Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 05/06/2015
Valori e regole della democrazia
Valori e regole della democrazia
05/06/2015  | Sindacato.  

 

di Antonio Foccillo

 

Questo articolo è un po’ fuori del consueto sindacale, ma data la discussione che c’è nel Paese riguardo alla democrazia il movimento sindacale non si può escludere dal dibattito.

 

La democrazia è una parola abusata e dietro di essa spesso si nascondono tante involuzioni. Da sempre, la convinzione più largamente diffusa, almeno nel mondo occidentale, è che la democrazia, cioè il governo di molti, sia preferibile rispetto alle forme politiche oligarchiche.

 

Ciò a partire dalla democrazia greca che chiamava tutti i cittadini alla partecipazione diretta e attiva nell’assemblea generale e, a rotazione o mediante sorteggio, alle cariche di governo ed a quelle giudiziarie. I Romani, invece, inventarono il concetto di repubblica che per certi aspetti assomigliava all’idea greca di democrazia, in quanto ne condivideva molti presupposti mentre per altri se ne differenziava e si contrapponeva.

 

La moderna teoria politica prevede la divisione del potere nelle sue tre branche principali, legislativo, esecutivo e giudiziario a cui si aggiunge la teoria della rappresentanza, cioè la delega dell’esercizio del potere a dei rappresentanti.

 

Nel secolo XIX la discussione e la concreta esperienza politica portarono all’opportunità di ancorare la democrazia o all’idea di libertà e di rappresentanza o all’idea di uguaglianza. Prevalse la prima ipotesi. Così il diritto di voto, originariamente ristretto ad una esigua classe di cittadini, selezionati principalmente in base al censo, si estese in modo costante verso la totalità dei cittadini (suffragio universale); e si accrebbe il pluralismo delle assemblee e degli enti che partecipano al processo democratico.

 

Oggi un numero considerevole di paesi in gran parte occidentali è giunto ad un importante livello di democrazia. La democrazia contemporanea, a differenza di quella degli antichi, non rispecchia più la partecipazione dei vari soggetti sociali. La causa profonda del processo storico che potrebbe destrutturare la democrazia nella sua ispirazione fondamentale sta nel fatto che la democrazia contemporanea, nata negli stati-nazione, è insidiata dalla globalizzazione come quella classica è restata perdente dinanzi a un processo di mondializzazione del potere.

 

La nazione è la patria del costituzionalismo liberale, per realizzare lo stato di diritto, con i tre poteri distinti, legislativo, esecutivo, giudiziario. Mai come in questo passaggio di secolo la democrazia appare, nelle sue diverse tipologie costituzionali, vulnerabile e incline alle oligarchie, strutturate in poteri anche non politici, economici, sociali, mediatici, o verso governi personali.

 

Per continuare a farla vivere occorre ancorarla a dei valori che la salvino anche nei grandi scenari della deterritorializzazione del potere, delle unioni sopranazionali, delle egemonie transnazionali, insomma di quelle forme inedite che andrà assumendo la globalizzazione.

 

La legittimazione sostanziale della democrazia sta nella sua radicale alienità dalla rivoluzione e dal terrorismo. Ne consegue che la violenza verbale, la delegittimazione reciproca di maggioranza e opposizione, vanno evitate perché eccitano intolleranza e scontro tra i cittadini. La democrazia è colloquio in ogni luogo sociale come nella sua istituzione fondamentale che è il parlamento. Eppure, nel corso della storia umana, la preferenza a volte è stata a favore del governo di pochi o di nazionalismi e dittature che insediavano un uomo solo al comando.

 

Il nostro Premier con le varie proposte che ha fatto nel suo governo dalla legge elettorale alla riforma della pubblica amministrazione; dalla riforma della scuola alla proposta di un sindacato unico; alla limitazione del diritto di sciopero, etc. ha largamente sostenuto questo tipo di impostazione cioè di prevedere in ogni campo un uomo solo al comando e limitare la partecipazione delle varie rappresentanze.

 

Una forma di concezione plebiscitaria della democrazia che non si limita a determinare l’allentamento o l’aggiramento, dei vincoli costituzionali, ma, parallelamente, innesca anche una dissoluzione della dimensione politica della rappresentanza, che viene, di fatto, svuotata dalla deriva populista, con il risultato di definire il quadro di una radicale crisi della democrazia italiana. La distorsione sistematica dei fatti e dei loro significati per opera della demagogia e della propaganda o la verità celata dalla ragion di stato o il perseguimento d’interessi spesso illegali o egoistici inducono una violenza psicologica nei cittadini con l’effetto di limitarne la libera determinazione dei comportamenti nell’esercizio dei diritti individuali e collettivi. Le regole classiche della democrazia, invece, che esigono il dialogo, la consultazione, l’accordo dentro e con le minoranze, il riconoscimento e la tutela effettiva dei diritti umani, che spettano a ogni essere umano, indipendentemente dalla nazionalità e dalla cittadinanza, ai diritti civili e politici, dei diritti sociali e dei diritti culturali possono dare significato ad una convivenza pacifica e ordinata. La trasparenza della vita pubblica è condizione delle scelte libere e responsabili delle persone. Se queste scelte non sono né libere né responsabili la democrazia diventa finzione di riti e procedure formali con il vizio originario di una coscienza violata e offuscata.

 

In una democrazia rappresentativa non può non essere il parlamento, quando vi si conduce una leale competizione tra maggioranza e opposizione, il luogo della più alta visibilità della libertà di coscienza.

 

Ma vi è un secondo valore costitutivo della democrazia contemporanea ed è la cultura, che diventa un problema politico, quando se ne scopre la forza, impiegabile sia a vantaggio dello Stato sia per la causa della libertà dei cittadini. La democrazia stessa ha bisogno di un consenso libero e critico dei cittadini, per non cadere nelle coazioni demagogiche di una propaganda politica alimentata dall’ignoranza, dalla disinformazione, dalla formazione intellettuale o subcultura faziosa. Garantire la libertà della cultura è oggi garantire il pluralismo dei media, delle istituzioni scolastiche, universitarie e di ricerca, delle imprese editoriali, delle associazioni di tendenza, delle accademie, delle manifestazioni artistiche.

 

Ma non è così! Sia per la riforma della “buona” scuola e sia per i continui tagli all’Università, alla ricerca e alla scuola. Per questo si è generato uno scontro sociale molto acceso e lungo che, non essendo una rivendicazione corporativa, vuole difendere proprio la libertà della cultura.

 

Luigi Ferrajoli, ha scritto un bel libro, condivisibile in buona parte, che richiama questi concetti e fa un’analisi molto dettagliata della crisi della democrazia. (1) Nella presentazione del libro è scritto: “I poteri, lasciati senza limiti e controlli, tendono a concentrarsi e ad accumularsi in forme assolute: a tramutarsi, in assenza di regole, in poteri selvaggi. Di qui la necessità non solo di difendere, ma anche di ripensare e rifondare il sistema delle garanzie. Solo un rafforzamento della democrazia costituzionale, attraverso l’introduzione di nuove e specifiche garanzie dei diritti politici e della democrazia rappresentativa, consente infatti di salvaguardare e di rifondare sia l’una che l’altra. L’idea elementare che il consenso popolare sia la sola fonte di legittimazione del potere politico mina alla radice l’intero edificio della democrazia costituzionale. Ne derivano insofferenza per il pluralismo politico e istituzionale; svalutazione delle regole; attacchi alla separazione dei poteri, alle istituzioni di garanzia, all’opposizione parlamentare, al sindacato e alla libera stampa; in una parola, rifiuto del paradigma dello Stato costituzionale di diritto quale sistema di vincoli legali imposti a qualunque potere”.

 

Secondo Ferrajoli, le cause della decostituzionalizzazione operante ai vertici del sistema democratico italiano sono, in primo luogo, la “verticalizzazione” e la “personalizzazione” della rappresentanza, che assumono, in virtù dell’ideologia populista che le accompagna, una forma di negazione della funzione della rappresentanza parlamentare che avvia un autentico mutamento di sistema. Il populismo, quando l’identificazione tra capo e popolo non è solo una tesi propagandistica ma è proposta come un connotato istituzionale e come una fonte di legittimazione dei pubblici poteri, equivale a un nuovo e specifico modello di sistema politico (2). Una seconda è la crisi “dall’alto” della rappresentanza che scaturisce da quella progressiva confusione e concentrazione dei poteri – di cui il conflitto di interessi è l’aspetto più evidente – che finisce con il determinare “una forma singolare di regressione premoderna allo stato patrimoniale, per di più contrassegnata da connotati populisti” (3). La terza causa di crisi è rappresentata dal mutamento del ruolo dei partiti: un mutamento che è legato a quanto avviene nella società, ma che si è tradotto nella “crescente integrazione dei partiti nello Stato” e, dunque, nel venir meno della distinzione fra livello dei partiti e livello istituzionale. Infine, la quarta causa, indicata da Ferrajoli nella sua analisi della crisi “dall’alto” della democrazia costituzionale, consiste nelle due “patologie” del controllo politico e del controllo proprietario dell’informazione: due patologie esistenti in molti sistemi democratici, ma che assumono in Italia un rilievo qualitativamente differente per la concentrazione di queste due forme di controllo che sono state nelle mani di un Presidente del Consiglio. Ferrajoli ancora attira l’attenzione su un duplice processo di “omologazione dei consenzienti” e di “denigrazione dei dissenzienti”, per cui “chi non si identifica con la volontà popolare espressa dal capo è un potenziale nemico: un disfattista, un anti-italiano, antidemocratico e antipatriottico, in ogni caso privo di legittimazione perché non eletto dalla maggioranza” (4). “L’obiettivo di queste politiche è la divisione e il disarmo dell’insieme dei lavoratori: per l’indebolimento delle tradizionali forme di solidarietà basate sul senso comune di appartenenza alla medesima condizione; per la competizione nel mondo del lavoro innestata dalla disoccupazione crescente e dalla moltiplicazione delle figure atipiche di lavoro precario; per la generale svalorizzazione del lavoro provocata dalle possibilità di dislocare le produzioni fuori dai confini nazionali; per la neutralizzazione del conflitto sociale e l’imposizione ai lavoratori della rinuncia ai loro diritti sotto il ricatto dei licenziamenti (5)”.

 

A una diagnosi così impietosa della situazione italiana, Ferrajoli non manca di far seguire l’indicazione di alcuni rimedi che potrebbero, se non risolvere la ‘crisi’, comunque arginare la tendenza alla decostituzionalizzazione. Si tratta di rimedi che toccano diversi nodi, dal ripristino di un sistema elettorale effettivamente proporzionale (che, soprattutto, elimini il collegamento fra coalizioni di liste e il nome del candidato alla guida del governo), all’introduzione di vincoli più serrati ai conflitti di interesse (anche relativi al cumulo fra incarichi di partito e cariche istituzionali), alla definizione di criteri che garantiscano la democrazia interna ai partiti, a una riforma del sistema informativo finalizzata a garantire la libertà di espressione, il pluralismo, l’autonomia dai poteri economici e politici. è difficile non concordare con molti, e forse con tutti, i punti dell’analisi di Ferrajoli, nel momento in cui segnala la crisi del ruolo dei partiti, la loro vertiticizzazione, la lievitazione dei costi della politica, ma anche la degenerazione del dibattito politico, o l’utilizzo strumentale della paura.

 

Quanta di questa analisi fa parte dell’attualità politica che sta modificando gli assetti e le regole costituzionali? Tanta!

 

Nel corso dell’ultimo trentennio si è determinato un passaggio da una concezione “ambiziosa” della democrazia (in cui la riduzione delle diseguaglianze e la vasta partecipazione popolare sono centrali), ad una concezione “minima” della democrazia (in cui diventano centrali solo le procedure e in cui la partecipazione si riduce al momento elettorale). In questo senso, si può allora legittimamente affermare che le democrazie odierne sono democrazie, come pure erano democrazie quelle degli anni Sessanta e Settanta. Ma è altrettanto legittimo riconoscere tutti quei mutamenti radicali che abbiamo segnalato, e proprio per questo si può anche sospettare che l’enfasi sulla “continuità” della dinamica democratica finisca, di fatto, con il favorire l’occultamento delle reali dinamiche di potere. Dunque, l’esito di una riduzione della struttura democratica e partecipativa sono rischi reali nella società contemporanea, per cui è quanto mai opportuno mantenere viva la riflessione sul tema e alta la vigilanza sulla qualità delle nostre democrazie.

 

___________________

 

1) Luigi Ferrajoli, “Poteri selvaggi”, Edit, Laterza.
2) (ibi, p. 47)
3) (ibi, p. 29)
4) (ibi, p. 42)
5) (ibi, p. 47)