(www.corriere.it) Se Autogrill è riuscita in tempi record ad aprire punti vendita a Sochi, Russia, cogliendo l’occasione delle Olimpiadi invernali del 2014, lo deve sostanzialmente a Olga Culaxiz, dipendente che parla russo. È l’evoluzione del lavoro «straniero» in Italia. Una volta sottopagato, sfruttato, relegato ai mestieri di fatica che nessun autoctono vuole più fare. Oggi anche valorizzato e trasformato in risorsa.
Lo indica una inedita indagine condotta nell’ambito del progetto «Diverse», cofinanziato dal Fondo europeo per l’Integrazione, coordinato dal centro di ricerca Wwell dell’Università Cattolica e realizzato in collaborazione con 14 istituzioni partner in 10 Paesi europei, tra queste la Fondazione Ismu. Le aziende stanno imparando ad apprezzare i dipendenti «stranieri» (che in molti casi, in verità, sono cresciuti o si sono formati in Italia), non solo per le competenze «formali» (i titoli di studio), ma anche per le capacità acquisite nel processo migratorio: «Bilinguismo — indica la ricerca — familiarità con diversi universi culturali, capacità di fare bridging (costruire ponti, ndr) e di guardare alle questioni da una prospettiva diversa rispetto a quella consueta». Si scopre allora che la presenza di un impiegato non italiano aiuta la società a espandersi all’estero, a conquistare nuovi clienti nel mercato interno, ad acquisire una fisionomia sempre più duttile.
Non è ancora una svolta definitiva. I dati sull’occupazione degli immigrati li segnalano sempre ai margini delle classifiche per condizioni contrattuali e salariali. L’ultimo rapporto Ismu sulle migrazioni indica che solo l’1% occupa posti dirigenziali, oltre il 70% lavora come operaio. Le competenze acquisite altrove sono ancora poco riconosciute: tra chi ha una formazione universitaria, solo il 35,7% svolge professioni intellettuali e tecniche e il 23,2% si adatta a un lavoro manuale non specializzato. Chi ha una formazione universitaria non è invogliato a emigrare qui. Ancora gli ultimi dati Ismu rafforzano l’immagine dell’Italia come di un Paese che attrae soprattutto manodopera poco qualificata: il 42% degli stranieri ha un livello di istruzione basso, il 45% medio, il 12% alto, contro una media europea rispettivamente del 25%, 44%, 31% (dati 2010). L’immigrazione resta il bacino di reclutamento per lavori poco qualificati. E pagati male: 4 immigrati su 10 guadagnano meno di 800 euro al mese e soltanto nello 0,6% dei casi arrivano a percepire 2.000 euro.
A questo quadro fosco si sovrappone, però, adesso la nuova ricerca, che ha prodotto indicazioni per «un salto di qualità» nell’integrazione del lavoro straniero, spiega la direttrice scientifica, Laura Zanfrini, sociologa delle Migrazioni alla Cattolica. Lo studio muove dall’osservazione di casi virtuosi che si rintracciano soprattutto nel Milanese, nei settori più diversi. L’azienda di servizi alla persona Golgi-Redaelli, per esempio, su 1.274 dipendenti conta 97 medici e infermieri «stranieri». Tra cui il camerunense Jules Mouliom Pouandichou, che esercita presso il Geriatrico di Abbiategrasso: «Il reparto è multietnico — dice — il clima sereno. So che per altri extracomunitari non è così. Ma io mi sento realizzato».
Biocatering addirittura ha solo personale straniero: cinque giovani afghani ed egiziani per confezionare e distribuire pasti biologici in giro per la città. Con ottimi risultati.
Rilevazioni positive anche da BonBoard, che si occupa di ricerca e selezione del personale, e si avvale delle competenze di Rudra Chakraborty, nato a Calcutta, formato tra Milano e Washington, poliglotta. Il profilo di Chakraborty risulta prezioso per individuare dipendenti di cui hanno bisogno aziende a forte vocazione multiculturale. Le case di moda, per esempio: «Per molte di esse, la più ampia porzione di mercato è rappresentata da cinesi o russi — osserva Rudra —: chi meglio dei giovani di seconda generazione può rapportarsi con questi clienti?».