Metalmeccanici: crisi irrisolte, ora mobilitazione generale
NOVEMBRE 2019
Sindacale
Metalmeccanici: crisi irrisolte, ora mobilitazione generale
di   Rocco Palombella

 

Centosessanta tavoli aperti al Ministero dello Sviluppo economico. Trecentomila lavoratori a rischio. Oltre ai numeri ci sono le storie personali, la vita quotidiana resa sempre più complicata, aziende e interi territori che vivono gravi difficoltà occupazionali, sociali ed economiche. In un contesto nazionale di recessione, da anni senza una programmazione di politiche industriali, di investimenti in ricerca e sviluppo per poter concorrere nel mercato globalizzato, di interventi pubblici e privati che portino al rilancio e alla ripresa economica, in primo luogo aumentando i salari dei lavoratori, misura non più rinviabile. Negli ultimi dodici anni in Italia si sono perse cinquecentocinquanta milioni di ore lavorate anche se c’è stato un aumento degli occupati. Quindi un part-time involontario che ha colpito maggiormente le donne. Le crisi industriali che affliggono il mondo metalmeccanico sono numerose, alcune da quasi dieci anni come quelle che riguardano i lavoratori dell’ex Alcoa e della Blutec, ovvero l’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese. Quindi non solo la crisi dell’ex Ilva, ma tantissime vertenze meno presenti sui media nazionali che meritano lo stesso spazio, rispetto e impegno da parte delle istituzioni. In un settore strategico per l’Italia, con 1,4 milioni di lavoratori occupati e che rappresenta il 2% del Pil nazionale. Una situazione complicata che si inserisce all’interno di un un contesto di mercato che registra una forte contrazione dei volumi e dei prezzi. Un periodo di forte incertezza dovuto anche alla questione dei dazi statunitensi, l’incognita Brexit e la fortissima competizione con i Paesi emergenti dove si hanno costi minori per la manodopera e meno vincoli ambientali e legislativi. Una condizione che non consente di far previsioni sul futuro del settore, in particolare in riferimento a quello europeo, e che necessita di interventi urgenti e non più rinviabili.

 

SETTORE DELL’ACCIAIO

Il settore siderurgico in Italia nel 2018, secondo i dati diffusi nell’ottobre scorso da FederAcciai, ha registrato un aumento dell’1,9% rispetto all’anno precedente della produzione di acciaio grezzo arrivando a quota 24,5 milioni di tonnellate, attestando l’Italia al secondo posto tra i produttori europei e al decimo tra quelli mondiali. In questo comparto industriale lavorano 34mila addetti nella siderurgia primaria e 70mila totali come diretti complessivi dell’industria dell’acciaio che rappresenta il 2% dell’occupazione manifatturiera italiana con un fatturato di oltre 40 miliardi di euro, +8% rispetto al 2017. Una situazione che si è radicalmente modificata dall’inizio del 2019, facendo segnare da gennaio ad agosto un calo del 4,5% della produzione di acciaio rispetto allo stesso periodo del 2018, attestandosi a 15,4 milioni di tonnellate e uscendo dalla classifica dei primi dieci produttori mondiali. Una crisi generalizzata che ha investito anche la Germania, con una diminuzione di 1,3 milioni di tonnellate, seguita dall’Italia con un meno 733mila tonnellate. Un andamento negativo che si è aggravato nei mesi estivi, passando dal -2,6% registrato a giugno, attraverso al -8% di luglio per arrivare al -26,6% di agosto. Una situazione allarmante che è dovuta sia alle difficoltà che stanno vivendo importanti realtà industriali siderurgiche del nostro Paese, come l’Ex Ilva, la Ferriera di Servola a Trieste, Piombino, sia a causa dei mancati interventi dei governi. A livello mondiale la Cina ha superato la soglia del 50% della produzione mondiale di acciaio, seguita dall’India diventata secondo produttore, sorpassando il Giappone. Un settore, quello siderurgico, che deve rimanere strategico per un Paese che non vuole essere dipendente dall’import da altri Stati, con conseguenze nefaste non solo dal punto di vista occupazionale e produttive, ma per la perdita del know how, della ricerca e innovazione che sono i punti di forza dell’Italia.

 

IL CAOS ILVA

Se si parla di acciaio in Italia, si fa spesso riferimento solo all’ex Ilva, con i suoi stabilimenti di Taranto, Novi Ligure, Cornigliano (Genova), Porto Marghera e altri sparsi sul territorio italiano da nord a sud. Ma ci sono tante altre realtà industriali, dalla Ferriera di Servola a Piombino, dal Gruppo Marcegaglia a Tenaris. Ventimila lavoratori tra diretti e indotto, economia di città e Regioni strettamente legate alla vita degli impianti di quella che un tempo era l’Italsider. Dopo il sequestro e le inchieste giudiziarie del luglio 2012, ci sono stati oltre sette anni di amministrazione straordinaria e commissariamento della società, durante i quali non sono stati effettuati tutti quegli interventi di risanamento ambientale e manutenzione degli impianti che sarebbero dovuti essere posti in essere per salvaguardare e tutelare contemporaneamente due diritti fondamentali come la salute e il lavoro. Questi sono stati posti erroneamente, o in mala fede, in contrapposizione e resi inconciliabili creando un clima conflittuale all’interno della comunità tarantina. Il 6 settembre 2018, presso il Ministero dello Sviluppo economico, dopo mesi di trattative estenuanti, si è firmato un accordo importante tra le organizzazioni sindacali e ArcelorMittal che garantiva importanti investimenti per il risanamento ambientale, la tutela dei livelli occupazionali e la continuità produttiva. In totale riguarda 10.777 lavoratori in Italia e 1.912 in cassa integrazione in Amministrazione straordinaria che hanno la prospettiva di tornare a lavoro nel 2023, termine ultimo del Piano ambientale. Dopo pochi mesi dalla sottoscrizione dell’accordo la multinazionale, causa anche l’approvazione del Decreto Crescita che aveva abolito le tutele legali previste da una legge del 2015, ha iniziato a porre in essere i suoi primi atti contrari a quanto previsto dall’intesa. I primi segnali negativi sono stati rappresentati dalla comunicazione di cassa integrazione per 1395 lavoratori per 13 settimane dal primo luglio e dal il calo produttivo di un milione di tonnellate per la crisi del mercato siderurgico. Una situazione ulteriormente aggravata dopo il mortale incidente dell’11 luglio del giovane operaio Cosimo Massaro. Un contesto reso ancora più complicato dall’azione schizofrenica del Governo con l’approvazione e poi soppressione della norma sullo scudo penale, già previsto da una legge del 2015 pensata per tutelare penalmente i Commissari straordinari e i futuri gestori di uno stabilimento sotto sequestro con facoltà d’uso. Dopo questo alibi dato dalla politica nazionale alla multinazionale franco-indiana, gravemente inadempiente sotto il punto di vista occupazionale e produttivo, si è scatenato un vespaio di polemiche, interventi di due Procure della Repubblica, consegna di atti legali al Tribunale di Milano e avvio di una procedura di cessione di ramo d’azienda. Le vittime di questo scontro sono i 20mila lavoratori, tra diretti e indotto, che sono a rischio occupazione, il mancato risanamento ambientale previsto dall’accordo del 2018 con oltre 2 miliardi di euro di investimenti e la chiusura della più grande acciaieria europea. Nelle ultime settimane si sono svolti incontri con le istituzioni, sia a Palazzo Chigi che al Ministero dello Sviluppo economico, ai quali hanno partecipato anche i Segretari Generali di Cgil, Cisl e Uil vista la delicatezza e importanza della vertenza per tutto il Paese. Purtroppo sono risultati inconcludenti, anzi hanno reso più chiara e allarmante la posizione della multinazionale che, attraverso il suo Amministratore Delegato Lucia Morselli, ha confermato la volontà di andare via, ponendo come causa principale la soppressione delle tutele legali che non consentirebbero più la continuità produttiva senza rischiare procedimenti penali. Ora, dopo l’incontro di venerdì 22 novembre a Palazzo Chigi tra il Presidente del Consiglio Conte, il Ministro dello Sviluppo economico Patuanelli, il Ministro dell’Economia Gualtieri e i vertici aziendali, hanno fatto sapere che si avvierà nelle prossime settimane una trattativa per arrivare a un nuovo accordo, condiviso con le parti sindacali. Più volte abbiamo ribadito come l’accordo del 6 settembre 2018 sia l’unico a garantire il risanamento ambientale, la tutela dei livelli occupazionali e la continuità produttiva. Non saremo disponibili a firmare intese che prevedano migliaia di esuberi o una vanificazione del risanamento ambientale, già avviato con investimenti per circa 400 milioni di euro, in particolare con la copertura quasi ultimata dei parchi minerali. In questi anni i lavoratori di Taranto, Cornigliano, Novi Ligure e di tutti gli altri stabilimenti hanno già pagato in termini occupazionali scelte inacettabili. Si riparta dall’accordo di un anno fa e si ristabiliscano tutte quelle condizioni per proseguire un’attività industriale, prediligendo l’importante opera di risanamento ambientale, altrimenti non possibile senza stabilimento in marcia.

 

NON SOLO ILVA

Come detto precedentemente, le crisi dell’acciaio non riguardano solamente gli stabilimenti italiani di ArcelorMittal. Parliamo principalmente di due crisi o mancati rilanci industriali: la Ferriera di Servola a Trieste e l’ex Lucchini, oggi Jindal, di Piombino. Per quanto riguarda lo stabilimento siderurgico di Trieste, nel luglio 2019 la Giunta regionale del Friuli Venezia-Giulia e il Comune della città hanno deciso di far chiudere l’area a caldo del sito del Gruppo Arvedi per questioni ambientali e avviare una fase di riconversione industriale. Negli incontri svolti presso il Ministero dello Sviluppo economico tra parti sindacali, Ministro Patuanelli ed enti locali, l’azienda ha presentato il piano industriale per la chiusura dell’area a caldo e il contestuale sviluppo delle lavorazioni a freddo con l’installazione di una linea di zincatura, una di verniciatura e lo sviluppo delle attività di logistica attualmente già svolte da Siderurgica Triestina per complessivi 230 milioni di investimento. Gli enti locali hanno definito, quindi, incompatibile” a coesistenza degli impianti di produzione di ghisa della Ferriera con il futuro progetto di sviluppo del Sistema logistico del porto friulano. A tal proposito si ricorda che nelle scorse settimane è stato firmato un accordo tra l’Autorità Portuale di Trieste e l’azienda cinese China Communications Construction Company, a seguito della firma degli accordi di cooperazione italo-cinese a Roma del 23 marzo scorso per la creazione di piattaforme logistiche/produttive nell’ambito della cosiddetta “Via della Seta”. Le organizzazioni sindacali non hanno condiviso la scelta degli enti locali e poi dell’azienda e restano in attesa di verificare un quadro alternativo di sviluppo “certo” e con prospettive di lungo periodo. I lavoratori dello stabilimento triestino sono 603, ai quali vanno aggiunti quelli dell’indotto. Gli addetti che attualmente lavorano nell’area a caldo sono circa 400. L’altro esempio è quello dell’acciaieria ex Lucchini di Piombino, ora Jindal. A oltre un anno e mezzo dall’insediamento della nuova società non è ancora ripartita completamente l’attività produttiva del centro siderurgico toscano. A inizio novembre l’azienda ha confermato di voler investire nello stabilimento della provincia livornese, chiedendo il rispetto dell’accordo firmato con tutte le istituzioni, ovvero riguardo il costo dell’energia e l’utilizzo della discarica adiacente al sito per ridurre i costi dello smaltimento delle scorie dell’acciaieria. A fine anno scade il termine per lo studio di fattibilità per l’investimento sull’accieria con forni elettrici e si rischia che il Governo dia un ulteriore alibi anche a questa azienda per rinunciare agli investimenti previsti. Al momento sono attualmente occupati solo 740 i lavoratori, su un totale di circa duemila lavoratori, in gran parte ancora in cassa integrazione. Nel maggio 2018, alla stipula dell’accordo, il gruppo indiano ha potuto usufruire anche di un finanziamento statale pari a 15 milioni per le “condizioni di insediamento” e di uno regionale di circa 30. Questo è l’unico stabilimento italiano dove si producono rotaie ma nell’ultima gara di appalto per assegnare oltre 240mila tonnellate di rotaie per il fabbisogno nazionale delle ferrovie italiane, a Piombino è stato dato solo il 40% e la restante parte è andata a produttori esteri. Un ennesimo segnale del mancato investimento e valorizzazione delle professionalità del nostro Paese.

 

CRISI DELL’AUTO

Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero dei Trasporti, a settembre 2019 si è registrata una crescita a doppia cifra per le immatricolazioni: un aumento di oltre il 13% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un dato positivo, ma che va contestualizzato perché il settembre 2018 fu un mese fortemente penalizzato dalle criticità legate all’introduzione delle nuove norme di omologazione Wltp, più stringenti sulle emissioni delle autovetture, facendo rilevare un crollo del 25%. Ad ogni modo un segnale di ripresa del settore automotive dopo mesi di dati negativi che pertanto non è sufficiente a invertire un trend che vede il consuntivo dei primi nove mesi del 2019 presentare una leggera flessione dell’1,61%, con 1.467.668 unità immatricolate. Tra i gruppi, una delle migliori performance l’ha avuta la Fiat Chrysler Automobiles con 31.611 immatricolazioni, ponendo fine a una lunga serie di dati con segno meno, mettendo a segno una crescita del 10,98%. Quasi tutti i marchi del gruppo mostrano un segno più: la Fiat cresce del 3,43%, la Jeep del 27,73%, la Lancia del 23,51% e l’Alfa Romeo del 33,93%. L’unica eccezione è la Maserati, con un calo del 40,68%. Il settore auto sarà rivoluzionato dopo l’accordo tra Fca e Psa, con la costituzione del quarto gruppo mondilale. Un accordo da 50 miliardi di euro di capitalizzazione e una fusione che creerebbe un gruppo dietro solo a Renault-Nissan-Mitsubishi, Volswagen e Toyota, ma davanti a General Motors. Quasi nove milioni di automobili prodotte, circa 400mila lavoratori in tutto il mondo e un fatturato complessivo oltre i 180 miliardi di euro. Un nuovo colosso mondiale che metterà insieme i marchi di Alfa Romeo, Chrysler, Lancia, Citroën, Dodge, Fiat, Jeep, Maserati, Opel e Peugeot. Questi sono alcuni dati della newco tra Fca e Psa che si dovrebbe concretizzare nel prossimo futuro dopo l’annuncio ufficiale dell’approvazione da parte dei Cda del progetto di accordo tra i due gruppi lo scorso 31 ottobre. Una società costituita e controllata al 50% dagli attuali azionisti delle due case automobilistiche, che avrà nel ruolo di presidente John Elkann, già presidente di Fca e Exor, e come amministratore delegato Carlos Tavares, che attualmente ricopre la stessa carica in Peugeot. Ci sarà un consiglio di amministrazione composto da undici membri, cinque al gruppo italo-americano e cinque a quello francese, più l’Ad Tavares. Un’alleanza che arriva dopo il fallimento delle trattative tra Fca e Renault della scorsa estate, anche a causa delle posizioni assunte dal governo francese. Una fusione positiva, alla condizione che non si mortifichino i risultati raggiunti in questi anni grazie ai lavoratori e al gruppo manageriale. Devono esserci piani che prevedano sviluppo e non riorganizzazione e sacrifici per gli stabilimenti italiani. Il fatto che Fca cerchi partner europei e mondiali in grado di contribuire all’allargamento delle alleanze è un fatto positivo. La società non deve però rinunciare alle potenzialità che in questi anni è riuscita a costruire in termini di prodotto, know how ed efficienza. Le fusioni possono comportare, nella ricerca di sinergie e razionalizzazioni che riducano i costi, ricadute occupazionali e, proprio per questo, è molto importante la precisazione di FCA e di Peugeot. Come sindacato seguiremo con estrema attenzione la vicenda per la parte che è di nostra pertinenza e vigileremo su eventuali ricadute occupazionali. I benefici della fusione, in termini tecnologici e di mercato, sono facilmente intuibili. Si tratta di una grandissima sfida che deve essere vinta. Un anno importante quello di Fca che ha vinto il gruppo confermare il piano industriale da 5 miliardi di euro presentato il 29 novembre 2018 e che prevede fin dai prossimi mesi l’inizio di nuove produzioni come, tra gli altri, il nuovo modello della Jeep Compass, anche in versione elettrica, nello stabilimento di Melfi, lo spostamento dallo stabilimento ChnI di Foggia a quello Fca di Avellino della fabbricazione dei nuovi modelli Ducato e il modello elettrico della Fiat 500 a Mirafiori. Quindi una rivoluzione del settore dell’automotive che vede Fca in prima linea sulla via dell’elettrificazione e dell’uso di fonti di alimentazione ecologicamente sostenibili. Fca dimostra di guardare al futuro e ancora una volta Mirafiori può fare la storia dell’industria automobilistica italiana e il rilancio dell’industria torinese.

 

WHIRLPOOL

Dopo l’accordo nell’ottobre 2018, con un piano industriale da oltre 250 milioni di euro per il triennio 2019-2021. Quest’intesa andava in continuità con quanto sottoscritto dalla multinazionale statunitense e le parti sindacali nel 2015, con un piano da 500 milioni di euro e la integrazione del gruppo Indesit. Ma il 31 maggio 2019 l’Amministratore delegato di Whirlpool ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Napoli perché non più sostenibile economicamente. Sito dove lavorano 420 lavoratori e dove erano previsti investimenti per circa 19 milioni di euro nel prossimo triennio. Nel corso dei mesi estivi si sono svolti numerosi incontri presso Mise ma l’azienda ha sempre ribadito la sua scelta di voler abbandonare il sito partenopeo. Nelle settimane successive, l’azienda ha proposto una riconversione industriale con la cessione della fabbrica a Prs, una società con sede in svizzera, con un capitale sociale irrisorio e un piano industriale non credibile. Il 4 ottobre c’è stata una bellissima manifestazione da parte dei lavoratori Whirlpool provenienti dai sei stabilimenti italiani del Gruppo, per solidarietà verso i colleghi stranieri e perché preoccupati dall’atto aziendale che potrebbe rappresentare l’inizio della fuga dall’Italia della multinazionale. Il 9 ottobre c’è stato un incontro tra sindacati, il Presidente del Consiglio Conte e Ministro Patuaelli che finisce con un nulla di fatto, ovvero la sospensione dei licenziamenti fino al 31 ottobre, già previsto dalla procedura di cessione del ramo d’azienda già avviata da Whirlpool. Il 30 ottobre, dopo la forte pressione dei lavoratori con numerose manifestazioni e mobilitazioni, l’azienda ha accettato la richiesta di ritirare la procedura di vendita e di non aprire alcuna altra procedura di cessazione o di licenziamenti. Per ora è solo un armistizio, ma costituisce una prima vittoria dei lavoratori. Il giorno successivo per le vie di Napoli hanno sfilato centinaia di lavoratori metalmeccanici e del Gruppo Whirlpool, in solidarietà dei colleghi napoletani e per ribadire la loro forte contrarietà all’atto unilaterale della multinazionale. Nei prossimi giorni, già dal 27 novembre, inizieranno gli incontri con le istituzioni e i vertici aziendali per cercare una soluzione vera e definitiva, che parta dal rispetto degli accordi sottoscritti per tutti gli stabilimenti italiani.

 

LE ALTRE PRINCIPALI CRISI INDUSTRIALI

L’ex sito del gruppo Whirlpool di Riva di Chieri (Torino) che doveva essere rilanciato attraverso una reindustrializzazione, dopo un anno e mezzo dall’accordo del maggio 2018, non c’è stato nessun rilancio industriale, non è ancora partita nessuna attività produttiva e attualmente sono a lavoro solo 187 sui 409 previsti. Ventures non ha i soldi per far ripartire la produzione industriale nello stabilimento ex Embraco di Riva di Chieri. La newco italo-israeliana, che 14 mesi fa ha ricevuto in eredità dal gruppo Whirlpool l’impianto torinese, fatica perfino a saldare i lavori per la rimozione dell’amianto presente in abbondanza sui tetti della fabbrica torinese. Eppure l’azienda, benché non abbia ancora avviato una linea produttiva né prototipi, dispone di liquidità sufficiente per pagare consulenze per quasi un milione e mezzo di euro ai vertici aziendali. Da subito, insieme ai nostri delegati torinesi e Rsu, abbiamo denunciato i fatti e abbiamo preteso dal Ministro dello Sviluppo economico e dal Governo italiano piena luce su una crisi industriale senza fine sulla pelle di centinaia di lavoratori. Nell’ultimo mese ci sono stati anche ritardi nei pagamenti degli stipendi. Oltre il danno la beffa si potrebbe dire. Aspettando l’intervento delle istituzioni, locali e nazionali, che risolvano urgentemente questa crisi che va avanti da troppo tempo. Un’altra situazione di crisi annosa è quella dell’Ex Alcoa. Nel febbraio 2018, dopo anni di manifestazioni e polemiche, è stato acquistato dalla società Sider Alloys ma attualmente il riavvio industriale non è partito completamente. Lo stabilimento che produce alluminio sconta alti costi dell’energia e un mancato rilancio dell’attività produttiva, con l’impiego di solo 130 a lavoro. Nelle ultime settimane, il sottosegretario al Mise, Todde, ha dichiarato che si sarebbe trovata una soluzione per quanto riguarda il costo dell’energia e la continuità industriale. Aspettiamo che queste parole lascino spazio ai fatti e che per i 500 lavoratori in Cigs ci saranno prospettive occupazionali. A Marcianise, in provincia di Caserta, la multinazionale americana dell’elettronica Jabil ha annunciato nel giugno scorso il licenziamento di circa la metà dei lavoratori del sito campano. 350 lavoratori su 707 sarebbero in esubero e rischiano il posto di lavoro. Durante i mesi estivi, ci sono stati diversi incontri sia presso il Mise che la sede locale di Confindustria, per cercare soluzioni che vedano in primo luogo esodi incentivati o ricollocazione dei lavoratori in altre aziende. Ad oggi sono state presentate dalla multinazionale aziende che non danno garanzie per la continuità produttiva e occupazionale. In un recente incontro al Ministero del Lavoro si è trovato un accordo con il prolungamento della Cassa integrazione fino al 23 marzo 2020. Il 18 novembre, presso la Regione Campania, Si è chiusa la procedura di licenziamento collettivo avviata lo scorso 24 giugno per 350 lavoratori. La vertenza si è chiusa senza un accordo tra l’azienda e i sindacati e ora il termine ultimo per licenziamenti è fissato per il 23 marzo 2020. L’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese (Palermo), insieme a tanti altri sul territorio italiano, dopo quasi dieci anni di mancati rilanci industriali, inchieste giudiziarie e fallimenti societari, ancora non hanno un reale piano che possa far ripartire la produzione e attività. Centinaia di lavoratori in cassa integrazione, peraltro per circa quattro mesi, da giugno 2018 fino al 28 ottobre, non percepita, senza prospettive occupazionali. Il 18 ottobre sono stati nominati i commissari straordinari per scongiurare il fallimento dell’azienda Blutec. Nelle prossime settimane vedremo quali saranno i progetti e i programmi di rilancio industriale per tutelare e salvaguardare l’occupazione di oltre mille lavoratori che aspettano da un decennio. Ci sono tante altre crisi industriali ugualmente gravi e che meritano una menzione come la Bekaert di Figline Valdarno, in provincia di Firenze, dove nell’ottobre 2019 l’azienda ha avviato una nuova procedura di licenziamento collettivo per i 224 lavoratori della fabbrica che sono in cassa integrazione straordinaria fino a fine anno. L’azienda ha spiegato che i contatti avviati con potenziali investitori non hanno ancora portato a una proposta concreta o alla presentazione di un business plan in grado di assicurare l’occupazione dei lavoratori rimanenti. Ci sarebbe un progetto della Legacoop per rilevare lo stabilimento  attraverso una cooperativa. Anche in questo caso staremo a vedere i futuri sviluppi, fermo restando la pre condizione della credibilità e sostenibilità di ogni piano industriale prospettato. Oppure c’è il caso dello stabilimento Bosch di Bari che, dopo la crisi del diesel, si trova in seria difficoltà nella produzione di pompe diesel ad alta pressione e dove lavorano 1.900 persone e l’azienda da due anni dichiara di voler licenziare 600 di loro. Ultima in ordine di tempo è quella riferita alla società Caf che ha avviato la procedura di licenziamenti collettivi il 25 ottobre 2019 in seguito all’annullamento da parte del TAR dell’assegnazione della commessa di manutenzione degli “ETR 500” nell’appalto delle Ferrovie dello Stato. Nell’incontro con l’azienda i sindacati hanno chiesto il ritiro della procedura oppure la riduzione del numero degli esuberi, ricollocando il personale su altre commesse acquisite o in via di acquisizione. Ora si attende una rapida convocazione ministeriale per fare in modo che chi è responsabile di questa paradossale situazione se ne faccia carico e, nel frattempo, continueranno tutte le mobilitazioni necessarie. Ci sono anche realtà industriali positive, come Finmeccanica e Leonardo, due colossi e leader nei loro settori, e altre situazioni minori che sono in controtendenza rispetto a quanto descritto fin qui. Purtroppo sono poche ma non per questo non devono essere menzionate.

 

 

*Segretario Generale Uilm

 

 

 

Assemblea nazionale metalmeccanici

Le richieste

 

Il 20 novembre al Teatro Ambra Jovinelli di Roma si è svolta la bellissima e partecipata assemblea nazionale indetta da Fim, Fiom e Uil per fermare le crisi industriali e occupazionali, far ripartire gli investimenti, riformare gli ammortizzatori sociali, tutelare la salute e la sicurezza sul lavoro.

Oltre mille delegati da tutta Italia hanno riempito il teatro e durante gli interventi si sono ripercorse le singole storie industriali, rappresentate all’interno di un contesto industriale ed economico in grave difficoltà.

La manifestazione rappresenta il seguito ideale della mobilitazione generale iniziata il 31 ottobre scorso con le due ore di sciopero e le assemblee, e in concomitanza con l’avvio della trattativa per il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici.

Uno sciopero e una mobilitazione necessari nei confronti delle imprese, del governo e del Parlamento per contrastare le crisi aziendali, 160 i tavoli di crisi aperti che non vedono al momento spiragli di risoluzione. È necessario che nell’agenda politica ritorni al centro l’impresa e il lavoro, attraverso gli investimenti pubblici e privati, per il rilancio della crescita economica e sociale e la salvaguardia dell’occupazione e la tutela della salute e sicurezza.

Nel Paese stiamo assistendo a una situazione insopportabile: aumentano il ricorso agli ammortizzatori sociali e gli annunci di chiusure di interi stabilimenti in tutti i settori dall’elettrodomestico alla siderurgia, all’automotive, all’elettronica, all’informatica fino alle istallazioni; i processi di ristrutturazione troppo spesso garantiscono redditività alle imprese scaricandone il prezzo sui lavoratori.

È necessario investire nella transizione industriale che fermi la chiusura di stabilimenti e investa sulle persone che lavorano a partire dai grandi gruppi, le multinazionali fino alle piccole imprese.

La bellissima e partecipata assemblea di oltre mille delegati di oggi al Teatro Ambra Jovinelli rappresenta la riscossa dei metalmeccanici. Cominceranno le mobilitazioni in ogni territorio per arrivare a una manifestazione generale nazionale.

Il settore della manifattura nel corso degli ultimi anni ha sofferto più degli altri la crisi economica con la perdita di migliaia di posti di lavoro. La situazione difficile che sta vivendo la manifattura italiana è una conseguenza anche dell’assenza di qualsiasi programmazione di politiche industriali da parte dei Governi.

Ogni crisi aziendale deve essere posta al centro dell’agenda dell’Esecutivo, perché senza industria e manifattura il nostro Paese non uscirà mai dall’attuale stagnazione economica.

Nei giorni scorsi sono iniziate le prime mobilitazioni per far capire al Governo che servono riforme strutturali per gli ammortizzatori sociali, investimenti in ricerca e sviluppo, fermare la strage quotidiana dei morti sul lavoro tutelando maggiormente la salute e sicurezza dei lavoratori. Il tempo è scaduto.

 

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