Guglielmo Loy: comunicato Stampa del 09/05/2018
L’Italia rischia un processo per aver coordinato la guardia costiera libica
L’Italia rischia un processo per aver coordinato la guardia costiera libica
09/05/2018  | Immigrazione.  

 

Migranti soccorsi dall’ong Sea Watch nel mar Mediterraneo, il 6 novembre 2017. (Alessio Paduano, Afp)

 

Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale, https://www.internazionale.it/

 

“All’alba abbiamo visto una barca e abbiamo gridato. Il nostro gommone stava imbarcando acqua, ci siamo tolti le magliette e le abbiamo sventolate per farci vedere. C’erano dei bambini che piangevano. La barca non ci ha risposto e se n’è andata”. E. è uno dei sopravvissuti del naufragio del 6 novembre 2017 in cui sono morte almeno venti persone e ricorda il momento in cui si è accorto che il gommone su cui viaggiava si stava sgonfiando. Erano quasi le nove di mattina. Il lato posteriore dell’imbarcazione ha cominciato ad affondare e alcune persone sono finite in mare.

 

“Una nave della guardia costiera libica ci ha raggiunto, abbiamo cominciato a gridare: ‘Aiuto’. Ma non ci hanno risposto, hanno preso una macchina fotografica e ci facevano delle foto, se ne stavano andando quando hanno visto la Sea Watch che stava venendo verso di noi. Allora sono tornati indietro e gli hanno detto di andarsene”, racconta E. in un’intervista concessa al ricercatore Charles Heller del gruppo Forensic Architecture. Da quel momento è cominciata una specie di battaglia navale tra la motovedetta libica e la nave dell’ong tedesca. I libici hanno chiesto agli umanitari di andarsene, ma l’ong ha calato i gommoni di soccorso, perché molti migranti erano già in acqua e chiedevano aiuto.

 

Respingimenti per procura

 

Sei mesi dopo, il 3 maggio, insieme ad altri sedici sopravvissuti E. ha presentato un ricorso contro l’Italia alla Corte europea dei diritti umani (Cedu) accusando il paese di aver messo a repentaglio la sua vita, di aver ritardato i soccorsi affidandoli alla guardia costiera libica e di aver “respinto per procura” 47 migranti attraverso l’azione della motovedetta libica, donata a Tripoli da Roma nel maggio del 2017, come previsto dal Memorandum d’intesa firmato dai due paesi.

 

Dei 17 migranti che hanno presentato il ricorso infatti, quindici sono stati portati in Italia e due sono stati respinti in Libia dove sono stati portati in un centro di detenzione a Tagiura. Per due mesi sono stati sottoposti a violenze, abusi, torture, estorsioni e stupri, sono stati venduti e sono stati torturati con l’elettricità. Infine i due hanno chiesto di partecipare ai programmi di rimpatrio volontario dell’Organizzazione mondiale dell’immigrazione (Oim) e sono stati riportati dalla Libia a Benin City, in Nigeria, il loro paese d’origine.

 

E. e P. sono invece stati soccorsi e portati in Italia. E. dopo essere caduto in acqua è riuscito ad arrampicarsi sulla motovedetta libica 648 Ras Jadir, ma una volta a bordo i guardacoste hanno cominciato a picchiarlo come stavano già facendo con gli altri migranti soccorsi. “In quel momento ho guardato verso il mare e ho visto che c’erano i gommoni di soccorso della Sea Watch così sono saltato in acqua e mi sono salvato, non sono stato l’unico”, racconta E., uno dei 59 sopravvissuti recuperati dalla Sea Watch, successivamente portato in Italia.

 

Anche P. era sulla stessa barca e ricorda che un elicottero ha lanciato dei giubbotti di salvataggio per le persone che erano cadute in mare. P. ne aveva indossato uno e si era attaccato a una corda insieme ad altri tre ragazzi riuscendo a salire a bordo della motovedetta. “Pensavo che fossero italiani, ma poi ho capito che erano libici perché parlavano arabo. Ci hanno detto di stare seduti. Un ragazzo si è lanciato in acqua e i libici ci hanno minacciato. Ci avrebbero picchiato con delle corde se ci fossimo mossi. Ma quando la guardia si è allontanata, io mi sono buttato in acqua e poi sono stato soccorso dalla Sea Watch”.

 

La guardia costiera italiana alle 6 di mattina ha contattato la nave umanitaria Sea Watch 3 per intervenire in soccorso dei migranti che erano ancora in acqua: “Ci hanno chiamato da Roma per chiederci d’intervenire. Mentre andavamo verso il gommone ci siamo resi conto che era in corso un naufragio, abbiamo visto molti corpi in mare”, il volontario della Sea Watch Gennaro Giudetti ricorda l’operazione di salvataggio a trenta miglia dalle coste libiche.

 

“Ho visto una donna affogare davanti ai miei occhi”, racconta. Un’altra donna, che Giudetti è riuscito a salvare, ha perso suo figlio nel naufragio. Sono morte almeno venti persone, mentre l’intervento della motovedetta libica – la 648 Ras Jadir – ha intralciato i soccorsi. I libici hanno lanciato anche degli oggetti contro i volontari, come raccontato da molti testimoni. I 47 sopravvissuti che sono stati recuperati dai libici, sono stati riportati nei centri di detenzione in Libia. Durante il salvataggio era presente anche un elicottero della marina militare italiana e diverse navi militari della missione Eunavformed.