Istria e tutta la Dalmazia. Era evidente che non si potevano accontentare entrambi i contendenti. Il 26 aprile 1915 finalmente l’Italia scelse di allearsi con l’Intesa, le venne promesso: tutto il Trentino fino al Brennero; Gorizia, Trieste, Gradisca, tutta l’Istria fino al Quarnaro, le isole Cherso e Lussino, la sovranità su Valona, sulle isole del Dodecaneso (già occupate dal 1911), alcune province in Anatolia, alcuni privilegi in Libia e, in caso di spartizione delle colonie tedesche in Africa, ampliamenti in Eritrea e Somalia. Inoltre, per incoraggiare il nostro Paese ad aderire all’Intesa la Gran Bretagna le fece un prestito di 50 milioni di lire. Quante belle promesse; Salvemini ammoniva che sarebbe stata molto più proficua per l’Italia la cooperazione col mondo slavo che si affaccia sull’Adriatico; se mantenuti, gli obiettivi di Londra “avrebbero costretto l’Italia nel dopoguerra ad una continua politica di repressione contro le popolazioni”. La conquista della Dalmazia ci “avrebbe esposti al danno internazionale di essere odiosi a tutto il mondo, come lo era stata l’Austria”. E senza contare che la guerra poteva anche essere persa. Nel ‘15, all’entrata in guerra, l’Italia nominò subito Salvatore Barzilai ministro dei territori che sarebbero stati liberati e l’anno dopo incaricò alcune commissioni di delineare le politiche da porre sul tavolo della pace. Nel ’18 fu fondata un’Associazione fra gli italiani irredenti adriatici nella quale alzarono la voce quanti si opponevano all’autodeterminazione delle nuove popolazioni e quanti non gradivano il concetto di tutela delle minoranze. Tra loro particolarmente oltranzisti Barzilai ma anche D’Annunzio e Bissolati che insistevano: “Tutta la Dalmazia deve essere nostra, tutte le sponde dell’Adriatico devono far parte dell’Italia”. Andavano cioè oltre quanto concordato a Londra e ventilavano anche una guerra civile, se necessario, per “difendere questa sacra guerra”. Nel luglio 1917 a rinfocolare le polemiche arrivarono le dichiarazioni del congresso di Corfù sull’unità di tutti gli slavi meridionali. Poi arrivarono la rivoluzione russa e la rotta di Caporetto. Allora l’Italia cercò contatti col Comitato slavo per tentare un accordo sulla spartizione dei nuovi territori ridiscutendo il patto di Londra ma non ebbe risposta e già questo fece presagire le difficoltà future. All’inizio del 1918 a Milano si costituì l’associazione Democrazia sociale irredenta (Dsi) composta da repubblicani, socialisti nazionali e democratici che proponeva di rinunciare alla Dalmazia ma non alle città di Fiume e Zara e cercava di discuterne coi socialisti slavi. Dsi va a congresso e lì il Presidente Orlando afferma che il governo italiano riconosce la legittimità delle aspirazioni unitarie degli slavi del sud. I democratici comunque tengono fermo il Patto di Londra “perché non ci sono alternative” mentre il Presidente americano Wilson (ormai anche le forze statunitensi erano entrate nel conflitto a fianco dell’Intesa) manifesta simpatia per l’indipendenza “di tutti i rami di razza slava”. La guerra continua e finalmente nell’agosto 1918 le truppe italiane riescono a prendere Gorizia, vittoria che ha un grande significato simbolico (dopo una decina di sanguinose battaglie) ma scarso valore militare. Nell’immaginario religioso- nazionalista però questo obiettivo diventa il mito della risurrezione della nuova Italia consacrata dal sangue dei caduti. Nel 1918 il blocco mitteleuropeo si sfalda: prima i bulgari, poi l’Austria e infine la Germania e l’Ungheria firmano la resa. Non solo: Carlo d’Asburgo proclama di garantire l’autonomia politica ai vari popoli dell’impero, autonomia fino all’indipendenza nazionale. Il 20 ottobre (e dunque prima della vittoria del 4 novembre) Slovenia, Croazia e Serbia proclamano l’indipendenza dei loro popoli. Insomma i patti del 1915 saltano: l’Italia si trova a rivendicare territori non più ad un nemico sconfitto e screditato ma a quasi alleati; e quando Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti riconoscono il Consiglio nazionale cecoslovacco come legittimo governo, il governo italiano deve accettare che l’indipendenza jugoslava è consona ai principi in base ai quali le forze dell’Intesa erano entrate nel conflitto, anche se si continuava a dire che il Patto di Londra era tutt’ora valido.

 

La lite al trattato di pace

Dunque, il 4 novembre festa grande: la guerra è finita, chiusi gli stabilimenti, maestranze in libertà, vacanza delle scuole. A Roma grande corteo fino al Quirinale, i negozi espongono cartelli “Chiuso per esultanza nazionale”. Il Corsera descrive: “Suonano a stormo le campane di San Carlo al Corso e del Gesù, sulle facciate di molte chiese sventola il tricolore, volteggiano gli aerei, dai dirigibili si lanciano fiori e manifestini inneggianti. Così in molte altre città. Il 20 novembre alla Camera il primo ministro Orlando esalta la liberazione di Trento e Trieste, annuncia che il trattato di pace ha già riconosciuto lo spostamento del confine del trentino fino al Brennero: ora l’Italia ha 200 mila cittadini in più. Niente di fatto invece per il confine orientale. Il pool di esperti americani suggerisce: all’Italia quelle parti del retroterra slavo dell’Istria e della valle dell’Isonzo ritenute essenziali alla vitalità economica dei centri urbani; alla Jugoslavia l’Istria e tutta la costa dalmata, Fiume e l’arcipelago rivendicato dall’Italia. Gli jugoslavi chiedono anche Trieste e Gorizia. Fiume insisteva per essere annessa all’Italia. Insomma, la situazione si complica. Intanto il Paese comincia a ribollire: circola un documento secondo cui a Londra ci sarebbero state promesse anche Fiume e Spalato, i nazionalisti avviano una campagna a sostegno di “tutta la Dalmazia più Fiume” e ipotizzano una “guerra di razza”. Durante un comizio a Milano Bissolati fu fischiato perché invitava l’Italia a rinunciare a tutte le rivendicazioni basate sulla logica della potenza. Il 19 gennaio 1919 il Corsera pubblicò una lettera di D’Annunzio; diceva ai dalmati: “Abbiamo combattuto per una più grande Italia. Vogliamo l’Italia più grande”, questa è la “pace romana”. Si scagliava contro gli alleati che non mantenevano la parola e coniava l’immagine della “vittoria mutilata”. Intanto si avvia a Parigi la Conferenza di pace. Il primo ministro Orlando e il suo ministro degli esteri Sonnino chiedono il rispetto del Trattato di Londra e l’annessione di Fiume, il Presidente Wilson insiste per la linea di demarcazione etnica. Per protesta il 24 aprile la delegazione italiana abbandona il tavolo della trattativa sperando con questo gesto di ottenere un cambio di rotta ma Francia e Gran Bretagna minacciano di far cadere il Patto di Londra, per cui la delegazione italiana all’inizio di maggio è costretta a ritornare sui propri passi. Intanto è stata quantificata la riparazione di guerra da parte della Germania e non ci tocca niente. Anche questo aggrava la situazione interna: è una disfatta, una umiliazione, gli alleati ci hanno rubato la vittoria. Per protesta Fiume si imbandiera di tricolori e grida di voler essere italiana. A giugno Wilson fa conoscere un memorandum “concordato con gli alleati” che non tiene in nessun conto il Patto di Londra poiché tutto il contesto europeo è mutato rispetto al 1915. 1- Si crea un nuovo Stato (a maggioranza slovena e croata) e dopo cinque anni un referendum popolare stabilirà se passerà all’Italia o alla Jugoslavia; 2- Per Fiume si adotta una soluzione come per Danzica; 3- Zara sarà città libera e avrà una rappresentanza italiana nelle relazioni estere. Il governo italiano non lo accetta e il 19 giugno si dimette. Il nuovo governo Nitti (Tittoni agli esteri) tenta un’altra strada, avanza nuove soluzioni con alcune concessioni rispetto alla linea Orlando-Sonnino che è inutile scrivere in dettaglio senza l’ausilio di una carta topografica. Il delegato Usa Polk l’annacqua e la presenta agli alleati come “ultima istanza”. Ma non è l’ultima perché nei mesi successivi si avanzano nuove proposte e nuovi ritocchi.

 

L’occupazione italiana

Intanto, mentre si continua a discutere, tracciare e ritracciare la linea di confine tra Italia e Jugoslavia fin dal 3 novembre dell’anno prima l’esercito italiano aveva occupato tutto il territorio previsto dal Trattato di Londra istaurando un Governatorato militare. Grande entusiasmo della gente, qualche tensione con l’esercito serbo. Nel goriziano, a Trieste e in Dalmazia dove si erano costituiti Comitati slavi (che vennero subito proibiti) le ostilità non mancarono, ci furono rappresaglie e boicottaggi. Con la fuga degli austriaci le carceri erano state aperte, non c’era più controllo dell’ordine pubblico, furti (anche di armi) e atti di delinquenza erano frequenti. Il Governatorato aveva molto da fare per gli approvvigionamenti, il rimpatrio dei militari, il ritorno dei prigionieri. Per gli affari civili il generale Diaz aveva nominato un Segretariato generale che, tra l’altro, doveva fronteggiare l’ostilità del clero sloveno e croato che non voleva passare sotto i cattolici e svolgeva una capillare opera di propaganda anti italiana, tanto che il vescovo di Veglia Anton Mahnic venne internato. Inoltre, le truppe italiane non erano molto gradite; quando a Monfalcone, a Trieste, a Pola l’esercito organizzò feste e balli per fraternizzare, gli operai le disertarono; la popolazione non gradiva l’uso della lingua italiana e neppure l’insegnamento della religione nelle scuole. Il giornale di Lubiana Domivina pubblicò le liste nere degli sloveni disposti a venire a patti con gli italiani. Molti slavi vennero internati in Italia e Bissolati non mancò di protestare contro questo atto, “seme di rancori per il futuro”. Il socialista triestino Aldo Oberdorfer riferì: “Se n’è andata parte del proletariato sloveno del porto e ferrovie, e parte della borghesia intellettuale; sono partiti pieni di odio che noi dobbiamo estinguere in loro e in quelli che sono rimasti, con una politica inflessibile nell’esigere ma giusta nel concedere fino allo scrupolo”. Nell’agosto 1919 cessò il Governatorato militare e subentrò quello civile. Intanto cinque mesi prima a Trieste era sorto il primo Fascio che non aveva perso tempo: il tre agosto assaltò la sede del partito socialista; l’occasione fu data da un diverbio tra l’assistente di una colonia estiva di bambini organizzata dal Psi e un carabiniere, forse per motivi di viabilità. Buona parte del direttivo Psi venne arrestato per cui il giorno dopo scattò la protesta con uno sciopero generale. La risposta del Blocco nazionale (ex combattenti, volontari, arditi) è già pronto per l’azione diretta e violenta in chiave antisocialista e antislava. In quel clima di incertezza e confusione nella Venezia Giulia era sorta “una nebulosa di ultrà nazionalisti e rivoluzionari caratterizzata da confuse aspirazioni sociali”. Furono organizzate le squadre Sursum corda (o Comitato antibolscevico) appoggiate, e forse anche armate, dal Governatore mentre il Psi si spostava verso aspirazioni di tipo bolscevico. La parte slovena della città che non voleva passare sotto l’Italia confluiva nel movimento operaio allontanandosi dal partito socialista. Il Primo Maggio 1920, a Pola ci furono manifestazioni violente e sulla strada rimasero quattro vittime. In questa complessa situazione si radica il fascismo che ebbe il suo battesimo a Trieste il 13 luglio con l’incendio del Balkan.

 

L’assalto al Balkan

L’11 luglio, genetliaco di re Pietro di Jugoslavia, a Spalato grande comizio di tono anti italiano; nel porto è all’ancora la nave Puglia e lì vanno due giovani innalzando una bandiera slava; i marinai li aggrediscono e li arrestano, segue una trattativa tra il comandante della nave e il capo della polizia locale. Nella confusione viene lanciata una bomba, restano a terra il comandante e un marinaio, un altro è ferito. Due giorni dopo la notizia giunge a Trieste, subito i nazionalisti indicono un’assemblea pubblica in piazza dell’Unità dove convengono almeno duemila persone. L’avvocato Francesco Giunta arringa la folla, la invita a far scorrere il sangue per vendicare la morte del capitano del Puglia. La folla eccitata si dirige verso il Balkan, un grande edificio costruito nel 1905 simbolo della presenza slava in città: sede delle più importanti associazioni politiche e culturali e di studi professionali. Da un balcone si getta una bomba e si spara sugli assalitori che reagiscono incendiando il palazzo; si dà fuoco anche ad altre istituzioni e abitazioni slave. Da allora assalti di questo genere contro ciò che è slavo (ma anche socialista) si moltiplicano e l’autorità civile si dimostra sempre più subalterna alle azioni squadriste. Il giorno dopo fu incendiata la Casa del popolo di Pola e a Pisino la sede di un giornale sloveno cattolico. I fascisti spararono dentro una chiesa di Trieste contro un prete che recitava preghiere in lingua slovena e imposero che al passaggio delle loro squadracce ci si dovesse togliere il cappello (come nella antica vicenda di Guglielmo Tell!); un prete di Dignano che non lo fece fu preso a schiaffi davanti a tutti. È documentato che ufficiali e militari italiani in divisa prendevano parte alle imprese delle squadre del fascio. Venne distrutta la sede del giornale socialista Il Lavoratore e poi gli assalti si moltiplicarono. È stato calcolato che tra il ’20 e il ’21 nella Venezia Giulia vennero incendiati 134 edifici, di cui 100 circoli culturali, due case del popolo, 21 Camere del lavoro, tre cooperative. Le violenze si moltiplicarono durante le elezioni politiche del maggio 1921 e per reazione si aumentarono anche le adesioni al comunismo: Trieste, con Torino, fu la città col maggior numero di adesioni al Pci dopo la scissione di Livorno. In questo contesto così difficile, dove risaltava sempre più l’assenza dello Stato, si inserì l’avventura dei legionari di D’Annunzio.

 

L’avventura di Fiume

Il nuovo atto di questa tragica storia fu inscenato a Fiume dove c’erano stati scontri fra le truppe italiane e quelle francesi, per lo più di colore. Ci furono dei morti e l’Italia venne invitata a sostituire i suoi reparti. La popolazione non voleva rimanere nelle mani dei croati e accolse con entusiasmo le nuove truppe: fu questa la scintilla che rimise in movimento D’Annunzio nel ruolo di ammazzasette perché ormai Fiume era diventata il simbolo delle rivendicazioni sull’Adriatico. Il 12 maggio 1919 Mussolini s’era presentato nelle piazze di quella città, aveva tenuto un infuocato discorso e già il giorno dopo fu fatto un appello per una Legione fiumana. Dopo alcune settimane, arrivò D’Annunzio, che poteva contare sull’appoggio del Duca d’Aosta e di noti generali che avevano combattuto la grande guerra. I legionari si radunarono a Ronchi ed intrapresero la marcia verso Fiume. Centinaia di giovani triestini si unirono all’impresa ma li seguirono anche avventurieri e reduci che non riuscivano ad adattarsi alla pace; s’era creato in quei giorni uno stato d’animo di parossismo collettivo: la guerra poteva riprendere e rinnovare l’Italia. Il governo, pur sostenendo l’italianità di quella città, si mostrò intransigente ma Badoglio, responsabile delle forze armate, comunicava a Roma di non poter garantire la fedeltà dell’esercito. Infatti, a metà novembre un contingente militare guidato da D’Annunzio sbarcava a Zara, ad essi aderivano le truppe presenti in città e il loro comandante. Era già un tentativo di colpo di Stato? E proprio in quei giorni in Italia si svolsero le elezioni politiche (le prime col sistema proporzionale): i socialisti ebbero 156 seggi e il Partito popolare, alle urne per la prima volta, 100; si sfaldava il blocco liberale che ne perdeva 141. Ma lassù, in quel conteso lembo d’Italia, risaltavano soprattutto la grande discrezionalità dell’elemento militare e lo svuotamento delle istituzioni. Naturalmente la situazione di Fiume non poteva durare, era chiaro: D’Annunzio annunciò che era possibile trovare un compromesso col governo di Roma ma intanto i diecimila volontari che lo avevano seguito cominciavano a capire che quell’avventura non aveva sbocco e cominciarono ad andarsene. Il loro Comandante tentò d’avere l’appoggio dei socialisti di Trieste che non lo dettero e tentò approcci coi militari e coi politici nazionalisti ma la situazione era e restava illegale, solo i legionari più irriducibili ormai lo sostenevano. Nel settembre del ’20 D’Annunzio fece scrivere la “Carta del Quarnaro”, la costituzione di quella nuova comunità autonoma, caratterizzata da interessanti elementi di carattere sociale (la stese De Ambris). Il capo del governo Nitti, che cercava in tutti i modi una via d’uscita per Fiume, ne discusse con gli inglesi offrendo anche nuove concessioni; ne discusse con Ante Trumbic che da prima della guerra era stato incaricato di riorganizzare le terre slave, furono disegnate e ridisegnate le carte topografiche. Nel frattempo, gli Usa avevano lasciato Versailles ed ora erano occupati nelle elezioni presidenziali, così la linea Wilson, particolarmente favorevole agli slavi diventò meno cogente. In occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia del 1915 gli studenti romani organizzarono una grande manifestazione, da Fiume e Zara arrivarono gli irredentisti ad incendiare l’evento, il governo ordinò di arrestarli e la misura fu eseguita in modo esagerato (furono arrestati anche donne e bambini;) gli scontri tra polizia e manifestanti furono violente e ci furono morti da entrambe le parti. Come se non bastasse il mese successivo il governo fu messo in minoranza per un decreto che stabiliva il rincaro del pane e fu crisi. Il governo passò a Giolitti e la questione fiumana al ministro Carlo Sforza. Il quale riprese i negoziati ed offrì nuove concessioni: la Conferenza definitiva si tenne a Rapallo e il trattato che ne uscì fu ratificato dalla Jugoslavia il 22 novembre 1920 dall’Italia il febbraio successivo. In Istria il confine fu fissato al monte Nevoso: all’Italia le isole di Lussino, Cherso, Pelagosa e Lagosta. Gli italiani della Dalmazia potevano optare per la cittadinanza italiana pur restando dove vivevano, Fiume diventava città libera. Circa 400 mila sloveni e più di 100 mila croati venivano a trovarsi sotto il governo italiano. I più scontenti furono gli sloveni poiché per altri aggiustamenti territoriali con l’Austria e la Serbia persero circa un terzo della popolazione.

 

“Qui si parla italiano”

Ci siamo dilungati nel raccontare quanto era succeduto al confine orientale dopo la prima grande guerra per evidenziare quanto fosse complicata la situazione fin d’allora. In questo contesto delicato come un cristallo si impose l’avventura di D’Annunzio che alla testa di un piccolo esercito di volontari occupò militarmente Fiume facendone uno Stato libero dal quale fu cacciato dall’esercito regolare guidato dal generale Caviglia (Natale di sangue) per far rispettare il Trattato di Rapallo del novembre 1920. Sette anni dopo il regime fascista coi Patti di Roma sanava a modo suo situazione: Pola, Fiume e Zara passavano all’Italia raggiungendo finalmente quei confini “naturali” sognati durante il Risorgimento. Ai socialisti che difendevano le minoranze slave veniva risposto che alle minoranze erano state assicurate la libertà di lingua e di cultura. Dai territori italianizzati cominciò un vasto esodo di borghesi e burocrati della vecchia Austria, seguiti dalla borghesia slava. Il porto di Trieste perse d’importanza, i capitali stranieri emigrarono, i vuoti furono colmati da migliaia di famiglie del sud affamate di terre, ora che gli Stati Uniti frenavano l’immigrazione. Intanto erano proliferati lo stile e la cultura fascista, gli incidenti e gli scontri furono numerosi e neanche il Pnf fu in grado di normalizzare la situazione. Il fascismo agì su due piani diversi: molto attivo su quello economico (bonifiche, grandi opere pubbliche, lavoro ecc.), di riorganizzazione sociale su quello politico: riforma scolastica e imposizione della lingua italiana, divieto dello slavo anche nell’insegnamento religioso, soppressione di tutti i periodici slavi, riconversione della toponomastica, introduzione della pena di morte (ne furono eseguite una decina), stretta di vite contro ogni tipo di nazionalismo non italiano. Furono italianizzati i cognomi delle famiglie, dei paesi e delle strade, fu vietato il folclore slavo. E come nelle osterie italiane erano stati affissi gli avvisi: “Qui non si fa politica. Qui non si bestemmia. Qui non si sputa per terra”, nei territori giuliani da italianizzare si affiggeva: “Qui si parla italiano”. In sostanza un trattamento antirazzista e intollerante che generò insofferenza, ribellione e odio. Al quale corrispose un trattamento altrettanto odioso degli slavi verso gli italiani rimasti nei loro territori. Il fascismo non nascondeva di voler estendere la propria influenza su tutta la regione balcanica; gli resistette per un po’il Regno dei serbi, croati e sloveni (voluto da Francia e Inghilterra) retto da Alessandro I Karagjeorgjevic composto da nove etnie diverse più varie minoranze di confessioni religiose diverse. Nel 1928 scoppiò una crisi, si corse alle armi: i serbi (ortodossi) presero il potere, i croati (cattolici) reagirono, nacque il movimento degli ustascia (i ribelli) capeggiati da Ante Pavelic. Da Roma Mussolini osservava con interesse tutti questi movimenti disgregatori e non mancò di sostenerli. Le lotte intestine sfociarono nel 1934 nell’uccisione di Alessandro I. Nel 1939 inizia la Seconda guerra mondiale e lo scacchiere slavo entra in fibrillazione: la Croazia cede alle lusinghe di Hitler, la Serbia invece le contesta; il 6 aprile 1941 la Germania la castiga con un feroce bombardamento, poi la invade. Subito dopo i tedeschi scendono verso la Grecia che era riuscita a bloccare l’esercito italiano invasore e in pochi giorni issano la croce uncinata sul Partenone. Questa operazione finì per ritardare di un mese l’operazione Barbarossa contro la Russia, ritardo che costò caro alla Wehrmacht.

 

La legge della guerra

La Germania incorporò tutto il nord della Slovenia, la Vojvodina e la Serbia. L’altra metà della Slovenia fu appannaggio italiano e Lubiana divenne a tutti gli effetti città italiana; con leggi italiane; e così le città di Sebenico, Ragusa, Cattaro, Spalato. Il Kosovo e una fetta di Macedonia andarono all’Albania. Il Banato passò alla Romania, la regione di Baka all’Ungheria. Solo la Croazia, per opera di Ante Pavelic, restò indipendente e la sua corona fu offerta alla famiglia Savoia. Per non offendere l’alleato germanico questo regno fu assegnato ad Aimone, duca di Spoleto, ufficiale di marina, che giurò che mai avrebbe messo piede a Zagabria. I croati, divenuti indipendenti, dettero inizio alla pulizia etnica del proprio territorio contro serbi, musulmani ed ebrei che furono confinati in campi di sterminio. Si è calcolato che vi abbiano perso la vita da 300 a 500 mila persone; secondo stime del clero ortodosso nel primo anno di attività in questi campi perdevano la vita duemila serbi al giorno. Ad aggravare la situazione arrivarono i partigiani di Tito, già da prima però operavano i cetnici (ceta=squadra) che sotto la guida di Mihajlovic non avevano accettato la capitolazione dell’esercito jugoslavo: i loro ufficiali restavano fedeli al re, il loro obiettivo era uno Stato federato che si sarebbe dovuto espandere fino al Tagliamento e ricevevano aiuti dall’Inghilterra. Aiuti che, per accontentare Mosca, passarono poi alle formazioni di Tito, considerato da Stalin suo luogotenente. La situazione balcanica diventava quindi ogni giorno più difficile. Si legge che i militari italiani non erano propensi a lasciarsi coinvolgere nella spirale delle vendette e delle rappresaglie, tanto che gli ufficiali superiori si lamentavano che “si ammazzava troppo poco” ma quando si conobbero certi atti di particolare violenza – i cento alpini della Pusteria trucidati e gettati in foiba nel 1941, la colonna catturata, fucilata e infoibata in Montenegro nel novembre ’42, il battaglione delle camicie nere spinto ad affogare nel marzo ’42 nel lago melmoso di Popovo Polje – non era facile restare inerti. Poi esplose l’8 settembre 1943: i partigiani di Tito si buttarono sulle nostre formazioni allo sbando e fecero un colossale bottino di armi e mezzi mentre gli Ustascia andarono ad occupare la Dalmazia. I comunisti titini furono molto abili: nelle fabbriche e nei cantieri dove era alta la presenza italiana insistettero sull’idea socialista e sull’internazionalismo operaio, nelle campagne fra i contadini slavi annunciarono il riscatto dell’Istria contro i padroni italiani fascisti. Molto attivo e ascoltato il clero di cultura slava per un fronte nazionale panslavo su cui poté appoggiarsi Tito per la conquista del potere. Il Pcj propagandava l’idea di unire in un’unica patria slava l’intera Venezia Giulia, la Carinzia e la Dalmazia; lo slogan ricorrente sosteneva: “Non vogliamo l’altrui, ma il nostro non lo diamo”. Si arrivò persino alla richiesta del rappresentante del Pci triestino di accettare nel Cln italiano anche un rappresentante del Pcj e alla risposta negativa i comunisti triestini abbandonarono il Cln e Luigi Longo (allora numero due del Pci) non li sconfessò; anzi manifestò l’intenzione di far passare le formazioni partigiane italiane operanti in zona sotto il comando di Tito.

 

I nostri desaparecidos

Insomma dopo l’8 settembre mentre le truppe italiane si sfilacciavano con l’dea del “tutti a casa” gli slavi occuparono tutto quello che riuscirono ad occupare; in seguito fu anche imbastita una favola di insurrezione popolare che non realtà non ci fu e il 26 settembre a Pisino durante una agitata assemblea fu ufficialmente proclamata la separazione dell’Istria dall’Italia: abolite tutte le leggi italiane, tutti gli italiani arrivati in Istria dopo il 1918 dovevano andarsene, cominciò la caccia agli elementi fascisti anzi questa etichetta divenne il pretesto per colpire chiunque si volesse spogliare: arresti, processi senza ombra di legalità e sentenze subito eseguite. “Legati ai polsi col filo di ferro i prigionieri venivano spinti in colonna nel fondo delle cave di bauxite e falciati con raffiche di mitra, racconta Arrigo Petacco. O allineati sull’orlo delle foibe e scaraventati nell’abisso dopo la fucilazione. Non mancò la tortura: fino alla violenza e all’evirazione. Nelle località costiere le vittime venivano portate al largo, legate a gruppi, zavorrate e buttate in mare. Le foibe, caratteristiche dei territori carsici, sono numerose in Istria. “Fra il 1943 e il 1947 vi furono gettati dai partigiani titini migliaia di esseri umani vittime dell’odio e delle passioni del momento. In grande maggioranza furono italiani ma ci sono anche tedeschi, ustascia, cetnici e persino soldati neozelandesi dell’esercito britannico”. Quanti? Furono scritte cifre diversissime: da 10 e 30 mila, il conto esatto non fu e non sarà ormai possibile. “Nella foiba di Basovizza (una delle due rimaste in territorio italiano) “furono recuperati 500 metri cubi di resti umani e si calcolò brutalmente che le vittime potevano essere 2 mila, quattro per metro cubo”. Né era possibile frugare negli archivi degli uffici comunali: tutto era stato attentamene distrutto. Da questa poltiglia di fango e corpi (misurata appunto in metri cubi) sono emerse varie storie: dei pochissimi che nonostante tutto sono riusciti a sopravvivere e di una ragazza della quale non è stata possibile cancellare la storia. Si chiamava Norma Cossetto, 23 anni, di Visignano, studentessa all’università di Padova, suo insegnante Concetto Marchesi. Una famiglia di possidenti, suo padre era stato un esponente della locale sezione del Partito fascista. Stava preparano la tesi di laurea sulla storia della sua Istria, “Istria rossa” (dal colore della bauxite), girando per i paesi in cerca di notizie, storie, documenti. Fu catturata da una volante rossa di comunisti italiani e croati, tormentata e violentata per giorni, sottoposta al giudizio di un tribunale del popolo e condannata a morte con altri 26 prigionieri. Neppure gli esecutori della sua pena capitale si lasciarono sfuggire l’occasione di altre violenze, infine la fucilazione e la precipitazione nella foiba di Villa Surani (136 metri). Il suo corpo venne recuperato da un vigile del fuoco che in seguito riesumò molti altri infoibati; alle sue esequie furono costretti i suoi aguzzini catturati dalla Gestapo che poi li fucilò. Altri sette membri della famiglia Cossetto furono infoibati dopo di lei. Dopo la guerra per iniziativa del suo docente Concetto Marchesi venne conferita a Norma la laurea honoris causa. E a chi obiettava che la ragazza “non era caduta per la libertà” Marchesi, che era iscritto al Pci, rispose che era “caduta per l’italianità”. Di testimonianze di episodi simili ne abbiamo letti a decine: “una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo” come ha spiegato il Presidente Mattarella nei giorni delle celebrazioni.

 

Tito

La guerra andava rapidamente verso la sua tragica conclusione quando Togliatti mise in guardia il fronte antifascista italiano: “(…) è assurdo pensare che il Pci accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito (…) non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave. Vogliamo che le nostre unità partigiane e gli italiani della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti” (lettera al Presidente Bonomi del 7 febbraio 1945). Sappiamo che i partigiani della Osoppo che rifiutarono questo invito pagarono con la vita: 22 le vittime di questa strage fratricida operata da partigiani comunisti italiani per compiacere i loro compagni comunisti di Tito; tra loro Elda Turchetti e il fratello di Pasolini. Gli assassini furono identificati, arrestati, processati ma poi mandati liberi con la famosa sanatoria del segretario del Pci quando era ministro di grazia e giustizia. Una sanatoria che – come fu scritto – pose come alla base della Repubblica questo zoccolo di ingiustizia. Il primo maggio 1945 in Europa cessarono i combattimenti, Milano si era ribellata e liberata il 25 aprile e Trieste il 28. Il primo maggio arrivarono anche le unità comuniste di Tito al grido “Trst je nas” (Trieste è nostra). Il Cln triestino, fidando che le forze alleate al loro arrivo avrebbero impedito l’occupazione slava della città, accettarono gli uomini con la stella rossa sul berretto e lo stesso Togliatti li invitò a non “seminare discordia”. Il giorno dopo arrivarono le forze britanniche e solo allora le unità tedesche asserragliate nei loro fortilizi si arresero e gli inglesi le consegnarono agli uomini di Tito che li costrinsero nei loro lager. Il 3 maggio i titini sono a Fiume ed espletano le loro vendette: deportazioni, fucilazioni, infoibamenti. Il giorno dopo toccò a Pola. Il 12 giugno il comandante delle unità inglesi Alexander si incontrò con Tito e chiese la consegna alle forze alleate di Trieste, Gorizia e Pola. Cominciarono così i 40 giorni di Trieste durante i quali gli slavi si inventarono di tutto per persuadere gli alleati che veramente Trieste era loro: continue manifestazioni di contadini trasportati in città coi camion per gridare che la città era loro, una chiamata alle armi per allontanare i giovani, la legge marziale con un coprifuoco dalle ore 15 alle 10 del giorno dopo, esautorazione del Cln, soppressione della libertà di stampa, in vendita solo il quotidiano comunista Il Nostro Avvenire, la sede della Banca d’Italia salassata di 160 milioni di lire. Il 3 maggio i giovani triestini contromanifestarono per l’italianità della loro città ma furono presi a fucilate ed ebbero cinque morti. Le forze inglesi, si legge nelle corrispondenze giornalistiche, osservavano e scattavano foto. Trieste perde la sua libertà prima ancora di averla ritrovata: si fa pulizia di tutto quello che è italiano: primi sono i finanzieri e i carabinieri, poi i partigiani di Giustizia e Libertà e un numero non calcolabile di militari sbandati o reduci dai campi tedeschi. Chi non viene infoibato finisce in un carcere-campo di concentramento dove la punizione più usuale era l’essere appesi per le braccia per periodi interminabili. Per quaranta giorni “il sistematico massacro degli italiani continua in tutta la regione sollevando sgomento anche nella popolazione civile slovena. Lo stesso accade a Monfalcone e a Gorizia, imperversano le “guardie del popolo”, come ha scritto Arrigo Petacco. A Gorizia prelevano e fanno sparire anche gli allettati in ospedale e comunque distruggono cartelle cliniche, documenti e schedari: gli italiani devono sparire di fatto e di nome. Il vescovo di Gorizia Carlo Margotti che protesta viene espulso perché “contrario al movimento di liberazione nazionale”. Il decreto di espulsione diceva che l’arcivescovo “è stato contrario al movimento nazionale di liberazione e la sua condotta politica poteva fomentare la guerra civile. Perciò decretiamo: l’arcivescovo deve lasciare la città di Gorizia e trasferirsi a Udine. Morte al fascismo. Libertà ai popoli”. Tutto si ripete, con poche dolorose varianti anche a Pola. Ma i comunisti italiani che fanno? Ha scritto ancora Petacco: “La base comunista triestina incoraggiata dalla federazione locale e, sia pure più ambiguamente dalla direzione nazionale del partito, si mantenne comunque entusiasticamente fedele alla pregiudiziale jugoslava. Anche a settembre, dopo la costituzione di ‘Trieste territorio libero’ e la partenza delle truppe jugoslave, ribadiva che il Pc giuliano si sarebbe adoperato ‘con tutte le sue forze affinché questo territorio venga assegnato alla democratica e federativa Repubblica jugoslava’”. Dopo 40 giorni di agonia, il 12 giugno 1945, l’occupazione jugoslava di Trieste, Gorizia e Pola ebbe termine: il governo italiano, sollecitato pubblicamente dal vescovo di Trieste Antonio Santin, cominciò a muoversi per indurre gli alleati ad intervenire. Churchill, allarmato per l’espansione comunista in Europa era propenso anche ad un circoscritto intervento militare per bloccarlo. Truman invece non voleva alienarsi l’appoggio di Mosca per troncare la resistenza giapponese in oriente ma capiva anche lui d‘aver bisogno del porto di Trieste per alimentare le forze d’occupazione nell’Europa centrale. Sicché Tito dovette accettare il suggerimento del grande capo di Mosca: concordare con gli alleati una linea di demarcazione. L’abboccamento avvenne a Belgrado il 9 giugno: fu proposta la spartizione della regione contesa: una zona A (un sesto della ex regione italiana con Gorizia, Monfalcone e Trieste) governata dagli alleati e una zona B (gli altri cinque sesti) da passare alla Jugoslavia. Quanto a popolazione le due zone si equivalevano: circa 450 mila individui per parte. Era la linea Morgan (nome dell’ufficiale inglese che la disegnò): “linea militare, non politica, e temporanea”. Alla zona A venivano assegnati anche l’enclave di Pola e gli ancoraggi di Pirano, Parenzo e Rovigno ma gli alleati si occuparono solo di Pola per cui gli jugoslavi si presero i tre ancoraggi. Non fu affatto “temporanea” l’assegnazione della zona B alla Jugoslavia perché le terre vennero subito collettivizzate e le industrie socializzate. Fu introdotta una jugolira e tutte le classi dirigenti furono costrette ad andarsene: a cominciare dagli insegnanti e dai membri del clero cattolico. Ai lavoratori pendolari furono posti tanti ostacoli finché cessarono di andare al lavoro nella zona A. Era l’agonia della zona B: secondo il trattato di pace doveva venir equamente divisa tra Italia ed Jugoslavia con colloqui diretti tra Roma e Belgrado; si verificò invece una appropriazione indebita che sarà coperta giuridicamente nel 1975 con l’accoro bilaterale di Osimo quando ormai gli italiani che avevano potuto se n’erano andati abbandonando tutto.

 

Il trattato di pace

Ma prima di questa lapide di Osimo quanto successe ancora. Nel 1946 cominciò la Conferenza di pace. Temendo sorprese Tito ammassò in zona B quattordici divisioni. La Francia per rafforzare il suo ruolo tra le potenze che avevano vinto la guerra si propose come mediatrice tra Est ed Ovest. Per la Venezia Giulia furono avanzate quattro diverse proposte: quella americana era la più favorevole per noi: sarebbero stati assegnati all’Italia 370 mila italiani e 180 mila slavi; sarebbero passati alla Jugoslavia 50 mila italiani. La meno favorevole era quella sovietica: nessun slavo sarebbe rimasto in territorio italiano ma 600 mila italiani sarebbero passati in territorio slavo. E perché non chiedere alla gente con un plebiscito? La delegazione italiana non fu concorde: si temeva che col voto dei comunisti italiani gli slavi potevano conquistare la maggioranza anche dove numericamente non potevano averla, si potevano perdere anche altre città. Si temeva che venisse proposto un plebiscito anche in Alto Adige con un risultato probabilmente sfavorevole all’Italia. I giuliani capirono di venir usati come merce di scambio. Milovan Gilas, braccio destro di Tito durante la guerra partigia e poi suo grande oppositore, nel 1991 rivelò che nel 1946 lui e Kardelj, ministro degli esteri, erano stati inviati dal maresciallo nella zona B per organizzare la propaganda anti italiana: “Era nostro compito indurre tutti gli italiani ad andarsene con pressioni di ogni genere. E così facemmo”. Così quando la Commissione alleata visitò la zona in discussione incontrava solo slavi vociferanti trasferiti dalle campagne a fare il loro dovere. I membri della Commissione non erano ingenui, andarono quindi a visitare i cimiteri, si poteva stabilire la percentuale di tombe italiane o meno. Allora furono distrutte le lapidi dei morti nelle città più popolose: Il vescovo di Trieste che a tutti i costi andava a visitare le sue parrocchie anche se situate in zona B fu più volte fermato e arrestato; il vescovo di Pola arrestato e vilipeso, preti cattolici italiani, sloveni e dalmati furono fatti sparire. I cittadini dei piccoli centri indifesi e minacciati erano costretti ad andarsene; quelli dei centri maggiori, più numerosi cercavano di organizzarsi per resistere. Perché tanto accanimento? Perché alle spalle del socialismo reale di Tito c’era pur sempre l’Urss che aveva bisogno di uno sbocco al Mediterraneo. E dall’altra parte Usa e Gran Bretagna volevano opporle una Gibilterra nell’Adriatico. Cosa contavano quelle poche centinaia di migliaia di italiani che ci andavano di mezzo? Da parte sua Mosca affermava che nel 1920 col Trattato di Rapallo i confini orientali italiani erano stati sistemati “con un furto perpetrato contro la Jugoslavia”. Questa affermazione aveva indignato l’opinione pubblica italiana e allora Togliatti ebbe la felice idea di correre da Tito e poi riferire che in riparazione di quel torto Tito era disposto a lasciare Trieste agli italiani qualora l’Italia fosse disposta a cedere agli slavi la città di Gorizia. Una bestialità: così commentata da Nenni nel suo diario: “Giornata movimentata. La colpa è di Togliatti che rientrato la scorsa notte da Belgrado si è affrettato a dare all’Unità una spettacolare intervista nella quale annuncia che Tito rinuncia a ciò che non ha e ci chiede ciò che abbiamo”. Il Trattato di pace fu firmato il 10 febbraio 1947 a Parigi: l’Italia perdeva tutta l’Istria e l’enclave di Pola: la città era condannata all’esodo.

 

Il drammatico esodo di Pola

Il Corriere della Sera inviò Indro Montanelli a vedere cosa succedeva davvero in quel febbraio 1947 a Pola condannata ormai all’esilio. “Ciò che più indigna non è tanto l’abbandono della città quanto il modo in cui viene eseguito; in uno stillicidio di morti, nell’insicurezza delle persone, in una ragnatela di difficoltà per i nostri e di condiscendenza per gli altri: tutto per negare che esista un problema polesano. Per il 95 per cento questi esuli sono poveri diavoli e le loro masserizie ne denunciano la miseria: tutto denuncia l’origine proletaria dei loro proprietari. Il comunismo e l’anticomunismo non c’entrano. Non fugge il comunismo chi non ha nulla da perdere. L’unico italiano di Pola che aveva mostrato l’intenzione di rimanere è un professore comunista che dopo la liberazione fondò un circolo culturale italo-slavo puntando sulla carta della fraternizzazione. Ieri ha chiesto anche lui di imbarcarsi. Lo aveva chiesto anche il sindaco italiano e comunista di un paese vicino, di nome Facchinetti, ma non ha fatto in tempo: una pallottola lo ha freddato mentre preparava i bagagli”. In un primo tempo il governo italiano aveva sconsigliato l’esodo: il vuoto di cittadini italiani sarebbe stato riempito da cittadini slavi modificando così la composizione etnica del territorio conteso. Anche il Pci era contrario: perché fuggire dai compagni slavi? Invece chi ci abitava conosceva bene che tipo di compagni fossero e quasi tutti gli italiani di Pola presentarono domanda di espatrio; Tito fece il possibile per trattenere le maestranze specializzate e inasprì immediatamente il costo dell’espatrio: appena presentata la domanda si perdeva il posto di lavoro e la tessera annonaria; chi possedeva dei beni perdeva ogni diritto di proprietà, la sua casa poteva essere subito occupata da altri ma l’autorizzazione alla partenza poteva tardare mesi. E chi era considerato fascista poteva essere espulso direttamente dall’autorità: doveva andarsene col solo bagaglio a mano. Gli italiani non vedevano l’ora di partire e portarsi via anche i propri morti, anche la salma di Nazario Sauro fu imballata e trasferita a Venezia. Di fronte a tale massa in fuga l’opinione pubblica italiana fu scioccata, anche il Pci era in imbarazzo, per cui si difendeva sostenendo che erano tutti fascisti in fuga dal paradiso comunista. A Bologna, ad esempio, i ferrovieri minacciarono lo sciopero se un convoglio carico di profughi proveniente da Ancora si fosse fermato nella loro città: venne dirottato a La Spezia. E chi non era contrario era indifferente: nessuna solidarietà della gente; solo la Poa (Pontificia opera di assistenza) allestì centri di accoglienza. Chi non era ancora partito aspettava il piroscafo nei capannoni del porto, dormiva per terra tra le sue misere masserizie: fu il vescovo di Pola a sollecitare il governo italiano perché non si perdesse tempo. Dieci i viaggi del piroscafo Toscana: il 20 marzo l’esodo era compiuto. Gli fece seguito un piccolo controesodo diretto personalmente dal vicesegretario del Pci Pietro Secchia: per trasferire volontari italiani reclutati nei cantieri e nelle fabbriche di Monfalcone, Gorizia e Trieste per “contribuire all’edificazione del socialismo in Jugoslavia”, cioè per insegnare ai contadini slavi che avevano occupato Pola a diventare metalmeccanici. I polesani sbarcati su territorio italiano furono dispersi in un centinaio di centri di assistenza e persero anche la propria identità: “furono loro – si disse – a pagare il peso della guerra”. “La colpa è tutta vostra. Siete voi che non volete salvare la Venezia Giulia” aveva detto Harold MacMillan, rappresentante del governo militare alleato durante le trattative, ai nostri governanti. Ma l’esodo istriano non era finito lì: la dichiarazione anglo-americana dell’ottobre 1953 che affidava la zona A all’Italia spinse i residenti italiani (soprattutto quelli legati alla terra) rimasti ancora nella zona B a fare fagotto: prima del memorandum di intesa dell’ottobre 1954 altri 40 mila se ne andarono. Il memorandum non trattava della zona B ma aveva apportato piccole correzioni alla zona A. Anche da lì altri italiani partirono, furono gli ultimi. Poi su tutta la questione fu posta, il 1° ottobre 1975 dal governo Rumor, la “pietra tombale” del Trattato di Osimo.

 

………………

Note

Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino 2011

Arrigo Petacco, L’esodo, Mondadori 2005

Milovan Gilas, Intervista a Panorama, 1991

 

 

 

Potrebbe anche interessarti: