Uno degli ultimi padri fondatori
SETTEMBRE 2019
Il Ricordo
Uno degli ultimi padri fondatori
di   S. Veronese

 

E' con profonda tristezza ed afflizione che la grande famiglia della UIL ha accolto nei giorni scorsi la scomparsa di Raffaele VANNI, uno degli ultimi “padri fondatori” della nostra Organizzazione nel lontano marzo del 1950 e per molti anni al vertice della stessa. A Raffaele va la nostra corale riconoscenza per il suo impegno speso fin dalla giovane età per il movimento dei lavoratori e per la UIL a vari livelli, anche istituzionali – penso in seno al CNEL, al CESE (il Cnel della U.E.) e al B.I.T. di Ginevra, l’organizzazione del lavoro dell’ONU. Un impegno svolto, un caso abbastanza raro nel mondo d’oggi, con encomiabile spirito di servizio. Infatti, pur essendo stato fin da giovane un alto esponente del Partito Repubblicano, ha rifiutato – dopo l’esperienza al massimo vertice della UIL – gratificanti “collocazioni” politico-pubbliche per rimanere nella Sua organizzazione sindacale, nella quale comunque – anche in una posizione per così dire non piu’ “sotto i riflettori” – è restato un punto di riferimento importante. La lunga storia della UIL e l’altrettanto lungo percorso umano e pubblico di Raffaele Vanni si intrecciano profondamente di continuo, così come è stato per altri prestigiosi dirigenti della nostra Organizzazione, testimonianza di un impegno totalizzante che è al tempo stesso una “scelta di vita” e un atto di dedizione verso il sindacato dei lavoratori. Raffaele Vanni è stato per molti anni alla ribalta delle cronache sindacali e politiche – unitamente ad altri “attori” sociali in buona parte purtroppo scomparsi - in particolare negli anni della rinascita e di un forte protagonismo del sindacalismo confederale nella vita sociale del Paese.

 

Il suo pensiero non sempre è stato facilmente decifrabile, talvolta espresso con allocuzioni ermetiche o sfuggenti che – a volte - facevano “impazzire” estimatori ed avversari e i commentatori della stampa. Anche il nostro rapporto è stato “complesso” a causa delle altrettanto complicate – a volte drammatiche – “tappe” della vita della UIL degli anni ’70, nella quale si sono intrecciati fruttuosi momenti di convergenze propositive tra le diverse “anime” o “ispirazioni” politiche e divaricanti momenti di profondo dissenso interno e di duri contrasti politici (che Vanni preferiva chiamare più elegantemente “dispareri”). Quale abile contrattualista, Vanni è stato portato per intima propensione alla “mediazione”, una predisposizione da Lui preferita che lo ha aiutato a non portare mai il contrasto e lo scontro fino alle conseguenze estreme ed irrimediabilmente laceranti. Di questo suo pregio, la UIL – nei momenti più acuti delle sue rotture interne - ne ha tratto giovamento. Il momento di maggiore acutezza dello scontro politico con Vanni lo vissi, anche personalmente, sul tema dell’unità sindacale, con grande amarezza e rincrescimento sul piano dei nostri rapporti umani come su quelli più propriamente politici essendo io, all’epoca, un quadro dirigente dei metalmeccanici, la UILM di Giorgio Benvenuto – a quel tempo - all’avanguardia nell’avanzamento del processo unitario. I motivi della profonda divaricazione tra la UILM e la maggioranza confederale legata alla leadership di Vanni (e Ravecca) sono noti e sono stati raccontati (in più versioni) da numerose pubblicazioni interne e dalle cronache sindacali del tempo.

 

Una medesima lacerazione era vissuta anche in seno alla CISL tra i metalmeccanici e le Unioni del Nord con la componente che faceva capo a Scalia. Altrettanto nota è la vicenda che portò Vanni ad assecondare le posizioni antiunitarie più radicali rappresentate all’epoca dai compagni socialdemocratici che gli chiesero al culmine dello scontro “l’espulsione dalla Confederazione del gruppo dirigente della UILM” (del quale facevo parte)… una determinazione – che proprio grazie a Vanni – rimase poi “lettera morta” e perciò senza conseguenze pratiche. Da molto tempo, quali protagonisti di quei fatti, possiamo dire che abbiamo tutti, Vanni e Benvenuto per primi, ricomposto e rimosso le fratture del passato – anche per le mutazioni profonde che -a partire dai primi anni ’80- hanno investito il panorama politico e sindacale del Paese e ciò ci ha permesso di fare una riflessione più pacata e serena di quelle vicende, lontani dal tempo delle passioni e del coinvolgimento emotivo. L’obiettivo dell’unità organica e la costituzione (per i metalmeccanici) della FLM – contro il quale si manifestò una opposizione confederale in seno alla UIL e alla CISL e valutata con diffidenza in ambienti della CGIL con la motivazione che il processo unitario non poteva svilupparsi “a pezzi” e con tempi diversi, in realtà non trovava diffusi consensi nei “poteri costituiti” perché propugnava un modello di rappresentanza degli interessi che contrastava con gli assetti consolidati dentro e fuori il Sindacato.

 

La FLM era una espressione unitaria e pluralista della convergenza di varie minoranze critiche, non ortodosse e collocate – anche sulle politiche – in una posizione “conflittuale” non solo nelle rispettive confederazioni di appartenenza ed anche nei confronti degli stessi partiti di riferimento (compresi quelli -come il PCI e PSIUP/DP - che ritenevano di essere più vicini al movimento operaio). La forte vocazione unitaria di quel legame “tra diversi” poteva benissimo convivere – secondo noi metalmeccanici – con il pluralismo politico culturale di cui era “ricco” il mondo del lavoro nel suo complesso ed evitare tentazioni egemoniche di una certa parte. Ovviamente la lettura (e la preoccupazione) politica di Vanni di quel processo contrastava con questa impostazione e lo spiegò in quella famosa intervista all’Europeo del marzo 1972, con la quale ancor prima di dibattere la scelta negli organismi confederali dichiarava l’impossibilità – secondo la UIL – di traguardare a breve l’avviato progetto di unità sindacale organica (per sostituirla con un “patto federativo”) e ciò a qualche mese dalla già convocata Conferenza Nazionale con la quale UILM, FIM e FIOM avrebbero dato vita (come fecero) alla costituzione formale e sostanziale della FLM, il sindacato unitario dei metalmeccanici. Come sono andate a finire quelle vicende dopo gli anni ‘70 lo sappiamo tutti e, pensando ai retroscena della vicenda dell’accordo di concertazione “triangolare” di S.Valentino del 1984 (con la rottura da parte della maggioranza comunista della CGIL che non lo sottoscrisse), possiamo oggi francamente riconoscere che Raffaele Vanni non porta da solo la “croce” e la massima responsabilità della rottura di una “unità” che… a vari soggetti, anche importanti e fuori del movimento sindacale e cioè a livello politico-partitico (in primis il PCI), metteva in discussione pretese egemoniche sulla classe operaia e che, quindi, non poteva essere nei loro auspici. Infatti, un modello di sindacato, pluralista, autonomo e liberato da vincoli politici “di parte” e dotato di una cultura propria non mutuata dal sistema partitico non poteva non causare frizioni e preoccupazioni nei partiti tradizionalmente piu’ vicini al mondo del lavoro.

 

Va detto, però, che nello stesso tempo un sindacato unitario ma “plurale” e diversificato nelle mentalità della sua composizione associativa non avrebbe potuto certo identificarsi nel modello di sindacato della “conflittualità permanente” che spaventava i “benpensanti” e temuto dalle aree più moderate e maggioritarie della UIL, della CISL e della stessa CGIL. Ma, allora, perché quella scelta “solitaria” (ed improvvisa) di Vanni? Il profondo mutamento politico e sindacale intervenuto pochi anni dopo e la scomparsa di molti protagonisti (anche politici) di quel tempo avrebbero potuto permettere a Vanni di dare una risposta serena alla domanda per riempire una pagina che è rimasta vuota della storia sindacale del nostro Paese. Personalmente resto, comunque, convinto che il movimento sindacale ha perso un’occasione irripetibile per tentare una esperienza che, forse, avrebbe mutato in meglio la qualità e l’evoluzione della democrazia italiana, delle relazioni industriali ed aiutato ad evitare il collasso del sistema politico- partitico avvenuto a partire dall’inizio degli anni ’90 (ma la sua crisi nasce prima), anche se – visto l’andamento dei rapporti inter-sindacali degli ultimi anni – a Vanni è potuto risultare facile affermare di aver visto giusto. Ne abbiamo discusso molto in lunghe ed amichevoli conversazioni al CNEL, dove abbiamo collaborato per più di 15 lunghi anni in qualità di consiglieri, ambedue con incarichi di responsabilità. Ma Raffaele Vanni è stato anche un dirigente della UIL che, si è battuto con impegno verso la metà degli anni ‘60 per il rinnovamento del ruolo del movimento sindacale in una società industriale avanzata quale era diventata l’Italia dell’epoca, che si è speso per l’autonomia politica, culturale ed organizzativa del sindacato, per le incompatibilità tra cariche sindacali e politico-istituzionali, una battaglia quest’ultima che negli anni ’60 era diventata lo spartiacque tra rinnovamento e conservazione dei vecchi equilibri dentro le confederazioni.

 

Fu tra i protagonisti dei Convegni di Vallombrosa indetti dalle ACLI “socialiste” di Livio Labor ed Emilio Gabaglio su queste tematiche, respinse con fermezza la suggestione del “sindacato socialista” proposto da Italo Viglianesi, il cui esempio presso le altre tendenze sindacali avrebbe rafforzato (anziché allentarla) il legame del movimento operaio con il sistema partitico. Ma più di altri, fra i massimi dirigenti della UIL di allora, assieme a Ruggero Ravenna, che colgo l’occasione per ricordare e salutare, seppe cogliere il grande fermento e l’insofferenza diffusa che nel ’68 fece nascere, oltre alla scuola, anche dentro le fabbriche, e perciò anche fra i più giovani militanti della nostra organizzazione, il bisogno di ricercare “nuove strade”, di “un nuovo modo di far sindacato” che fece maturare una forte svolta dentro la UILM per imprimere assieme a FIM e FIOM radicali mutamenti alle condizioni di lavoro ed agli equilibri di reddito e di potere. In questo clima maturò il Congresso Nazionale di Venezia della UILM del maggio 1969 che portò alla leadership della categoria un giovanissimo Giorgio Benvenuto in sostituzione di Bruno Corti, altro dirigente storico della UIL.

 

A questa svolta e alla elezione di Giorgio, lo posso testimoniare avendo vissuto “in prima linea” detti eventi, Vanni diede un forte e convinto sostegno. Mi sembra altrettanto doveroso ricordare una vicenda del 1973, sconosciuta ai molti, che rappresenta un merito di Vanni: il suo fermo e deciso rifiuto ad intraprendere l’avventura del c.d. “sindacato democratico” che gli ambienti conservatori della maggioranza di governo del tempo e la minoranza antiunitaria CISL di Scalia, su pressione dei circoli reazionari di Washington, volevano promuovere perché preoccupati delle “pieghe” che aveva preso la situazione sociale nazionale in contrasto con la “svolta a destra” impressa al quadro politico. A Vanni, per convincerlo, venne persino offerta la carica di Segretario Generale di questo ipotizzato “sindacato democratico”. Il suo deciso rifiuto fu determinante nel bloccare sul nascere l’avventura di una scelta che avrebbe certamente arrecato danni enormi alle sorti del movimento sindacale italiano. E non solo. Sono vicende significative che caratterizzano il lungo percorso intrapreso da Vanni proteso sempre – nelle sue intenzioni e nelle sue scelte – verso un orizzonte positivo ed affatto regressivo. Se, talvolta, quest’ultime sono apparse ad alcuni di noi contradditorie e non condivisibili, come nel caso del “no” all’avanzamento del progetto unitario nel ’72, penso che ciò sia derivato dalla responsabilità che Egli sentiva di garantire sopravvivenza, unità e ruolo alla UIL, all’interno di una visione sindacale nella quale autonomia, unità e pluralismo delle culture fossero tra loro inscindibili.

 

In ciò, la Sua esperienza ed il suo pensiero – mi sembrano – una lezione di viva attualità da trasmettere a tutti i quadri e militanti meno anziani della UIL (e non solo) che non hanno potuto conoscerlo da vicino. 

 

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