Guglielmo Loy: comunicato Stampa del 16/09/2015
Robot contro immigrati? Riflessioni sul futuro del lavoro migrante in Europa
Robot contro immigrati? Riflessioni sul futuro del lavoro migrante in Europa
16/09/2015  | Sindacato.  

 

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Di Ferruccio Pastore *

 

L’industria, in particolare quella metalmeccanica, fu un fattore di attrazione decisivo per l’immigrazione internazionale e interna, in Europa, fino alla metà degli anni Settanta. Poi, una combinazione di crisi economica, progresso tecnico e globalizzazione (cioè, rispettivamente, automazione e/o delocalizzazione dei processi produttivi) portarono a una drastica riduzione della domanda di lavoro operaio low-skilled (un termine discutibile, su cui torneremo), di cui il lavoro immigrato rappresentava una fetta importante.

 

IN BREVE

 

1. Secondo la Commissione europea il fabbisogno di immigrazione è strutturale e destinato a rimanere a lungo su alti livelli, ma non è chiaro come questo fabbisogno sarà gestito

2. In Europa si sta facendo strada un nuovo, cupo scenario: quello di un’epoca di ‘distruzione creativa’, in cui grandi quantità di lavoro low-skilled verrano rese superflue da un balzo tecnologico

3. Ci sono economisti convinti che i robot  ci libereranno dagli immigrati economicamente e socialmente più ‘problematici’

 

Ma mentre il bisogno europeo di immigrazione calava nella manifattura, cresceva nel settore dei servizi, specialmente quelli alla persona, che soprattutto nei paesi sud-europei, contraddistinti da un forte invecchiamento e da sistemi di welfare deboli e anacronistici, cominciava ad emergere come nuovo motore dell’importazione di manodopera.

 

Abbiamo ancora bisogno del lavoro migrante?
Negli ultimi anni, la crisi ha imposto un rallentamento più o meno marcato, ma la demografia resta debole e una riconversione radicale del welfare, capace di riavvicinarlo ai bisogni reali, richiederebbe investimenti pubblici massicci.

 

Secondo molte voci autorevoli, il fabbisogno di immigrazione è strutturale e destinato a rimanere a lungo su livelli alti. Questa è per esempio, ormai da tempo, la posizione della Commissione europea, ribadita da ultimo nella Agenda europea sulla migrazione, approvata il 13 maggio 2015, dove si legge tra l’altro che:

 

 “L’Unione deve […] affrontare una serie di sfide economiche e demografiche a lungo termine. La popolazione sta invecchiando e l’economia dipende sempre di più da posti di lavoro altamente qualificati. Inoltre, in assenza di immigrazione, la popolazione dell’Ue in età lavorativa diminuirà di 17,5 milioni di persone nel prossimo decennio. La migrazione sarà sempre più un mezzo importante per rafforzare la sostenibilità dei nostri sistemi di protezione sociale e per garantire una crescita sostenibile dell’economia dell’Ue.”

 

Però, almeno nei paesi dell’Europa meridionale, che faticano a riemergere dal pantano della crisi, appare al momento molto dubbio come questa immigrazione futura, per quanto teoricamente necessaria, possa essere sostenuta.

 

Sulla carta, le soluzioni sono solo di due tipi:

 

a) una ripresa solida e con ricadute diffuse, che consenta di sostenere economicamente processi di inclusione dei nuovi cittadini in una posizione non solo subalterna;

 

b) un’ulteriore riduzione del paniere di diritti e opportunità offerte agli immigrati, che riduca ulteriormente i costi per i nativi di un modello di immigrazione che abbiamo già avuto modo di definire 'low cost', soprattutto in virtù della minorità politica e della forte segregazione occupazionale che esso impone ai lavoratori immigrati per poterne garantirne la complementarietà rispetto ai lavoratori autoctoni.

 

La rivoluzione robotica e le sue vittime
A fronte di quest’ultimo, cupo scenario, di cui si intravedono già chiare avvisaglie nel presente di diversi paesi tra cui ad esempio l’Italia, comincia a circolare uno scenario alternativo: quello di una nuova epoca di ‘distruzione creativa’ (la cui faseconstruens, però, è futura e del tutto eventuale), in cui grandi quantità di lavori low-skilled verranno rese superflue da un balzo tecnologico, con una conseguente riduzione del fabbisogno complessivo di immigrazione scarsamente qualificata.

 

Questa discontinuità sistemica sarebbe rappresentata dalla seconda rivoluzione robotica, che, dopo la prima, iniziata negli anni Ottanta e imperniata sulla automazione della produzione industriale, investirebbe un settore assai meno standardizzato dal punto di vista dei contesti e delle modalità produttive, cioè appunto quello dei servizi.

 

Dal punto di vista tecnologico, nel giro di pochi anni, questa grande transizione – su cui si fantastica da secoli – ha effettivamente subito un’accelerazione straordinaria.

 

Ormai, il dibattito si è allargato dai circoli specialistici ai media generalistici e, accanto alle conseguenze economiche, riguarda in misura crescente l’impatto sociale e, in particolare, occupazionale. In parallelo con questo ampliamento del dibattito, si rafforza il fronte dei pessimisti, che ormai incalza quello dei tecno-entusiasti.

 

Pochi tuttavia, anche tra i primi, si soffermano sul fatto che, almeno in Europa e forse più generalmente in Occidente, i primi lavori a cadere saranno probabilmente - come fu nella pur diversissima transizione ‘post-industriale’ tra anni Settanta e Ottanta - molti di quelli che ormai etichettiamo come ‘lavori da immigrati’: allora i minatori o gli ‘operai-massa’, oggi gli addetti alle pulizie, alla logistica, alla ristorazione e alla cura della persona.

 

Ci sono però anche alcuni, perlopiù si tratta di economisti, che mettono già perfettamente a fuoco questa probabile evoluzione. E spesso la salutano con soddisfazione, sulla base di una valutazione di scarsa convenienza complessiva di un’immigrazione massiccia di lavoratori poco istruiti e a basso reddito.

 

Insomma, i robot – questo è il ragionamento che comincia a serpeggiare – ci libereranno dagli immigrati economicamente (e, quindi, socialmente) più ‘problematici’, cioè proprio i famigerati low-skilled, schematicamente e ritualmente contrapposti ai tanto invocati ‘talenti mobili’.

 

Detto per inciso, l’uso dell’attributo low-skilled è raramente rigoroso e innocente: di solito, più che al livello delle skills (capacità professionali) effettive - che possono anche essere alte, ma perlopiù non riconosciute – esso viene riferito ai livelli, effettivamente assai bassi, di salario, garanzie e prestigio sociale riconosciuto.

 

Escludere o integrare?
Ma tornando al ragionamento di chi vede la rivoluzione robotica come antidoto all’immigrazione di massa, il punto qui non è se sia desiderabile una società in cui camerieri e badanti siano automi.

 

Questo è un aspetto soggettivo e di mercato, che dipenderà largamente dalla qualità e dal costo degli automi, e in parte dai gusti, o forse più ampiamente dalle abitudini culturali, degli utenti/consumatori: c’è infatti chi predilige comunque precisione e discrezione, chi invece apprezza estro e calore, pur con il loro inevitabile bagaglio di imprevedibilità.

 

Ma i nodi politici sono ovviamente altri: ammettiamo pure di essere alla vigilia di un’esplosione della robotica dei servizi, questo boom che ritmi avrà? Quanto sarà rapido e capillare? Cosa farà chi non potrà permettersi i robot? E come reagiranno i sistemi di welfare pubblici: forniranno voucher agli anziani bisognosi per sostenere il peso dell’assistenza automatizzata? Le spese per i robot-badanti saranno detraibili?

 

La questione della sostenibilità ci riporta al sud Europa e all’Italia in particolare, che a partire dagli anni Novanta ha incarnato con particolare evidenza, in una prospettiva europea, quel modello di immigrazione low cost a cui abbiamo già accennato.

 

Intendiamoci, quel modello non è affatto un ideale, né dal punto di vista dei lavoratori, cronicamente svalutati e iper-precari, né da quello della competitività complessiva di un paese.

 

Ma, da un assetto pesantemente sub-ottimale come quello attuale, si può uscire per due vie: una ‘alta’, fatta di crescita capital-intensive e, ancor più, knowledge-intensive (quindi, nel contesto descritto, presumibilmente anche robot-intensive).

 

Oppure se ne può uscire seguendo una ‘via bassa’, che passa per ulteriore dequalificazione e precarizzazione del lavoro migrante (e giovanile), ma pur sempre all’interno di assetti labour-intensive, nel senso di human labour-intensive o, detto altrimenti, ad alto tasso di sudore.

 

Queste due vie rappresentano scenari ideali, che nella realtà non si escludono a vicenda, ma anzi – nel caso di un paese come l’Italia e, probabilmente, per molti altri paesi europei - non potranno che coesistere ancora a lungo.

 

Avremo dunque un po’ dell’uno e un po’ dell’altro: probabilmente saranno i ceti abbienti a dotarsi per primi di robot serventi (anche se c’è da scommettere che i veri ricchi non rinunceranno mai a maggiordomi ed infermiere in carne ed ossa); i ceti medi invece, quando non saranno troppo impoveriti anche per questo, continueranno ad arrangiarsi con colf a ore e badanti irregolari.

 

Se questo è il futuro che ci aspetta, è importante continuare a dibattere pubblicamente e ad occuparsi, socialmente e politicamente, di immigrazione, di integrazione e di diritti degli immigrati, di quelli già presenti come di quelli che continueranno ad arrivare.

 

Senza cedere alla tentazione, anzi alla tendenza già in corso verso la rimozione simbolica (a cui conseguono inevitabilmente delegittimazione e marginalizzazione sociali crescenti) degli immigrati low-skilled.

 

Costoro, infatti, rappresentano una fetta importante di quei quindici milioni di lavoratori migranti che per ora, in attesa dei robot, continuano a fornire un contributo essenziale alle economie di molti paesi europei.

 

* Direttore di Fieri

 

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