Il Documento Economia e Finanza 2019 (Def 2019)
APRILE 2019
Sindacale
Il Documento Economia e Finanza 2019 (Def 2019)
di   Pier Paolo Bombardieri

 

Il Documento di Economia e Finanza (DEF), certifica la sostanziale stagnazione, in scivolamento verso la recessione tecnica, della nostra economia. È un DEF generico, in quanto non delinea un quadro preciso programmatico degli interventi da prendere nella Legge di Bilancio, ma si tracciano soltanto i titoli e si fanno solo annunciazioni di principio. Insomma un DEF, definito “realista”, che tiene sotto controllo i conti pubblici senza però dare risposte concrete ai problemi del Paese. Mentre, noi, soprattutto in questo momento, sosteniamo come vi sia la necessità di mettere al centro delle priorità delle politiche europee e nazionali, la crescita, il rilancio degli investimenti e il benessere sociale e occupazionale. Sia il quadro tendenziale che il quadro programmatico mettono in primo piano, a nostro avviso, i tanti nodi irrisolti che attanagliano il nostro sistema economico. Tra i nodi da sciogliere c’è quello delle clausole di salvaguardia e degli aumenti IVA. Se per il 2019 i rialzi sono stati scongiurati, il problema si pone per il prossimo anno su cui gravano 23 miliardi di euro di aumenti e ben 29 miliardi di euro nel 2021. E nonostante i proclami del Governo, nel DEF non vi sono certezze sul loro disinnesco ed il tutto viene rinviato alla prossima Legge di Bilancio. Uno scatto in avanti delle aliquote dell’IVA penalizzerebbe la domanda interna che, al contrario, andrebbe stimolata, avendo un effetto recessivo anche sul PIL con un rallentamento ulteriore rispetto alle previsioni nel prossimo biennio.

 

Una nuova contrazione dell’economia allargherebbe ulteriormente il gap con gli altri Paesi europei dove la crescita prosegue ed avrebbe un inevitabile automatico effetto anche sui livelli di deficit e di debito. Per questo è fondamentale sterilizzare le clausole di salvaguardia, rimettere in moto i consumi interni ed evitare una contrazione della crescita del PIL.

 

Nel DEF risuona nuovamente la spending review, parola un po’ magica, una sorta di “mantra” che ritorna sempre in tutte le discussioni di finanza pubblica. Locuzione introdotta nel 2006, dall’allora Ministro dell’Economia Padoa Schioppa, ma in realtà anticipata negli ultimi anni 90 dal Professor Giarda. Spending review non significa certamente tagli alla spesa pubblica, ma una sua diversa allocazione. Invece, questo inglesismo è entrato nel nostro vivere quotidiano come sinonimo di tagli, spesso lineari. Nel DEF si indicano, per il prossimo anno, tagli alla spesa pubblica per 5 miliardi di euro in aggiunta ai tagli lineari di 2 miliardi di euro alla spesa dei Ministeri congelata fino a luglio e confermata per l’intero anno. Come UIL sosteniamo quanto sia importante aggredire la spesa pubblica improduttiva, ma abbiamo la sensazione che anche questa volta, come troppe volte nel passato, si tratti di tagli lineari alla spesa, con il rischio di ridurre servizi essenziali ai cittadini. Sarebbe, invece, necessario introdurre “erga omnes”, ed ad ogni livello di governo, i cosiddetti “costi e fabbisogni standard”.

 

Entrando nel merito del DEF, della sua visione programmatica e dei suoi numeri, quel che emerge dalle stime macroeconomiche è una crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) dello 0,2% per quest’anno, per poi risalire allo 0,8% nel triennio successivo. La crescita piatta fa sì che il debito pubblico tendenziale passi dal 132,2% del 2018 al 132,8% di quest’anno, per scendere al 131,7% nel 2020 e al 130,6% nel 2021. Mentre il quadro programmatico, anche sotto la spinta delle misure contenute nel “Decreto crescita”, che tra l’altro insieme allo sblocca cantieri ancora non se ne conoscono a tutt’oggi i testi, indica un debito pubblico per quest’anno al 129,4% (128,8% nel 2018), per poi scendere al 128,1% nel 2020 e al 127,2% nel 2021. Mentre il rapporto deficit/ PIL sale al 2,4% a fronte del 2,1% del 2018, per scendere al 2,1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021. Il tasso di disoccupazione è previsto in aumento passando dal 10,6% del 2018 all’11% di quest’anno e all’11,1% nel 2020 per poi scendere al 10,7% nel 2021 e al 10,4% nel 2022. Continua a crescere, seppur molto lentamente, il tasso di occupazione che passerà dal 58,5% del 2018 al 58,7% di quest’anno, al 59% del prossimo anno e al 59,5% nel 2021. Preoccupa la contrazione della spesa in conto capitale che passa dall’1,2% del PIL nel 2018 all’1%  nel triennio 2019-2021. Così come è insufficiente il livello degli investimenti fissi della Pubblica Amministrazione che valgono soltanto il 2,2% del PIL quest’anno, per poi salire al 2,4% nel biennio 2020-2021. Resta alta la pressione fiscale nonostante il DEF stimi per il 2019 una diminuzione dello 0,1%, passando dal 42,1% del 2017 al 42% del 2019, in risalita, però, al 42,7% nel biennio 20202021. Questi dati sono un segnale evidente della stagnazione della nostra economia e di come la strada da percorrere sia ancora molto lunga per colmare il grande GAP accumulato nel lungo periodo di crisi. La “prima vittima” di questa lenta crescita è l’occupazione, soprattutto quella giovanile e femminile. E, purtroppo, nel DEF sono solo abbozzati i provvedimenti utili allo sviluppo economico, sociale ed occupazionale. Mentre abbiamo una necessità impellente di dare risposte al tema del lavoro, della crescita, dell’alta pressione fiscale che grava su salari e pensioni, degli investimenti materiali ed immateriali, perché il Paese deve affrontare situazioni davvero importanti e complesse sia nello scenario nazionale che europeo. Come Sindacato abbiamo bisogno di confrontarci con il Governo su una serie di questioni che consideriamo prioritarie a partire da quella fiscale e degli investimenti pubblici. La priorità deve essere il lavoro che non si crea per decreto, ma con l’aumento di investimenti pubblici che possano stimolare anche gli investimenti privati. Gli investimenti pubblici sono la prima leva per lo sviluppo e la crescita economica, occupazionale e sociale. Nel nostro Paese gli investimenti pubblici sono in caduta libera: dal 2013 al 2018 si è passati da investimenti pubblici pari a 41,1 miliardi di euro (il 2,5% del PIL), a 34,2 miliardi di euro nel 2018 (il 2% del PIL). La differenza in sei anni, dal 2013 al 2018, in valori assoluti è di 6,9 miliardi di euro in meno (meno16,7%). Le cause della diminuzione degli investimenti pubblici sono molteplici e vanno ricercate essenzialmente, da una parte, nelle politiche di coordinamento della finanza pubblica (Patto di Stabilità, pareggio di Bilancio per gli Enti Territoriali) e, dall’altra, nelle scelte per il rispetto dei vincoli di Bilancio (è più facile tagliare la spesa per gli investimenti che la spesa corrente riferita al funzionamento dei servizi anche se improduttiva). Rileviamo una mancanza di visione strategica di politica industriale del Paese correlata ad un’assenza di programmazione e iniziative legislative coordinate e integrate atte a sostenere le attività manifatturiere. Ciò determina il perdurare di una non adeguata attenzione all’economia reale e industriale con una conseguente riduzione degli investimenti privati. Inoltre, gli investimenti immateriali, quali quelli in ricerca e sviluppo, innovazione e formazione dei lavoratori, rimangono molto al di sotto della media dell’Unione Europea, pur essendo vitali per la produttività e la crescita economica. Ciò è dovuto anche all’elevato numero di microimprese, alla mancanza di specializzazione dell’Italia nei settori ad alta intensità di conoscenza, alla rete digitale limitata ed alle insufficienti competenze digitali, ma, soprattutto, ad una riduzione della spesa pubblica complessiva in ricerca e sviluppo.

 

Il finanziamento delle piccole e medie imprese continua ad essere fortemente dipendente dal settore bancario ed il prestito rimane basso, nonostante i costi di finanziamento a livelli storicamente minimi. Per questo chiediamo al Governo ed al Parlamento, un cambiamento di rotta mettendo in campo un piano di investimenti che possa contemplare un aumento dello 0,5% del PIL ogni anno nei prossimi 5 anni. In questo contesto vanno sbloccate le opere pubbliche, ripristinati gli investimenti che riguardano il Piano Impresa 4.0 e le misure a sostegno della conoscenza quali i cluster tecnologici e della cooperazione tra imprese. A tal fine è utile e necessario rendere strutturale l’attuale credito di imposta ricerca, in scadenza al 2020, per consentire una pianificazione di medio e lungo periodo. Sempre nell’ottica di stimolare gli investimenti privati nel Mezzogiorno, è necessaria la proroga fino al 2021 del credito d’imposta Investimenti Sud in beni strumentali, una misura che, dati alla mano, ha aiutato a far ripartire gli investimenti in quest’area del Paese. Infatti, stando a quanto riportato nell’allegato al DEF relativo agli interventi nelle aree sottoutilizzate (a proposito sarebbe il tempo di cambiare nome all’allegato), su oltre 3 miliardi di euro di finanziamenti richiesti per il credito d’imposta Sud, sono stati attivati un totale di 8,5 miliardi di euro di investimenti privati. È urgente l’adozione di misure certe, adeguatamente finanziate, per affrontare le sfide legate al degrado ambientale e ai cambiamenti climatici, che stanno impattando sul nostro Paese. Occorre investire maggiormente sullo sviluppo sostenibile, puntando allo sviluppo dell’economia circolare per garantire la “giusta transizione”. Occorrono, poi, misure concrete e preventive per la messa in sicurezza del territorio e per il contrasto ai disastri legati ad eventi sismici e al dissesto idrogeologico, in quanto le azioni messe in campo dal Governo, a partire dal “Programma ProteggItalia”, rappresentano solo un primo passo, ma non sufficienti ad attribuire loro una effettiva capacità di risoluzione. Sul tema amianto nel DEF è espressamente riportata la volontà di istituire un tavolo di lavoro ma, sebbene apprezzabile, questo impegno ci lascia perplessi dal momento che dal 2016 è attivo un tavolo presso la Presidenza del Consigli dei Ministri costituito anche dalle parti sociali. Vanno apportate, infine, modifiche alla Legge sul pareggio di Bilancio delle Regioni in modo tale che si possano spendere le risorse che le stesse hanno a disposizione ed accelerare la spesa dei Fondi Strutturali Europei e del Fondo Sviluppo e Coesione.

 

Contestualmente, occorre aprire una seria discussione in Europa per lo scomputo degli investimenti pubblici dal deficit, ad iniziare dal non considerare deficit il cofinanziamento nazionale dei Fondi Strutturali Europei. La spesa per il personale della pubblica amministrazione è sostanzialmente stabile nel prossimo triennio, anzi, in rapporto al PIL diminuisce: passa da un’incidenza del 9,7% di quest’anno al 9,1% nel 2022. Segno, questo, che non sono previste le risorse per il rinnovo dei contratti scaduti già quest’anno e che non si può procedere ad un piano assunzionale. Per questo, nella prossima manovra di bilancio, vanno trovate adeguate risorse per il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego e per un piano straordinario di assunzioni che vada oltre il solo turn over, al fine di favorire il necessario ricambio generazionale e, quindi, l’allineamento dell’età media della popolazione lavorativa della Pubblica Amministrazione ai livelli europei. Quanto all’introduzione del salario minimo orario per i settori non coperti da contrattazione collettiva, riteniamo positivo che anche le Istituzioni abbiano deciso di sollevare il tema della questione salariale nel nostro Paese. Tuttavia ribadiamo quanto già detto nelle audizioni parlamentari e, più precisamente, che è necessario sancire l’erga omnes dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative a livello nazionale dando, in questo modo, anche valore legale ai trattamenti economici complessivi in essi stabiliti. Siamo convinti, infatti, che la questione salariale rientri a pieno titolo nell’ambito dell’autonomia delle Parti Sociali e crediamo che sia assolutamente necessario avviare una fase di confronto serrata e continua con il Governo e Parlamento per raggiungere quegli obiettivi condivisibili che stanno muovendo la loro azione, al fine di ottenere i risultati auspicati, evitando che finiscano per andare a impattare negativamente sugli attuali livelli retributivi italiani.

 

Nel DEF, e non è una novità di quest’anno, si fa riferimento all’importanza di procedere al “riordino delle spese fiscali”. Nonostante gli impegni proclamati e le commissioni istituite, infatti, non si è ancora avviato il processo di riordino sistematico delle agevolazioni fiscali: un vero e proprio labirinto caratterizzato da opacità, frammentarietà ed inadeguatezza delle misure stratificatesi nel corso di decenni. È necessario procedere ad un aggiornamento ed una verifica delle agevolazioni esistenti, realizzando un’analisi degli impatti reali, rispetto agli obiettivi che le hanno generate ed alla rilevanza attuale delle esigenze sociali ed economiche per le quali sono state introdotte. Per la UIL è importante attuare concretamente la rimodulazione delle tax expenditures, ma occorre fare molta attenzione ed agire con precisione. Bisogna evitare, in sostanza, che la revisione di queste agevolazioni fiscali si traduca automaticamente in un aumento della pressione fiscale. Infatti la stragrande maggioranza di esse, attiene a temi particolarmente sensibili: lavoro, casa, salute, assistenza, famiglia e la maggiore quota è per le detrazioni da lavoro dipendente e pensione che rappresentano un pilastro della politica ridistribuiva e perequativa. Occorrono politiche che rimettono in moto i consumi interni attraverso una riforma fiscale complessiva improntata sul valore della progressività che diminuisca il carico fiscale su salari e pensioni. E la FLAT TAX non può essere certo la risposta, in quanto non servirà a dare equilibrio ed equità al nostro sistema fiscale ma, al contrario, finirà per produrre più squilibri e più iniquità perché, di fatto, introdurrà nel nostro sistema fiscale un ulteriore regime di tassazione. E riguardo alla FLAT TAX, non si tratta solo di assicurare la progressività ed equità al nostro sistema fiscale, ma con l’eliminazione delle detrazioni e deduzioni rischia di venir meno, per alcune di esse, il contrasto al conflitto di interesse, come nel caso delle spese sanitarie, comportando di fatto una diminuzione della lotta all’evasione fiscale. Occorre, invece, concentrare gli sforzi su un tema: contrastare l’economia sommersa e l’illegalità con l’intento di far emergere in modo strutturale la base imponibile. Su questo versante sarà cruciale la messa in campo di una reale e forte volontà politica di contrasto all’evasione, superando la politica dei condoni che, troppo frequentemente, in questi anni, sono stati presentati come una soluzione nella lotta all’evasione. Mentre sul versante della previdenza la cosiddetta “Quota 100” ha dato una prima e parziale risposta al tema della flessibilità in uscita, ma essa non è esaustiva in quanto non tiene conto di quanti hanno svolto lavori discontinui ad iniziare dalle donne, dal lavoro agricolo e quello dell’edilizia. Quindi, sul capitolo previdenza occorre continuare ad introdurre forme flessibili di accesso dando la possibilità a tutti i lavoratori di andare in pensione con 41 anni di contributi, varare interventi per sostenere le future pensioni dei giovani, per valorizzare ai fini pensionistici il lavoro di cura e la maternità, per rendere strutturale l’Ape sociale. Nell’analisi degli scenari della spesa pensionistica per il prossimo triennio, si evince come essa sia sostanzialmente stabile rispetto al PIL: si passa dal 15,3% del 2018 al 15,9% del 2022 per arrivare al 16,2% nel 2044 evidenziando la sostenibilità del sistema. Anche se ribadiamo che c’è bisogno di procedere ad una operazione verità sui conti della previdenza italiana, attraverso una corretta divisione della spesa assistenziale da quella pensionistica. Per tale ragione crediamo sia doveroso avviare celermente i lavori della Commissione, istituita con la Legge di Bilancio 2018, che dovrà valutare le modalità di comunicazione e di valutazione della spesa previdenziale. Nel DEF il finanziamento per la sanità, a legislazione vigente, continua ad essere sottostimato. Secondo le previsioni il rapporto tra spesa sanitaria e PIL, passerà dal 6,6% del 2019 al 6,4% nel 2022. Ciò desta preoccupazione dal momento che si tratta di una percentuale al di sotto della soglia di allarme del 6,5% fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Pertanto, se con la prossima Legge di Bilancio non si inverte il trend, per la UIL non si può parlare di crescita se manca il diritto alla salute.  A tal fine occorre quindi, da una parte, mettere in campo risorse aggiuntive e certe affinchè si possa dare piena copertura finanziaria ai livelli essenziali di assistenza (LEA), rendendoli realmente esigibili su tutto il territorio nazionale, superando le disuguaglianze sociali e territoriali esistenti nel Paese; dall’altra, continuare a potenziare il piano per l’abbattimento delle lista di attesa. Il tutto tenendo presente il nuovo Patto per la Salute, in attesa di approvazione, che dovrà avere come obiettivo centrale quello di ristabilire il rispetto del diritto alla salute e alle cure dei cittadini. Lo scenario demografico che caratterizza il nostro Paese richiede necessariamente l’emanazione di una legge nazionale per la non autosufficienza adeguatamente finanziata, ma anche un forte e pianificato intervento a sostegno delle famiglie che va di pari passo con le misure per favorire lo sviluppo occupazionale, rendendo strutturali gli interventi e le misure a sostegno della genitorialità, dell’infanzia e del contrasto alla povertà educativa. Auspichiamo, inoltre, che il nostro Paese recepisca in brevissimo tempo la Direttiva relativa all´equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori ed i prestatori di assistenza approvata dal Parlamento Europeo, che stabilisce i requisiti minimi affinché i congedi parentali siano diritti individuali per le lavoratrici e i lavoratori. Per le politiche di inclusione e sostegno alle persone con disabilità, mancano, a nostro avviso, investimenti strutturali che affrontino, in modo non frammentario e con maggiore efficacia e determinazione, l’inclusione sia in ambito scolastico sia per l’accesso al mondo del lavoro ed il sostegno alla cura delle persone con disabilità. Quanto al Reddito di Cittadinanza, come abbiamo già avuto modo di dire nei documenti unitari presentati in occasione delle audizioni parlamentari, esso si prefigura come uno strumento “ibrido” tra il contrasto alla povertà, misure di politiche attive e misure assistenzialistiche. Noi non siamo sfavorevoli al reddito di cittadinanza per la parte che si riferisce alla possibilità di aiutare i poveri, il tema semmai è che il suo finanziamento, fatto in deficit, mette una grande ipoteca (clausole di salvaguardia) sui futuri conti del Paese. Per la UIL la priorità è il lavoro senza il quale non si può contrastare nessun tipo di povertà e ribadiamo la necessità di non disperdere l’esperienza maturata con il REI che ha visto il coinvolgimento, sia a livello centrale che territoriale, di molteplici attori (Regioni, Comuni, Parti sociali, Terzo settore, Alleanza contro la povertà e associazioni), innescando quel meccanismo virtuoso e necessario per affrontare la povertà in maniera multidimensionale. Abbiamo salutato positivamente l’intervento finanziario per potenziare i centri per l’impiego sia dal punto di vista delle risorse umane che strumentali. Adesso, però, è importante dare rapidamente operatività alle assunzioni di personale da destinare ai centri per l’impiego, realizzare le convenzioni con le Regioni per la dislocazione nel territorio dei navigator e spendere le risorse dedicate per l’ammodernamento dei centri per l’impiego. Così come è altrettanto importante trovare risorse necessarie per la completa stabilizzazione di tutti i precari di Anpal Servizi, in quanto il milione di euro stanziato per la stabilizzazione dei tempi determinati, è una goccia in un oceano.

 

Ultima questione, ma non meno importante, è rimettere in primo piano politiche mirate allo sviluppo del Mezzogiorno che passano necessariamente per un efficientamento ed un aumento della spesa per investimenti pubblici sia nazionali sia europei. Il DEF conferma che la forbice tra Mezzogiorno e resto del Paese si è ampliata. Da questo punto di vista il DEF è molto deludente in quanto non da quelle risposte ai tanti problemi aperti in questa parte del Paese e proietta il Mezzogiorno verso la Legge di Bilancio con poche certezze. È questa una delle ragioni che hanno spinto UIL, CGIL e CISL ad organizzare il prossimo 22 giugno una manifestazione nazionale per il Sud che si terrà a Reggio Calabria. Nel Mezzogiorno servono politiche economiche concrete di medio periodo valide per tutto il territorio nazionale che vedano, al loro interno, una declinazione specifica e una maggiore intensità di aiuti e di risorse da destinare al Sud. Almeno sulla carta, il rispetto della clausola del 34% (ovvero la previsione che almeno il 1/3 della spesa ordinaria in conto capitale nella pubblica amministrazione allargata sia destinata al Mezzogiorno), è rispettata in via sperimentale in 5 Ministeri. Ciò è comunque solo l’inizio del percorso e vigileremo attentamente affinchè entro il 30 giugno, quando dovrà essere emanato il decreto attuativo, si confermeranno realmente gli obiettivi. In conclusione, nel DEF manca il coraggio di invertire le dinamiche economiche e sociali con interventi mirati a favorire la crescita con investimenti a favore dello sviluppo e dell’occupazione. Saranno, pertanto, la nota di aggiornamento al DEF e la prossima Legge di Bilancio a stabilire le priorità programmatiche, auspicabilmente condivise in via preventiva con le Parti Sociali, per favorire la crescita con interventi e investimenti a favore dello sviluppo, dell’occupazione e del benessere sociale.

Potrebbe anche interessarti: