Quando gli americani vinsero
l’America
OTTOBRE 2019
Inserto
Quando gli americani vinsero l’America
di   Piero Nenci

 

 

Non è stato facile per nessuno definire il proprio spazio di vita e di libertà. Non per chi è stato costretto, armi in pugno, a liberarlo dagli invasori. Né per quanti hanno cercato di impiantarselo ex novo come i profughi europei che nel sei-settecento attraversarono l’Atlantico in cerca di un luogo dove cominciare tutto da capo. Approfittando della ricorrenza, in questi mesi, di alcune date ricorderemo qui le vicende della nascita delle repubbliche del nord America. E racconteremo come a metà dell’800 “il sonno della ragione generò in loro i mostri” quando precipitarono in una micidiale guerra civile. Nocciolo della sanguinosa lite: un diverso modello di sviluppo economico e l’impiego nelle grandi piantagioni del sud di manodopera servile. La guerra che “accese nere braci nei cuori” durò quattro anni, provocò immani distruzioni, quasi 700 mila morti, più di 470 mila feriti.

 

 

Ricorrono quest’anno due date particolarmente significative: fine agosto 1619 (400 anni fa) la nave inglese White Lion scaricò in Virginia, la prima colonia inglese del Nordamerica, una partita di 33 schiavi africani; appena quindici mesi dopo da un’altra nave inglese – la May Flower – sbarcarono i famosi 41 padri pellegrini, fuggiti dalla madre patria in nome del diritto alla loro libertà religiosa che, naturalmente, niente aveva a che fare con la libertà dei negri. L’altra data significativa è il 2 dicembre 1859 (160 anni fa) quando John Brown (sì, proprio quello di “Glory, glory, alleluia!”), fallita l’insurrezione armata che doveva avviare un movimento di liberazione degli schiavi, fu giustiziato sulla forca. Due anni dopo – il 12 aprile 1861 – si aprì il mattatoio della guerra civile tra gli Stati americani del nord “unitari” e quelli del sud “secessionisti“. “Ovunque nel cuore nere braci”, scrisse il poeta Walt Whitman che di quella guerra fu il reporter. A scontrarsi furono soprattutto due diversi sistemi economici: quello degli Stati del nord più progredito e moderno, e quello degli Stati del sud basato sull’economia della terra con grandi piantagioni che abbisognavano di parecchia manodopera non reclutabile sul posto e quindi da importare: il prezzo medio di uno schiavo negro in buone condizioni arrivò nel 1850 a 23 sterline.

 

Quando fu inventata l’America

La storia dell’America – come sanno anche gli scolari delle elementari – cominciò nel 1498 quando Colombo alla sua terza spedizione toccò finalmente terra in un nuovo continente che lui però continuava a credere fosse l’estrema propaggine del grande Oriente. La prima spedizione con le tre caravelle fornite dal re di Spagna, iniziata il 3 agosto 1492, era approdata il 12 ottobre all’isola di Bahama, conquistata in tutta solennità per il sovrano spagnolo che aveva pagato le spese, e battezzata San Salvador. La seconda, con 17 navi e 1.500 persone – tutte a caccia di avventure, tesori e spezie – è del settembre successivo. Sbarcano a Guadalupa, Haiti, Giamaica e Cuba che continuano a ritenere il margine estremo del continente orientale. Finalmente nel 1418, senza rendersene conto, Colombo mette davvero piede su un nuovo continente. Anche lì fiumi e foreste ma nessun tesoro. Chi aveva investito nella costosa impresa è deluso e si ribella all’ammiraglio genovese: i rappresentanti del re aprono un’inchiesta, lo arrestano, lo processano, lo degradano e lo rispediscono in Spagna. Dove sarà scagionato, riabilitato e reintegrato nel suo grado dal re. L’ultima spedizione comandata da Colombo è del 1502: ora ha 51 anni; arriva fino a Panama e comincia a realizzare che quei territori non sono proprio l’estremo oriente dell’Europa, troppo diversi dalle descrizioni particolareggiate di animali, uomini e usi e costumi descritti con minuzia dai Polo e da altre decine di viaggiatori. E se quelle non erano le favolose terre che andavano cercando si trattava certamente di terre nuove e sconosciute.

 

Curiosità e interessi

Erano state proprio queste le due molle che per tutto il 1400 avevano spinto molti coraggiosi ad uscire dall’Europa e a cercare nuovi territori o, meglio, nuove strade per spaziare verso le favolose Indie senza dover sottostare alla mediazione di egizi, persiani o arabi. Così la repubblica di Genova riuscì a crearsi il monopolio dei porti sul Mar Nero e quella di Venezia delle coste dell’Egeo, della Siria e di Alessandria. Poi l’espansione turca bloccò i commerci dei genovesi che furono costretti a cercare nuove rotte fuori dal Mediterraneo. Per raggiungere i Paesi delle spezie non restava loro che aggirare l’Africa che nessuno sapeva quanto fosse lunga e larga e come fossero i venti e i mari in quei paraggi. Così furono scoperte Madera, le Canarie, le Azzorre. Ma era più semplice partire dal Portogallo che da Genova; lì infatti si stabilì la famiglia Pessagno un discendente della quale arrivò (si diceva) alla punta estrema del continente africano. Questi ammiragli fecero scuola ed Enrico il navigatore (figlio del re Giovanni I del Portogallo) ne raccolse ed approfondì le esperienze; istituì una scuola di marineria: furono elaborate carte nautiche, catalogate notizie, aggiornate le mappe. Fu un susseguirsi di nuovi tentativi, ognuno dei quali dava nuovo impulso a nuove spedizioni finché a fine secolo Vasco de Gama riuscì nell’impresa di doppiare l’Africa, attraversare il nuovo oceano che gli si era aperto davanti e giungere alle Indie. Fu un gran colpo per il commercio: all’inizio del ‘500 le spezie importate direttamente sul mercato di Lisbona costavano un terzo di quanto costavano sul mercato veneziano. E con le spezie il de Gama aveva trovato l’oro che Colombo invece non trovò mai; sarebbe dovuto arrivare fino al Messico per riportare in Spagna il metallo giallo. A questo punto bisognerà dire qualcosa sulle tanto ricercate spezie. Greci e romani ne facevano grande uso sia per condire i cibi che per conservare le carni. Durante l’impero si usavano anice, pepe, capperi, timo, zafferano, cannella, noce moscata e zenzero; timo, finocchio, mirra e cassia si usavano in cucina, per aromatizzare il vino e anche in alcuni atti di culto religioso. Nel VII secolo i mercanti siriaci avevano impiantato un florido mercato delle spezie a Marsiglia; altro prospero centro fu Comacchio; poi dal IX secolo il monopolio di questi prodotti passò a Venezia. Le crociate intensificarono il mercato di questi prodotti che nel medio evo arrivarono fino al nord Europa e furono utilizzati anche in medicina. E siccome i mercanti erano pure banchieri, questi prodotti divennero anche moneta di scambio. Il Portogallo impiantò una sua colonia in India e aprì un mercato di queste mercanzie ad Anversa per commerciare nel centro Europa, in seguito il mercato principale si spostò ad Amsterdam fornita dai possedimenti olandesi in Malesia. Poi dal nuovo mondo di Colombo cominciarono ad arrivare anche zucchero, cacao, caffè e parecchi altri prodotti fino ad allora sconosciuti nel vecchio mondo. In Europa solo nel 17° secolo si era cominciato ad immagazzinare foraggio per l’inverno; prima di allora il bestiame doveva essere macellato o sarebbe morto di fame e per conservarne le carni erano necessari sale in abbondanza e spezie. Era già successo fin dal tempo dei romani che avevano costruito una strada apposta (la Salaria) che dal mare arrivava in città, attraversava il Tevere dove esisteva un guado (vicino al mercato boario) per trasportare il sale verso l’interno popolato da numerosissimi greggi. Ed era successo in mille altri luoghi. Ora sulle carni, al sale si potevano aggiungere numerose spezie che oltre a favorirne meglio la conservazione ne miglioravano il sapore, che divennero segno di prestigio e fecero moda.

 

Queste popolazioni sconosciute

Eccola l’America di cui stiamo parlando. Il nome le fu appioppato da Amerigo Vespucci che dimostrò che il merito della scoperta era proprio di Colombo. I nativi che vi risiedevano e che furono chiamati indiani – ora amerindi – ci sarebbero arrivati tra il 40 e il 10 mila a.C. dalla Siberia durante le lunghe glaciazioni che univano l’Eurasia a questo continente. Erano nomadi, cacciatori e pastori; pare che una seconda fase migratoria si sia verificata tra il 5 mila e il 2 mila a.C: si stabilì più a sud, fino agli altipiani messicani e andini dove svilupparono l’attività agricola producendo patate, zucche, mais e cotone. Le civiltà precolombiane degli olmechi, dei maya e degli zapotechi (Messico e coste caraibiche) e dei quinbaya e chimù (Ande settentrionali) strutturate in città-stato e rette da regimi rigidamente teocratici si sarebbero sviluppate tra il 1500 e il 200 a.C. Approfondirono alcune conoscenze astronomiche, elaborarono un calendario, furono capaci di erigere piramidi a gradoni, seppero lavorare l’oro, l’argento e la ceramica, riuscirono nella pittura e nella scultura. Ma non seppero invece lavorare il ferro e non conoscevano l’uso della ruota e questo fu per loro fatale negli scontri con gli sparuti gruppi dei conquistadores. I quali, tra l’altro, li contagiarono con svariate malattie che si rivelarono letali perché mancavano loro difese immunitarie efficaci. Resisi conto che quel territorio non era l’oriente delle meraviglie, gli europei da prima pensarono di attraversarlo per arrivare alle Indie, poi capirono che potevano sfruttarlo a loro piacimento: con pochi armati avviarono una guerra di conquista, devastando e depredando le ricchezze di quelle civiltà secolari e, naturalmente, violentando natura e persone. Esaurita la razzia cominciò lo sfruttamento; si crearono immense encomiendas, grandi territori dati in usufrutto dai re ai conquistatori col diritto di imporre agli amerindi tributi in natura e in prestazioni, purché poi commerciassero con la madre patria. Ma quella manodopera servile non era numerosa perché falcidiata dalla violenza della conquista e delle malattie, così fu necessario trovare nuovi schiavi: rubandoli dalle Riduzioni dei gesuiti o acquistandoli dai negrieri. Perché proprio dall’Africa? Perché era la terra meno lontana da depredare e perché in Africa la schiavitù era “un meccanismo profondamente strutturato, fatto di rotte, snodi, mercati e pratiche di assoggettamento già collaudati sul suolo africano prima dell’avvio delle tratte extra-continentali”. Paul Lovejoy che ha approfondito questo spicchio di storia ha pubblicato anche una stima, il più possibile vicina alla realtà, del flusso della tratta in partenza dalle coste africane. Tra il 1501 e il 1867: 12 milioni 251 mila individui, senza contare quanti non erano arrivati vivi a destinazione e finiti in mare come merce avariata. Negli ultimi decenni del 1700 il costo medio di uno schiavo al momento dell’imbarco lievitò da 14,8 a 21-22 sterline. Nel 1820 a causa di vari fattori la merce umana si deprezzò scendendo sotto le 10 sterline, per risalire di nuovo a 23 sterline nel 1850. Prezzo medio questo, che variava in base all’età dell’oggetto, alla sua struttura fisica e al suo sesso.

 

L’opera dei religiosi

Quando partirono le spedizioni economico- militari verso il nuovo mondo non mancarono mai i religiosi missionari convinti essere loro dovere portare l’annuncio del Vangelo a queste nuove popolazioni. Certo, altro era proporre il Vangelo testimoniandolo con la propria condotta altro imporlo. Non mancarono né i primi né i secondi. Del tutto particolare fu la condotta dei gesuiti che dal 1610 in poi fondarono nell’America meridionale una sessantina di comunità e cominciarono ad organizzare i nativi locali – i guaranì – in popolosi villaggi autonomi (le reducciones). Ne fondarono più di trenta tra Argentina, Uruguay, Bolivia e Brasile. Alle varie tribù, che magari si erano combattute fino allora, veniva imposto di convivere in uno spazio comune dotato di abitazioni, chiesa, scuole, laboratori, piccole officine, terra da coltivare e quanto era necessario alla comunità. Dovevano però lasciarsi catechizzare e convertire. Godevano dei frutti del proprio lavoro, imparavano nuovi sistemi di coltivazione, ricevevano un insegnamento elementare, potevano imparare anche un altro mestiere lavorando il legno o il metallo, disponevano di difesa e di assistenza. Dati i tempi, tutto nello stile del più rigido paternalismo. A chi criticava questi metodi perché coercitivi, i gesuiti rispondevano che si trattava di educare degli adulti che avevano uno sviluppo mentale da bambini. Col tempo sarebbero cresciuti e avrebbero fatto da sé. È documentato che in meno di tre generazioni parecchi nativi sudamericani erano passati da uno stato di vita primitivo ad uno stato di civiltà abbastanza elevato: la prima tipografia dell’America latina fu organizzata proprio in una di queste reducciones. E intanto erano liberi dalla schiavitù dei conquistatori spagnoli e portoghesi. E infatti dalle fazendas dove migliaia di guaranì erano costretti al lavoro coatto, regolato dalla frusta non pochi fuggivano verso queste comunità danneggiando i fazenderos. I quali cominciarono ad assaltare le reducciones per riprendersi i fuggitivi o rifornirsi di manodopera senza doverla pagare. Per cui i gesuiti furono costretti ad organizzare anche una vigilanza armata. Questa esperienza finì nel 1750 col trattato di Madrid col quale Spagna e Portogallo si accordarono e definirono le rispettive zone di conquista e le missioni dei gesuiti dovettero chiudere: i guaranì, naturalmente, non furono consultati. Si ribellarono ma furono facilmente massacrati o ricondotti al lavoro coatto.

 

La colonizzazione del nord

Inglesi, francesi e olandesi colonizzarono il nord dell’America ma cominciarono circa cento anni più tardi: Nuova Francia (lungo il fiume San Lorenzo) nel 1604, Jamestown (Virginia) nel 1607, Nuova Olanda (foce dell’Hudson) nel 1624. Le società commerciali si impegnarono coi rispettivi governi a colonizzare i nuovi territori in cambio del monopolio sugli scambi che sarebbero riuscite ad attivare. Questo contesto cominciò a cambiare quando un certo numero di comunità religiose perseguitate in Europa cercarono la libertà stabilendosi nel nuovo mondo. Il primo gruppo, quello dei puritani fuggiti dall’Inghilterra per scampare alla persecuzione della chiesa l’Inghilterra – i Padri pellegrini – toccò la terra americana il 20 novembre 1620 e si stabilì nel Massachusetts. La corona inglese permetteva loro di autogovernarsi secondo i propri principi morali e religiosi purché rispettassero gli obblighi economicocommerciali (esclusiva degli scambi con la madre patria) già stabiliti per chi li avevano preceduti. Dopo i primi pellegrini arrivarono altre comunità e quasi tutte adottarono il principio della proprietà terriera diffusa, divisa di diritto fra tutti i membri maschi della comunità e quindi a carattere democratico sulla base dell’autonomia economica e della libertà politica. I nuovi arrivati non dovettero competere con le civiltà strutturate degli Inca e degli Aztechi, come spagnoli e portoghesi nell’emisfero meridionale, ma si scontrarono con la resistenza opposta dalle tribù indigene – quelle chiamate, impropriamente, indiane – alle quali via via sottraevano porzioni di territorio nella loro espansione dalla costa dell’Atlantico verso l’interno del continente. Dopo il Massachusetts, lo Stato del New Hampshire nel 1629 e del Conneticut nel 1662. Caratteristica di tutte queste nuove comunità arrivate dall’Europa protestante fu il rigore religioso e morale, addirittura teocratico e intollerante, l’austerità di vita e l’impegno culturale (già nel 1636 fu fondata l’università di Harvard). Un esempio per tutti: il caso delle streghe di Salem (Massachusetts) quando l’isteria collettiva di quella piccola comunità processò, torturò e fece impiccare 19 donne (altre due morirono prima di arrivare al patibolo). Nel 1976, riaprendo il caso ed approfondendo questa tragica vicenda la ricercatrice Linda Caporael pubblicò uno studio per dimostrare che in quel periodo si erano verificati inverni prolungati e rigidi e quindi lunghe carestie e fame; la popolazione si nutriva quasi solo di farinacei ottenuti da granaglie mal conservate e spesso infettate da un fungo (Clavceps purpurea) con proprietà allucinogene, tanto che dai suoi alcaloidi è poi stata sintetizzata l’Lsd. Altro che stregonerie e commerci diabolici.

 

Lo scontro con la madre patria

Le nuove colonie arrivarono ad essere tredici. Molto attive poiché dovevano ricostruire dal nulla società, città e lavoro, adottarono nei loro rapporti sistemi democratici. E la madre patria Gran Bretagna accordò loro ampia libertà di governo, di assemblee, di commercio e bilanci. Nel 1609 la Virginia si dette anche una Costituzione. Nel 1625 fondarono una colonia i profughi olandesi (New Amsterdam), nel 1655 gli svedesi (Delaware), nel 1681 William Penn impiantò la comunità dei quacqueri che si chiamò Pennsylvania. Tutte queste colonie erano legate tra loro per la dipendenza che avevano con la Gran Bretagna di cui avevano adottato la tradizione parlamentare. Ma le difficoltà che dovevano affrontare per sostentarsi, crescere ed organizzarsi, per lottare contro gli indios e contro le limitrofe colonie francesi li aiutarono a far sorgere in loro un sentimento di identità e di destino comune. Si cominciò allora a pensare di superare i rapporti di alleanza e costituire una Confederazione unitaria e dopo la rinuncia della Francia alle proprie colonie, nel 1763, anche ad una maggior indipendenza dal Paese d’origine. Da quando erano sbarcati i pionieri erano ormai passati 150 anni, tre generazioni, il concetto di madre patria era ora molto meno stringente. Anche perché Londra, senza consultarle, pretese di imporre loro una nuova tassa per estinguere i debiti contratti per la Guerra dei Sette anni. A questo punto le colonie si trovarono d’accordo a dire di no: non avrebbero pagato altre tasse imposte da un Parlamento in cui non erano rappresentate e che non le aveva neppure consultate. Londra ritirò questa imposizione che colpiva soprattutto gli atti pubblici e la pubblicistica ma tornò alla carica nel 1767 con le leggi del Cancelliere Charles Townshend che miravano ad aumentare le entrate dalle colonie per pagare gli stipendi dei governatori e dei giudici in modo che fossero indipendenti dal controllo coloniale; altro scopo era creare strutture che meglio controllassero i regolamenti commerciali.  Soprattutto, il Cancelliere voleva ribadire che il Parlamento di Londra aveva tutto il diritto di esigere quei tributi. Le colonie risposero anche questa volta di no e siccome il centro che con maggior vigore si opponeva era Boston, le truppe inglesi la occuparono e ne bloccarono il porto. L’insofferenza e la ribellione dei bostoniani si gonfiò, le proteste si moltiplicarono finché la sera del 5 marzo 1770 si arrivò ad uno scontro violento e confuso nel quale persero la vita cinque cittadini. Seguì un processo ma nessun militare inglese venne condannato. Era chiaro che Londra non aveva nessuna intenzione di cedere: le colonie dovevano servire come fonte di materie prime per lo sviluppo dell’Inghilterra. Neppure i coloni volevano cedere: non erano popoli conquistati ma popoli liberi e siccome la libertà consiste nell’obbedire alle leggi che ci si è date mentre sottomettersi ad una volontà estranea significa lasciarsi asservire, non volevano essere trattati come “negri” di Londra. Il conflitto divenne inevitabile: cominciò il 16 dicembre 1773 quando i commercianti di Boston per boicottare le merci inglesi assalirono le navi della Compagnia delle Indie orientali e buttarono in mare tutto il carico di tè che trasportavano. Re Giorgio III non poteva sopportare un’offesa del genere, emanò subito quattro leggi che i suoi sudditi americani definirono “intollerabili”: chiusura del porto di Boston finché non fosse stato risarcito il danno del tè, nuove disposizioni sull’amministrazione della giustizia e sull’alloggiamento delle truppe britanniche, nomina di un governatore regio per il Massachusetts con pieni poteri. Dopo questa nuova provocazione la ribellione delle colonie americane contro la loro antica patria divenne guerra guerreggiata nell’aprile 1775. Guerra cui presero parte, in alleanza con le tredici colonie ribelli, Francia, Spagna e Province Unite per contrastare il predominio inglese sui mari; dall’altra parte la Gran Bretagna rafforzò il suo corpo di spedizione assoldando mercenari tedeschi dell’Assia e dell’Hannover. Dopo una serie di scontri per terra e per mare e dopo la sconfitta di Yorktown la Gran Bretagna dovette cedere e firmare il trattato di pace di Parigi del 1783. Non raccontiamo di più di questa guerra di indipendenza che fu come la naturale evoluzione di un popolo che stava crescendo: era già avvenuto altrove, soprattutto in Europa e dopo alcuni decenni sarebbe avvenuto anche in Italia. Andiamo piuttosto alle pagine nere della guerra civile che le colonie combatterono tra loro causando migliaia di morti e feriti e immense rovine che potevano essere risparmiate.

 

La Costituzione

Dopo la guerra di indipendenza le 13 colonie, ormai Stati indipendenti, pensarono dapprima di governarsi attraverso un governo centrale ma non riuscirono ad istituire una legislazione efficace e che fosse accettata da tutti; anzi apparve chiaro che alle singole colonie ripugnava l’idea stessa di un governo centralizzato. Nel 1787 a Filadelfia (Pennsylvania) si riunì una Convenzione coi rappresentanti di tutti gli Stati per studiare una forma di governo di tipo confederale; nel giro di pochi mesi fu scritta una Costituzione che entrò in vigore il 4 marzo 1789 (due mesi prima che a Parigi scoppiasse la rivoluzione). Questa Carta fu, naturalmente il frutto di intrecciati compromessi tra i diversi Stati, le diverse situazioni e le diverse fazioni politiche. Si apre con un preambolo cui seguono solo sette articoli ai quali furono aggiunti prima dieci emendamenti e in seguito altri diciassette. Il preambolo dice: “Noi popolo degli Stati Uniti, allo scopo di perfezionare ulteriormente la nostra Unione, di garantire la giustizia, di assicurare la tranquillità all’interno, di provvedere alla comune difesa, di promuovere il benessere generale e di salvaguardare per noi stessi e per i nostri posteri il dono della libertà, decretiamo e stabiliamo questa Costituzione degli Stati Uniti d’America”. Il primo articolo stabilisce la forma di governo, il secondo la figura e i poteri del presidente, il terzo il sistema giudiziario, il quarto i rapporti fra i vari Stati e verso il governo federale. L’articolo cinque stabilisce il processo necessario per emendare la Costituzione stessa. Il successivo impone la Costituzione, le leggi e i trattati degli Stati uniti come leggi supreme per il Paese e il settimo delinea i requisiti per la ratifica della Costituzione: se la approvavano nove Stati (su tredici) sarebbe risultata ratificata per tutti. Gli emendamenti furono pensati per precisare e attualizzare nel tempo la Costituzione senza toccarne i pilastri fondativi. Il gruppo dei primi dieci è conosciuto come ‘Carta dei diritti’; famoso è il primo che garantisce la libertà di culto, parola e stampa, di riunirsi pacificamente e di appellarsi al governo per chiedere la correzione dei torti; il 2° garantisce il diritto di possedere le armi; il 6° garantisce un processo penale rapido e pubblico, il 13° (del 1865, dopo la guerra civile) abolisce la schiavitù, il 15° assicura il diritto di voto agli ex schiavi; il 18° proibì la produzione e il consumo di bevande alcoliche (il proibizionismo) poi emendato col 21° emendamento; il 19° (del 1920) garantisce il diritto di voto alle donne.

 

Una difficile unione

Dunque dopo la guerra di indipendenza e la stesura della Costituzione si può dire che erano nati gli Stati Uniti dell’America del nord che col tempo aumentarono di numero. Stati Uniti ma in realtà Nazione divisa per molti motivi: le colonie distribuite sulla costa atlantica erano tanto disuguali una dall’altra per provenienza, nascita e pensiero fondativo; disposte per più di duemila chilometri lungo l’oceano avevano un clima diverso e quindi diverse erano le loro condizioni, il loro lavoro produttivo e lo stile di vita. Quelle più meridionali, disponendo di territori molto estesi abbisognavano di numerosa manodopera che reperirono dal mercato di esseri umani e svilupparono un sistema agricolo di piantagioni con l’attività coatta degli schiavi per produrre caffè, zucchero, tabacco. Dopo il primo gruppo (Jamestown 1619) ne arrivarono sempre più numerosi, per tutto il ‘600 si calcolano 1.500 arrivi all’anno. Si venne così a costituire una società aristocratica di proprietari terrieri dalla vita raffinata copiata dallo stile della vecchia Europa. Le colonie del nord, viceversa, si dedicavano alle colture cerealicole a base familiare, alla pesca, alla cantieristica, al commercio marittimo. La Costituzione, frutto di molteplici compromessi, non era in grado di operare l’unità in senso civile. Pur non costituzionandola, veniva ammessa la schiavitù, consentendo agli Stati di sommare al numero delle persone libere i tre quinti di “tutte le altre persone”, cioè degli schiavi, nel computo per fissare le rispettive quote di deputati da eleggere al Congresso; questa norma naturalmente favoriva gli Stati meridionali e questi Stati ne pretesero la più stretta applicazione. Inoltre la Charta non aveva previsto le possibili discrepanze tra Stati e governo federale su questioni che i primi o il secondo ritenessero essenziali. Per tutta la prima metà dell’800 gli Stati Uniti si ressero su un continuo e delicato bilanciamento tra spinte centrifughe dei singoli Stati e spinte centripete dettate dal bisogno di costruire la Nazione. Fino alla fine degli anni quaranta prevalsero le seconde: gli americani si sentivano un popolo peculiare, il più libero, il più coraggioso e intraprendente. In seguito però lo sviluppo tecnico e industriale cominciò a dividere il nord dal sud. Vennero così a coesistere un sistema economico agricolo-industriale nel nord fondato sul lavoro libero contrattualizzato e un sistema, altrettanto moderno, ma quasi solo agricolo basato sulla manodopera servile per la produzione di cotone e tabacco al sud. “Due sistemi opposti ma complementari – perché le industrie settentrionali usavano il cotone sudista e vendevano carne e granaglie al sud cui occorrevano anche i servizi bancari e commerciali del nord – che si espansero rapidamente anche verso ovest ed erano economicamente razionali e ben inseriti nell’economia atlantica”, come ha scritto Tiziano Bonazzi. La coesistenza tra i due sistemi andò in crisi dopo il 1848, dopo la conquista della California (strappata al Messico) e per la sistemazione dei territori del nord-ovest che arrivavano ormai fino al Pacifico. Gli Stati del sud volevano introdurvi il latifondo su base schiavista, quelli del nord volevano riservarli ai pionieri bianchi che continuavano ad arrivare. Ma al di là della soluzione pratica, gli Stati del nord leggevano questa pretesa del sud come “una riaffermazione della legittimità costituzionale dello schiavismo e del suo essere parte integrante della nazione”. Nel corso degli anni cinquanta la crisi si invelenì provocando in Kansas una diffusa guerriglia tra schiavisti e antischiavisti. Da locali e circoscritti a questioni limitate, i contrasti divennero generali e politici: il nord, basato sul lavoro libero, vedeva il sud come un ammasso di piantatori retrogradi civilmente e culturalmente, nemici dei valori di libertà contenuti nella Dichiarazione di indipendenza. Viceversa il sud vedeva il nord come un ammasso di profittatori che volevano sottomettere il sud e creare una degradata società razzialmente mista. I deputati del sud riuscirono a far passare al Congresso una legge che poteva aprire loro il Far West e nel 1856 la Corte suprema, esaminando il caso di uno schiavo che pretendeva la libertà, dichiarò che i neri non godevano di alcun diritto perché non compresi nei documenti fondanti della nazione. In questa occasione al nord nacque un nuovo partito, il repubblicano, favorevole all’abolizionismo della servitù. Presentatosi per la prima volta alle elezioni nel 1856 intese bloccare l’espansione della schiavitù nei grandi territori dell’ovest per promuovevi il progresso agricolo e industriale fondato sul contratto e il lavoro libero, unica forma sociale ritenuta degna per una nazione fondata sul concetto di libertà. Sconfitti, i repubblicani si ripresentarono quattro anni dopo e riuscirono a far eleggere il loro candidato, Abramo Lincoln.

 

John Brown

Questo singolare personaggio, entrato ormai nella leggenda e non solo degli Stati Uniti, era stato influenzato dal padre a sostenere la libertà degli schiavi e ad odiare gli schiavisti. Contadino e allevatore, mise al mondo con due successive mogli 20 figli. Nel 1837, quando un pastore presbiteriano venne linciato perché sosteneva la causa dei negri si impegnò solennemente, e così fece giurare ai suoi figli, di combattere la schiavitù e chi la sosteneva e le occasioni non gli mancarono di certo. Aveva letto di Mazzini, Garibaldi e della Carboneria italiana (le cui vicende erano molto seguite dai giornali d’Oltreoceano), si ispirò a loro e ad alcune azioni del nostro Risorgimento per mettere in atto una serie di imprese contro gli schiavisti e per la liberazione degli schiavi, fino ad ipotizzare uno Stato indipendente in cui tutti gli ex schiavi potessero vivere con pari diritti e dignità dei bianchi. Sapevano tutti quali erano le condizioni di vita dei discendenti della tratta. Ce le ha ricordate anche Toni Morrison, la premio Nobel scomparsa pochi mesi fa: erano considerati solo forza-lavoro come i bufali e gli asini; chi tentava la fuga o dimostrava defezioni fisiche sul lavoro veniva punito davanti agli altri negri perché non venisse imitato: le sue caviglie venivano legate alla sella di un cavallo e i polsi alla sella di un altro cavallo. I cavalli posti coda contro coda venivano allontanati uno dall’altro in modo che il malcapitato restasse sospeso a mezz’aria. Questo provocava slogature e urla strazianti. Quando gli altri schiavi avevano osservato bene il trattamento, i cavalli venivano frustati in modo che scattassero allontanandosi uno dall’altro e allo schiavo sotto tortura si strappavano le braccia dal corpo. Ora era diventato uno essere inutile alla produzione e per non ingombrare il terreno veniva bruciato. A questo punto apriamo una piccola parentesi: l’8 agosto scorso sui nostri giornali è apparsa una fotografia che a prima vista sembrava scattata duecento anni fa; invece è proprio di quest’anno: due agenti di polizia a cavallo di Galveston (Texas) avevano arrestato un afroamericano, l’avevano ammanettato e legato ad una fune che uno di loro reggeva, lo conducevano al posto di polizia: i poliziotti a cavallo, lui a piedi. Meno male che il loro superiore ha ammesso: credo che i nostri agenti abbiano commesso un errore, dovevano aspettare il cellulare. Chiusa la parentesi. Chissà quante volte John Brown aveva assistito a scene di questo genere. Dunque era determinato a provocare un’azione di massa perché sapeva che gli schiavi non si sarebbero ribellati facilmente ai loro padroni, era troppo rischioso. Per aiutarli a raggiungere la libertà bisognava creare le condizioni di una rivolta improvvisa e generalizzata, bisognava che quanti erano inorriditi dalle condizioni di vita e di lavoro degli schiavi unissero le forze e compissero una insurrezione. Per la quale erano necessarie le armi perché i padroni degli schiavi non avrebbero accettato facilmente la perdita della loro manodopera servile. Insomma occorreva arruolare gente e armarla. Brown prese contatti con vari convinti antischiavisti, fu elaborato un piano che prevedeva l’impiego di più di quattromila uomini, compresi gli schiavi che avrebbero abbandonato le piantagioni, e la sera del 16 ottobre 1859 assaltò l’armeria di Harper’s Ferry (Virginia occidentale). Però al momento d’entrare in azione il suo esercito non contava che una quindicina di persone: fu affrontato dagli agricoltori locali, dai commercianti e dalla milizia. Catturato e processato John Brown fu condannato all’impiccagione che avvenne la mattina del 2 dicembre. La sua agonia durò 35 minuti, poi il suo corpo ancora col cappio al collo fu messo in una cassa e spedito alla famiglia a New York per la sepoltura. Ma il suo sconsiderato tentativo di insurrezione degli schiavi non fu inutile: “lascerà una fenditura che finirà per separare l’Unione”, commentò dalla Francia Victor Hugo. La fenditura si evidenziò appena un anno dopo.

 

Esplode la guerra

Nel dicembre 1860 la Carolina del sud, sostenendo che la Costituzione non era vincolante perché non era stata elaborata dal popolo ma uscita da un compromesso fra Stati, decise di uscirne e di abbandonare l’Unione; nei mesi successivi altri sei Stati la seguirono e fondarono una Confederazione cui dettero una nuova Costituzione che ammetteva il diritto di secessione e affermava il diritto di sfruttamento del lavoro coatto. Presidente venne eletto Jefferson Davis, militare, piantatore ed ex ministro della guerra dell’Unione. Gli altri otto Stati che pure non accettavano di cancellare l’istituzione della schiavitù rimasero ancora nell’Unione. Nel 1861 gli unionisti elessero alla presidenza Abraham Lincoln (XVI presidente). Era un moderato: non voleva che la schiavitù venisse introdotta dove non c’era ma tollerava che continuasse là dove già era praticata. Non aveva nessuna intenzione di procedere con la forza contro gli scissionisti ma alla fine dovette arrendersi all’arroganza degli Stati del sud che attaccarono per primi. Fu il generale Toutant de Beauregard comandante delle milizie della Carolina del sud ad aprire il fuoco: quando Fort Sumter(in mano agli unionisti) non accettò di arrendersi lo prese a cannonate e la guerra cominciò e, al solito, tutti pensarono che lo scontro sarebbe durato poco. A quel punto altri quattro Stati – Virginia, Arkansas, Tennessee e Carolina del nord – abbandonarono l’Unione, invece gli Stati di confine tra Unione e Federazione – Kentuky, Missouri, Maryland e Delaware – rimasero fedeli all’Unione. Confrontando la situazione dei due contendenti gli Stati unionisti del nord erano più forti: avevano due terzi in più di uomini arruolabili, un enorme vantaggio industriale ormai operativo (al sud era solo agli inizi), una cantieristica più sviluppata, una rete ferroviaria tripla. Dunque l’Unione poteva pensare ad una guerra d’offesa mentre la Federazione puntava su una guerra di difesa, la cui forza maggiore era il cotone da cui dipendevano numerose industrie europee che – si pensava – sarebbero intervenute a suo favore. Infatti la Federazione inviò ambasciatori in Europa per spiegare agli Stati più importanti che stavano combattendo per la libertà e che avevano bisogno d’aiuto. I due contendenti avviarono una campagna d’arruolamento volontario ed ottennero una risposta entusiastica. Ma entrambi gli eserciti erano male equipaggiati e peggio preparati. Furono gli unionisti ad innescare il primo vero scontro, il 21 luglio 1861, a Bull Run, poco a sud di Washington. Sul luogo della battaglia oltre ai militari coi loro cannoni erano arrivati anche carri, carrozze e calessi: centinaia di cittadini e cittadine in ghingheri non volevano perdersi lo spettacolo della battaglia. La confusione fu totale: i sudisti ebbero la meglio ma persero circa duemila uomini (quelli del nord ne persero circa tremila) però non seppero approfittare di questa sconfitta dei nordisti.

 

Abramo Lincoln

I quali capirono che non si poteva condurre una guerra se non si era preparati e se l’esercito era composto da giovani entusiasti ma inesperti e che i secessionisti facevano sul serio. Occorreva più gente, un sistema logistico efficiente, bisognava saper utilizzare la marina, le ferrovie, il telegrafo. Il presidente Lincoln convocò il Congresso, chiese l’arruolamento di 400 mila volontari e lo stanziamento di 400 milioni di dollari. Un sacrificio necessario per impedire che dei ribelli distruggessero le istituzioni volute dal popolo. E il popolo che aveva creato questa nazione ora aveva il dovere di difenderla. Non accennò affatto al problema della schiavitù che, sia pure in misura ridotta, esisteva anche tra gli Stati dell’Unione. Lincoln si preoccupò piuttosto a chi poter affidare l’esercito e pensò a Garibaldi il quale aveva appena concluso la grandiosa impresa dei Mille e si era ritirato a Caprera. L’eroe dei due mondi si era creato una fama di buon stratega e, soprattutto, di saper trascinare e dirigere gli uomini. Ma Garibaldi rispose di no: aveva sempre combattuto per la libertà dei popoli, ora non poteva accettare di combattere per una causa che non mirava chiaramente alla liberazione degli schiavi. Quindi ad organizzare la riscossa fu chiamato dalla scuola di West Point il generale del genio George McClellan il quale dimostrò via via una notevole efficienza tanto da guadagnarsi il soprannome di “piccolo Napoleone”. Dopo la vittoria di Bull Run anche il sud rafforzò le sue posizioni e si preparò a nuovi scontri; rispetto agli Stati del nord quelli del sud disponevano di una rete ferroviaria meno estesa e meno efficiente ed avevano alle spalle un’industria molto meno sviluppata e tuttavia tennero validamente testa ai nordisti fino al 1865. I manuali di storia ci elencano 33 battaglie col numero dei morti e dei feriti; ci descrivono le armi, ci raccontano della favolosa Colt inventata nel 1835 e diventata oggetto necessario per ogni americano. Sembra che l’armiere Colt ne avesse inviate un centinaio a Garibaldi in occasione della spedizione dei Mille. Non ci addentreremo nei particolari: è invece necessario sottolineare come già nel 1862, nonostante le forze del nord apparissero superiori, lo scontro si andava dilungando trasformandosi in guerra di logoramento. Neppure i rispettivi schieramenti politici delle due parti erano compatti; infatti al sud non tutti gli Stati schiavisti avevano aderito alla Confederazione e non tutti i cittadini le erano fedeli, tanto che le contee del West Virginia dove non c’erano schiavi si dissociarono e rimasero fedeli all’Unione. E anche al nord: era sorto un nuovo partito, il democratico, minoritario ma in grado di vincere e governare in alcuni Stati, nel quale era viva una corrente che accettava la guerra solo per difendere l’unità della nazione e chiedeva che si tornasse quanto prima alla pace. Neppure i repubblicani erano tutti d’accordo: i radicali puntavano alla cancellazione della schiavitù e all’uguaglianza tra bianchi e neri, i moderati invece accettavano la guerra solo se serviva per tenere unito il Paese. Lavoro difficile quindi per Lincoln che doveva governare tutte queste diversità e correnti.

 

Una battaglia importante

1862, McClellan, capo delle forze del nord, decide di attaccare i sudisti a Richmond, il generale dei sudisti Johnston resta ferito e viene sostituito dal famoso Robert Lee che fa di tutto per trasformare lo scontro da difensivo in offensivo. In autunno si sarebbero svolte le elezioni di medio termine: Lee persuade il suo presidente a tentare la mossa di penetrare nel Maryland dove numerosi erano i sostenitori della Confederazione per poter vincere le elezioni e avviare una campagna di pace. Ottenuta l’approvazione del piano, ai primi di settembre attacca l’esercito dei nordisti: non ci furono vincitori o vinti ma la condotta della guerra da parte del generale McClellan fu così infruttuosa che il presidente Lincoln gli tolse il comando e lo affidò al generale Burnside, che a dicembre riprese l’attacco di Richmond restando chiaramente sconfitto dai sudisti. I quali non erano però in forze per invadere l’Unione. Insomma dopo un anno di sanguinosi combattimenti la situazione era sempre di stallo. I nordisti erano però riusciti almeno ad avvantaggiarsi sia ad ovest sia sulla costa atlantica e, soprattutto, nel golfo del Messico: nell’aprile 1863 l’ammiraglio Farragut si impadronì di New Orleansprivando la Confederazione del suo porto principale. Tuttavia la Confederazione non cedeva e negli Stati del nord aumentava il numero dei democratici favorevoli ad un compromesso, tanto più che dall’Europa erano arrivate varie proposte di mediazione. Per cui Lincoln pensò di correggere la sua linea politica per convincere la popolazione ad accettare il proseguo della guerra con maggior impegno e con più forza, evitando la mediazione esterna: non avrebbe più puntato sulla riconduzione dei ribelli all’unità, ma piuttosto sull’abolizione della schiavitù, perché “nessuno ha il diritto di mangiare il pane che un altro si è guadagnato col sudore della propria fronte”. Con la guerra la gente del nord era venuta a contatto coi sistemi schiavisti del sud e se ne era indignata: l’abolizione della schiavitù sarebbe dunque dovuta diventare l’obiettivo vero della guerra. Fu preparato un “Proclama di emancipazione” degli schiavi basato non sui poteri costituzionali del presidente (la materia era di competenza statale) ma sui suoi poteri di comandante in capo delle forze armate e cioè “sul suo dovere di difendere l’unità e l’indipendenza del Paese”. Si aspettò che venisse raggiunta una vittoria militare importante (per non dare l’impressione che il Proclama fosse un semplice escamotage) e quando l’esercito nordista batté quello sudista ad Antietam Creek(17-18 settembre 1862) ne fu annunciata la prossima pubblicazione e l’entrata in vigore il primo giorno dell’anno seguente. Fu uno scontro importante quello di Antietam, e anche interessante dal un punto di vista strategico: avrebbe probabilmente prodotto risultatati definitivi se Mac- Clellan fosse stato meno attendista nonostante gli incitamenti del presidente ad osare di più e a muoversi con maggior sollecitudine (tanto che dopo questa vittoria Lincoln lo esonerò dal comando). I sudisti guidati dal generale Robert Lee contro i nordisti sotto il comando di George McClellan: attacchi e contrattacchi dei vari reparti che si svilupparono soprattutto il secondo giorno, il bloody day. Quando si cessò di sparare, nel tardo pomeriggio, si cominciò a cercare i feriti e ad ammucchiare i morti: l’Unione contò 2 mila e 800 morti e 9.500 feriti; la Confederazione ebbe 1800 morti, 9 mila feriti e quasi 1800 unità furono fatte prigionieri dai nordisti. Lee fu costretto ad arretrare tutta la sua linea di combattimento oltre il fiume Potomac e capì che per lui questa era stata proprio una batosta. Da qui la decisione di Lincoln del Proclama.

 

L’emancipazione

Ecco una sintesi del famoso Proclama: “Dal primo gennaio dell’anno di Nostro Signore 1863 tutte le persone tenute in schiavitù in qualunque Stato o parte di uno Stato, il cui popolo è dunque da ritenersi in rivolta contro gli Stati Uniti, saranno allora e da quel momento in poi per sempre libere; e il governo esecutivo degli Stati Uniti, comprese le autorità militari e marittime, riconoscerà e tutelerà la libertà di dette persone e non farà atto alcuno per reprimere qualsivoglia sforzo esse facciano, singolarmente o in associazione, per ottenere la loro libertà”. Il proclama elenca tutti gli Stati “tutt’ora in ribellione contro gli Stati Uniti” e le “parti eccettuate” per le quali il Proclama non ha validità e conclude: “Ordino e dichiaro che tutte le persone tenute schiave entro i designati Stati o parti di Stati, siano d’ora innanzi libere; e che il governo esecutivo degli Stati Uniti, comprese le autorità navali e militari dello stesso, riconoscano e mantengano la libertà di dette persone. E al contempo ingiungo, al popolo che ha ottenuto la sua libertà per diritto, di astenersi da ogni violenza, se non in caso di necessaria difesa della persona; e raccomando loro di lavorare, in tutte le occasioni che verranno loro offerte, fedelmente per un salario ragionevole”. Lincoln pur non credendo all’uguaglianza fra bianchi e neri era convinto dell’ingiustizia della schiavitù e la stessa realtà della guerra aveva persuaso gli animi della gente degli Stati del nord contro il regime servile attuato al Sud. Lo storico Tiziano Bonazzi ha osservato che “il Proclama aveva scarse conseguenze pratiche perché non comportava effetti concreti al di fuori delle poche aree del Sud occupate e, per evidenti ragioni politiche, escludeva gli schiavi degli Stati di confine tra Nord e Sud (gli eccettuati); ma il suo valore ideale si mostrò enorme”. Infatti il Sud non poté più presentare ai popoli liberali dell’Europa la sua causa come una lotta per la libertà, gli operai tessili inglesi e francesi, pur colpiti dalla crisi, si schierarono decisamente con l’Unione e le grandi potenze abbandonarono l’idea di mediare fra i due contendenti. Inoltre la pubblicazione del proclama incoraggiò la grande fuga degli schiavi dalle piantagioni. Queste le leggi; ma non è bastato un secolo per persuadere i bianchi che i cittadini di pelle nera avevano gli stessi diritti di cui godevano loro e potevano anche sedersi sugli autobus pubblici dove solitamente sedevano loro. Accen- niamo appunto ai due casi di Montgomery del 1955 e a tutto il movimento non violento che ne seguì capeggiato poi da Luther King, Nobel per la pace nel 1964, assassinato quattro anni più tardi da un bianco fanatico. L’insofferenza più o meno esplicita dei bianchi verso i neri è tutt’altro che cessata: solo nel settembre scorso, ad esempio, in Virginia si è riusciti a far cancellare l’obbligo di dichiarare la propria razza di appartenenza sui certificati di matrimonio. E anche da noi non si scherza: il 16 luglio scorso su un Frecciabianca partito da Roma un addetto italiano alle pulizie ha apostrofato una ragazza del Mali di 23 anni: “Negra di m. tornatene al tuo paese. Devi levarti di qui, schifosa, lascia il posto a chi paga il biglietto”. È successo mentre il treno transitava a Campiglia (Livorno). Era presente un giornalista che è subito intervenuto ed ha chiamato il capotreno.

 

La guerra continua

Nonostante il Proclama la guerra non si arrestò: nuovi scontri nel 1863 e nella primavera del 1864; a capo delle forze nordiste il generale Ulysses Grant, di quelle sudiste l’indomabile Lee: per mesi i due eserciti si fronteggiarono da opposte trincee. Sul finire del ’64 si tennero le elezioni presidenziali: Lincoln fu rieletto con 212 voti elettorali su 233 e il 55% di quelli popolari e dopo una decisa campagna di persuasione dei democratici, il 31 gennaio 1865 riuscì a far approvare il 13° emendamento costituzionale: l’abolizione della schiavitù. Ma il presidente era stanco e preoccupato: si meravigliava che due popoli che avevano lavorato con grane fatica per duecento cinquant’anni per costruirsi una nuova patria continuassero a distruggerla pur pregando lo stesso Dio. Infatti la guerra continuava: a marzo i nordisti guidati da William Sherman conquistata la Carolina del nord entravano in quella del sud, il tenace Lee non riusciva a spezzare lo schieramento nordista, anzi la cavalleria di Sheridan travolgeva le sue linee. Il 3 aprile il presidente Lincoln entrava in Richmond incendiata dai sudisti in fuga, accolto dalla gioia dei neri e l’ostile silenzio dei bianchi chiusi in casa. A giugno si arrese anche Johnstone subito dopo il Texas. L’ultimo ad abbassare le armi fu il capo Cherokee degli indiani a cavallo che avevano una loro tradizione di schiavi e si erano alleati al generale Lee. Con la resa di Lee la guerra di secessione era ormai finita. Nel frattempo, l’11 aprile 1865 Lincoln aveva già tracciato le linee della ricostruzione: si sarebbero tenute le legittime elezioni anche al sud anche se solo un decimo della popolazione avesse giurato fedeltà all’Unione e avesse accettato il 13° emendamento. Il 14 aprile il presidente fu invitato ad uno spettacolo a Washington, accettò e ci andò con la moglie ed alcuni amici. In quel palco si presentò l’attore John Booth, noto sostenitore della causa del sud, che sparò un colpo alla nuca di Lincoln: il fuoco della guerra era agli ultimi guizzi ma l’odio era sempre ben acceso. Oggi per non dimenticare questa tragica pagina di violenza, gli americani celebrano il Memorial Day l’ultimo lunedì di maggio. Naturalmente non è stato facile istituirlo, gli Stati secessionisti ricordavano i loro morti in altre occasioni, non volevano confondere i loro caduti con quelli degli unionisti. Solo nel 1971, dopo le due guerre mondiali hanno accettato un’unica festa nazionale: ci sono voluti altre migliaia di morti perché tutti gli americani accettassero di piantare la bandierina a stelle e strisce su tutte le tombe dei loro caduti indistintamente.

 

Walt Whitman

Un’immagine realistica di questa insana guerra ce l’ha lasciata il poeta e giornalista Walt Whitman. Raccontò dopo una visita ad un ospedale da campo: “Fuori dalla porta, sotto un albero, scorgo un mucchio di gambe, braccia, mani, piedi amputati, ce n’è da riempire un carro. Vicino parecchi cadaveri, sotto coperte stracciate e nel cortile verso il fiume delle tombe fresche, soprattutto di ufficiali con i nomi scritti su pezzi di assi infilati nel terreno”. In una cronaca descrisse un episodio avvenuto nella valle vicino ad Uppervillequando un forte contingente di guerriglieri sudisti di Moseby attaccò un treno, scortato dalla cavalleria, che portava in salvo soldati nordisti feriti. Sulle ambulanze erano una sessantina, tra loro vari ufficiali superiori. “I ribelli erano in forze e la cattura del convoglio con la sua scorta ridotta si compì comodamente dopo un breve scambio di colpi. I ribelli cominciarono subito a saccheggiare il treno e trucidare i prigionieri, compresi i feriti. Gli ufficiali furono trascinati per terra e circondati dai guerriglieri che li pugnalarono uno per uno in varie parti del corpo. A uno degli ufficiali inchiodarono i piedi per terra con le baionette. I feriti furono tutti trascinati fuori dai vagoni: quelli che non erano ancora morti furono orrendamente mutilati. Quelli che si erano arresi furono seviziati e trucidati”. Nel bel mezzo del massacro arriva uno squadrone di cavalleria nordista, i sudisti fuggono ma diciassette di loro e due ufficiali furono catturati. Il giorno dopo l’esecuzione: fu permesso loro di tentare una fuga disperata mentre l’esercito li bersagliava coi fucili. Con l’occasione i nordisti vollero vendicare anche altre azioni terroriste di questa banda. Scrive Whitman: “Avevano trovato i corpi di tre dei loro uomini coi tendini recisi e appesi per i piedi ai rami degli alberi dai guerriglieri di Moseby” e “non molto tempo prima altri dodici che si erano arresi erano stati fucilati e appesi per il collo con scritte di dileggio appese sul petto”. Il reporter, presente all’esecuzione contro la banda Moseby, chiede ai militari del plotone che hanno sparato se qualcuno si fosse astenuto dal premere il grilletto su quei prigionieri ormai inoffensivi: “Nemmeno uno. Non ci fu esultanza, poche parole, quasi niente, eppure ogni uomo contribuì con la sua pallottola. Moltiplicate tutto ciò per venti, anzi per cento; verificatelo in tutte le forme che circostanze, luoghi, individui diversi potrebbero offrire; accendetelo delle più bieche passioni – l’avida sete di sangue, gli infuocati vulcani dell’umana vendetta per compagni, fratelli uccisi, il bagliore delle fattorie in fiamme e cumuli ancora fumanti di neri braci fuligginose, e ovunque nel cuore umano nere braci ancora peggiori – e avrete una minima idea della guerra”.

 

 

Note

Tiziano Bonazzi, Guerra civile americana, Corriere della Sera 2016

Loredana Garlati, Le streghe di Salem, Rcs Media Group 2019

Walt Whitman, Taccuini di guerra, in L’illustrazione italiana, giugno-luglio 1982

Toni Morrison, in La Lettura, 11 agosto 2019

La foto dei poliziotti di Galveston: Corriere ella Sera, 8 agosto 2019

Paul E. Lovejoy, in Nigrizia, settembre 2019

Per il fatto del Frecciabianca, Corriere della Sera, 17 luglio 2019

 

 

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