ROMA (ITALPRESS), 14 marzo 2017 - Dal riso asiatico alle conserve di pomodoro cinesi, dall'ortofrutta sudamericana a quella africana in vendita nei supermercati italiani fino ai fiori del Kenya, quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall'estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori – a partire da quella sul caporalato - vigenti nel nostro Paese. E' quanto è emerso alla presentazione del quinto Rapporto #Agromafie2017 elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell'agricoltura e sul sistema agroalimentare.
Si stima che siano coltivati o allevati all'estero oltre il 30% dei prodotti agroalimentari consumati in Italia, con un deciso aumento negli ultimi decenni delle importazioni da paesi extracomunitari dove non valgono gli stessi diritti sociali dell'Unione Europea. Riso, conserve di pomodoro, olio d'oliva, ortofrutta fresca e trasformata, zucchero di canna, rose, olio di palma sono solo alcuni dei prodotti stranieri che arrivano in Italia che sono spesso il frutto di un "caporalato invisibile" che passa inosservato solo perché avviene in Paesi lontani, dove viene sfruttato il lavoro minorile, che riguarda in agricoltura circa 100 milioni di bambini secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), di operai sottopagati e sottoposti a rischi per la salute, di detenuti o addirittura di veri e propri moderni "schiavi". E tutto questo accade nell'indifferenza delle Istituzioni nazionali ed europee che anzi spesso alimentano di fatto il commercio dei frutti dello sfruttamento con agevolazioni o accordi privilegiati per gli scambi che avvantaggiano solo le multinazionali.
Un esempio è rappresentato dalle importazioni di conserve di pomodoro dalla Cina al centro delle critiche internazionali per il fenomeno dei laogai, i campi agricoli lager che secondo alcuni sarebbero ancora attivi, nonostante l'annuncio della loro chiusura. Nel 2016 sono aumentate del 43% le importazioni di concentrato di pomodoro dal Paese asiatico che hanno raggiunto circa 100 milioni di chili, pari a circa il 10% della produzione nazionale in pomodoro fresco equivalente. In questo modo, c'è il rischio concreto che il concentrato di pomodoro cinese, magari coltivato da veri e propri "schiavi moderni", venga spacciato come Made in Italy sui mercati nazionali ed esteri per la mancanza dell'obbligo di indicare in etichetta la provenienza.
"Non è accettabile che alle importazioni sia consentito di aggirare le norme previste in Italia dalla legge nazionale sul caporalato ed è necessario, invece, che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali rispettino gli stessi criteri a tutela della dignità dei lavoratori, garantendo che dietro tutti gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un percorso di qualità che riguarda l'ambiente, la salute e il lavoro, con una giusta distribuzione del valore a sostegno di un vero commercio equo e solidale", ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo.