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APRILE 2007

LAVORO ITALIANO

Direttore Responsabile
Antonio Foccillo

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Edizioni Lavoro Italiano
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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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MARZO 2007 

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SOMMARIO

Editoriale
La politica, la classe dirigente e il sindacato di A. Foccillo

Intervista
Intervista a L. Angeletti di A. Passaro

Attualità
Completare il processo di unificazione Europea - del Ministro Emma Bonino di A. F.

Interviste
Il sindacato e i ministri del lavoro del passato, Rino Formica: il nuovo equilibrio dei poteri di P. Nenci
Il 2007 rappresenta un anno cruciale di M. Abatecola

Sindacale
Confronto con il Governo Interviste a M. Maulucci, P. P. Baretta, A. Foccillo di A. Carpentieri

Internazionale
Le donne d’Africa corrispondenza di N. Nisi
Word Social forum Nairobi 2007 del Prof. A.H. Hassan

Economia
A proposito di rigore, equità e sviluppo di A. Croce
Il terremoto fiscale e il prelievo sulla casa di S. Tutino

Europa
I valori del modello sociale europeo nell’attuale processo costituente di A. Ponti
Conoscere l’Europa, le istituzioni: la commissione europea di C. Cedrone

Cultura
Economia della conoscenza. Il Sindacato può tutelare i nuovi lavori dei creativi? di N. A. Rossi
Leggere è rileggere - di G. Balella
Il centro sperimentale - di L. Gelmini
Lettere di Iwo Jima - di S. Orazi

Agorà
Questo, bellezza, è il pensiero unico... - di C. Benevento
Mercati e leggi di mercato - di G. Paletta

Flash
Strage Mecnavi: ventanni dopo - di A. Carpenteri

Inserto
Povero lavoratore: l’inflazione ha prosciugato i salari. Analisi dell’Eurispes

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EDITORIALE

La politica, la classe dirigente e il sindacato

Di Antonio Foccillo

E’ iniziato il confronto con il Governo su una possibile politica di sviluppo e di rilancio del sistema Italia. L’impressione che si ha è più quella di una routine che una vera e propria proposta, scaturente da aspettative di un modello e di un progetto, vissuti da tutti come importanti e, pertanto coinvolgenti. Il dibattito politico è troppo distante dalle esigenze reali della gente comune e questo provoca distacco e sfiducia, piuttosto che generare un sentimento motivante per l’insieme del paese. Infatti, mentre vi è una grande fibrillazione in tutte le forze politiche, che si dividono e si confrontano su progetti di ingegneria organizzativa, la gente comune è afflitta da mille problemi a cui i partiti non prospettano risposte; il cittadino non sa neppure a chi rivolgersi per parlare e per chiedere soluzioni e appunto per questo guarda alla politica con distacco e apatia. Vi è stata, negli ultimi anni, una progressiva mancanza di partecipazione alla vita politica, proporzionale alla crisi di democrazia, che investe sia i partiti che le stesse istituzioni, non escluso lo stesso Parlamento, che è stato frutto delle scelte dei singoli capi partito invece che da parte della cittadinanza. Infatti, le elezioni dei parlamentari e dei senatori sono avvenute esclusivamente sulla base della progressione numerica in cui sono stati collocati nella lista i candidati e ciò in mancanza del voto di preferenza che era stato sempre un presupposto fondamentale della partecipazione democratica alla vita politica, prevista dalla Costituzione.  Gli stessi partiti appaino sempre più incapaci di elaborazione progettuale, in grado di disegnare un modello in cui la gente veda la soluzione delle sue rivendicazioni e si senta mobilitata nel sostenerlo. Manca finanche una proiezione politica utopica, intesa nel significato che Massimo Cacciari, nel suo Geofilosofia dell’Europa, attribuisce all’opera politica di Platone non fuori luogo, ma fuori dall’ordinario, poiché l’utopia è stata sempre sintomo di fervore intellettuale e morale. Sulle grandi scelte manca una visione d’assieme. Infatti, un modello di sviluppo passa dall’elaborazione di una strategia industriale che stabilisca su quali settori di eccellenza puntare per rendere più agevole la loro capacità di competere sui mercati e di conseguenza produrre ricchezza da ridistribuire e possibilmente in modo più equo. Ciò richiede investimenti in tecnologia e ricerca per qualificare e inventare il “nuovo” prodotto. Non si può continuare a pensare di competere sulla riduzione del costo del lavoro, ma su prodotti qualificati e che rappresentano bene la creatività italiana, unico campo che da sempre ben rappresenta il nostro Paese. Nel dibattito politico manca un’idea di stato sociale e nessuno si preoccupa nell’attuale situazione politica di definire le esigenze minime per mantenerlo in vita e riformarlo. Non vi sono alternative credibili che si confrontino, ma da tutte le parti, sia di destra che di sinistra, si è più attenti alle sirene dell’economia che propongono esclusivamente tagli di spesa, portando al macero un nucleo fondamentale di civiltà che ha caratterizzato l’Europa e l’Italia. La nostra coesione, la nostra civiltà e il nostro modello di società, in cui il principio della solidarietà e della compartecipazione al contributo fiscale era destinato ad accrescere anche la possibilità di vita delle classi più povere, sono state abbandonate con la conseguenza che tutte le spese del Welfare sono da ritenere rami secchi da tagliare. E gli effetti dell’Euro che hanno dimezzato il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, mettendo le famiglie o i singoli lavoratori in una condizione di fragilità, in qualche caso di povertà che ha depresso i consumi sono stati del tutto accantonati. La stessa situazione sociale, se non affrontata, rischia di creare nuove conflittualità per l’esasperazione dei giovani che sono senza prospettive, e per una microcriminalità che sta impaurendo notevolmente la popolazione italiana. Il Mercato del lavoro è dominato da elevata percentuale di precarietà e il sistema produttivo allontana i cinquantenni che non trovano più nuovo lavoro. Nel sistema formativo, la mancanza di valori evidenzia una progressiva crisi che produce atti violenti e fenomeni di bullismo senza che si sia in grado di metterci un freno. Il costo delle case e degli affitti sta esasperando molti cittadini ed il fenomeno di impossibilità di pagamento dei mutui anche in Italia sta aumentando. La classe politica italiana, dopo “la rivoluzione del 1992” è maturata, in gran parte, senza un’adeguata partecipazione ai vari livelli istituzionali, come avveniva precedentemente e quindi, spesso è arrivata alla gestione della cosa pubblica senza il necessario tirocinio. La stessa selezione, che avveniva dentro i partiti attraverso la partecipazione alla discussione e il confronto fra le componenti, non esiste più e, visto che i partiti sono diventati proprietà dei capi, si è scelto più per cooptazione che per il sistema democratico di elezione, il quale, viceversa, può far emergere anche personalità in grado di dire qualche no e in possesso altresì di qualità e preparazione. La stessa criminalizzazione dei “professionisti” della politica e la conseguente individuazione di rappresentanze della società civile non sempre ha raggiunto il risultato di far emergere i più preparati alla gestione e alla direzione della politica italiana. Bisogna ritornare alla fase precedente in cui i partiti, come è scritto nella costituzione, siano palestre di partecipazione e di riconoscimento dei migliori che emergano nel rapporto con i cittadini che devono rappresentare. Bisogna ridisegnare modelli alternativi di società in cui le parti politiche si confrontino e si battano per proposte diverse (più stato e meno mercato o meno stato e più mercato) e il popolo italiano alla fine possa scegliere innanzitutto il modello di società che ritiene più consono e quindi i suoi rappresentanti che ritiene più adeguati. Bisogna rispondere alle mille paure che emergono nella società (dal posto di lavoro al benessere, dallo stato sociale alla lotta all’emersione del lavoro nero, da un fisco più equo alla lotta all’evasione, dalla guerra alla microcriminalità, e alla macrocriminalità“anche quella nuova”, dai fenomeni di immigrazione che vanno risolti per evitare che vi sia più emarginazione alla lotta alle nuove povertà, da salari e pensioni adeguati al diritto alla casa…). Bisogna individuare una classe politica che non sia interessata solo agli scontri di fazione e di potere, ma sia interessata a costruire un Paese migliore con delle riforme che nascano dalla discussione e dalla passione civile per l’interesse del Paese intero. Il sindacato italiano, in questi anni, pur essendo rimasto il più forte e rappresentativo dell’intera Europa, ha vissuto fra mille problemi. Sono pesate le incapacità complessive di confronto nell’elaborazione della politica e si è passati dalla fase di concertazione, al dialogo sociale ed infine, alla sola informazione. Questo, di fatto, ha inaridito anche la sua vena propositiva, perché, per l’avanzamento delle politiche liberiste che mettevano in discussione tutta le conquiste di tutela e garanzia dei lavoratori, si è dovuto difendere più che proporre. Nonostante ciò oggi il Sindacato è l’unico strumento di democrazia e partecipazione esistente nella nostra società. Per fortuna nel suo interno si confrontano milioni di persone, con idee diverse che trovano una sede in cui non solo metterle a confronto, ma anche verificarle e così partecipare per costruire proposte condivise e collettive. Tuttavia il movimento sindacale deve essere in grado di fare un ulteriore salto di qualità ritornando ad essere, non solo uno strumento rivendicativo, ma anche un soggetto politico.

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Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, lo scorso 22 marzo ha avuto inizio il tanto atteso confronto tra parti sociali e governo. Si può dire che la nuova concertazione stia muovendo i suoi primi passi. Con quale stato d’animo la Uil affronterà questa trattativa?

L’incontro del 22 è servito ad aprire finalmente il confronto tra Governo e parti sociali. Si stanno però cumulando una serie di divergenze a partire dalla questione del rinnovo del contratto per i lavoratori del pubblico impiego. L’accordo mi sembra difficile, la strada è stretta. Restano anche da affrontare due questioni fondamentali per la maggioranza degli italiani: la redistribuzione della ricchezza e la riforma del sistema fiscale.

La questione fiscale non trova soluzione e si hanno ripercussioni negative in termini di mancata crescita e di iniqua distribuzione della ricchezza. La chiave di volta per risolvere i problemi del nostro Paese è dunque nel cambiamento della politica fiscale?

La politica fiscale negli ultimi anni è stata disastrosa ed ha frenato la crescita. E’ stato come un mondo alla rovescia: i più poveri hanno finito per pagare le tasse per i più ricchi. Non si può più sostenere una situazione in cui si paga circa il 33% di tasse su 1000 euro di lavoro straordinario, mentre lo stesso guadagno in borsa viene tassato al 12,5%. In Italia ci sarebbero solo 1.200 persone che dichiarano più di 1 milione di euro e poco più di 36.000 cittadini che dichiarano 300.000 euro. Il nostro sistema fiscale è iniquo e penalizza lavoratori dipendenti e pensionati, che sono la maggioranza degli italiani. Un governo di centrosinistra dovrebbe guardare con maggiore attenzione a questi problemi. Bisogna far pagare le tasse a chi non le paga e ridurle a chi le paga.

Produttività e competitività sono gli argomenti di discussione di uno dei tre tavoli del confronto tra governo e parti sociali. Su questi temi, la posizione della Uil è molto chiara, vogliamo ribadirla?

Il nostro Paese soffre di due mali: bassa produttività e bassi salari. Dobbiamo costruire un sistema contrattuale che sia in grado di far crescere il salario reale dei lavoratori, confermando il contratto nazionale ed estendendo nel modo più capillare possibile la contrattazione di secondo livello. Se vogliamo puntare allo sviluppo in tempi rapidi, occorre che dipendenti e pensionati abbiano più reddito a disposizione. Crescita vuole dire anche investire nella ricerca, nell’innovazione e nelle infrastrutture, materiali ed immateriali. Solo così possiamo davvero puntare allo sviluppo.

Il tavolone presentato dal governo si regge su altre due gambe: pubblico impiego e welfare. La trattativa dovrà affrontare anche la questione della modernizzazione della pubblica amministrazione, proprio nel momento in cui il mancato rinnovo dei contratti ha acceso la miccia dello sciopero generale. Qual è il tuo giudizio?

Solo la firma del contratto potrà evitare uno sciopero generale. Se ciò non accadrà lo sciopero non potrà che essere confermato. Purtroppo, siamo stati costretti a proclamarlo, nonostante già lo scorso anno si sia trovata un’intesa quadro.  All’interno del governo sembra ci sia qualcuno che si illude di non dover  necessariamente rispettare gli accordi già stabiliti, risparmiando qualche centinaia di milioni di euro proprio dal mancato rinnovo dei contratti. E’ un’illusione che bisogna togliersi. Ci aspettiamo, dunque, che il Governo rispetti i patti e dia indicazioni all’Aran di andare avanti con le trattative. I soldi ci sono e le condizioni ci sono sempre state. Occorre la volontà di firmare l’accordo.

La strada quindi è disseminata di ostacoli e la pietra di inciampo potrebbe essere rappresentata dalle pensioni. I sindacati confederali sono sempre stati molto chiari: via lo scalone e no alla revisione dei coefficienti. Puoi ribadirci la posizione della Uil?

Esiste una questione mai risolta che riguarda il costo del nostro sistema previdenziale. Le cifre che vengono riferite non sono reali perchè viene sommata alla spesa previdenziale, in senso stretto, anche l’assistenza, falsando così ogni paragone tra il nostro sistema pensionistico e quello degli altri paesi europei, circa la sua sostenibilità. L’assistenza deve essere pagata con le tasse. Al prossimo incontro sulla previdenza, dimostreremo, dati alla mano, che le pensioni non sono il problema principale del nostro Paese. Se il governo procedesse, come chiediamo, alla separazione tra assistenza e previdenza e all’armonizzazione dei trattamenti previdenziali per tutti, si accorgerebbe quanto sia inutile l’aumento dell’età pensionabile.

Anche il dibattito sul cosiddetto “tesoretto” sta affollando, in quest’ultimo periodo, le pagine dei quotidiani nazionali. Montezemolo pochi giorni fa, ha dichiarato che l’extragettito dovrà servire, prima di tutto, a risanare i conti pubblici. Cosa ne pensi?

I conti pubblici sono migliori di quanto previsto e noi dobbiamo pensare a sostenere lo sviluppo. Peraltro, sono convinto che le risorse del tesoretto siano superiori a quelle di cui si parla. E per noi, come è noto, sostenere lo sviluppo vuol dire anche ridurre le tasse a chi le ha sempre pagate e, quindi, per primi, ai lavoratori dipendenti.

Tiene banco in queste ore una nuova vicenda Telecom. L’At&t e la America Movil hanno manifestato l’intenzione di acquisire entrambe un 33% di Olimpia, la società che, di fatto, detiene la proprietà di Telecom. Commenti, distinguo e contrapposizioni si stanno susseguendo sulle prime pagine dei giornali. Anche tu, a caldo, hai dato un commento…

Si, ho detto che a noi non piace la vendita di Telecom e che siamo preoccupati per il futuro dell’azienda e, soprattutto dei lavoratori. Trovo però stucchevole il grido ‘non passa lo straniero’ perché questa volta sul Piave bisogna mettere i soldi! La mia opinione è che la soluzione migliore al problema Telecom sia quella dello scorporo della rete dalla gestione, secondo il modello inglese. Per quanto riguarda la gestione sarebbe preferibile un investitore italiano ma il problema vero è avere un piano industriale che dia garanzie necessarie sul piano occupazionale e su quello del servizio, per avere qualità a basso costo.

Un’ultima domanda. Nell’ambito delle Forze armate e, in particolare, dei Carabinieri, si è aperto un dibattito sulla possibilità di dar vita ad una sorta di sindacato. Anche tu sei stato interpellato sull’argomento. Cosa ne pensi?

Credo che una forma di rappresentanza sindacale dei militari sia una scelta positiva e di civiltà che, fatta con opportune modalità, non comprometterebbe in alcun modo la loro funzione per il “bene” del Paese. Certo, considerata la natura militare delle forze armate, le forme di organizzazione sindacali non potrebbero essere quelle consuete e tradizionali che comportano, ad esempio, il diritto di sciopero. Ciò sarebbe impensabile.

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Completare il processo di unificazione europeo

di Emma Bonino, Ministro per il Commercio Internazionale e le Politiche Europee

Siamo ancora freschi di festeggiamenti. A fine marzo abbiamo celebrato i primi cinquant’anni dei Trattati di Roma, e sottolineo “primi” perché ritengo che se sia importante lodare i successi dell’ultimo mezzo secolo, sia altrettanto importante riconoscere che l’integrazione europea non è stata ancora ultimata. Anzi, è esattamente questo ciò che dovremo fare nel corso dei prossimi cinquant’anni: completare il processo di unificazione. A Berlino c’è stato un bel moto d’orgoglio, ed io spero davvero che tra qualche mese potremo ricordare questi festeggiamenti come l’inizio di una ripresa convinta dell’integrazione. Ossia, come qualcosa rivolto più al futuro che al passato. A mio avviso, il risultato più significativo della Dichiarazione di Berlino riguarda il fatto che abbiamo fissato una data – il 2009 – come termine entro cui trovare una soluzione all’impasse in cui siamo finiti a partire dalla primavera del 2005, all’indomani della bocciatura del Trattato costituzionale europeo in Francia e nei Paesi Bassi. Sbloccare questo impasse è vitale poiché per andare avanti e costruire un’Europa forte, solidale e protagonista sulla scena mondiale, dobbiamo dotarci degli strumenti adeguati. Solo così saremo in grado di affrontare le sfide del XXI secolo. Il rischio, altrimenti, è che l’Unione europea da avanguardia diventi, all’improvviso, obsoleta. In Europa si cominciano ad avvertire dei rigurgiti nazionalisti, ma il governo italiano è impegnato in prima linea per fare in modo che si trovi una soluzione ambiziosa e che si torni a guardare all’interesse comune. Allo stesso tempo, non basterà superare l’impasse con qualche piccolo accorgimento tecnico, da dietro le quinte. L’Europa ha un futuro se assieme all’“Europa delle istituzioni” riusciamo a rilanciare l’“Europa dei cittadini”. Non dimentichiamoci infatti che il futuro dell’integrazione europea passa per il futuro dell’integrazione tra gli europei. Dobbiamo evitare quindi che il divario fra queste due Europe – quella delle istituzioni e quella dei cittadini - si aggravi col tempo. E’ del resto con questa idea in testa che proprio in occasione delle celebrazioni per i 50 anni dei Trattati di Roma, ho promosso, assieme al dipartimento per le politiche comunitarie, una campagna di informazione dei cittadini sull’Europa che è sempre con noi, dalla mattina alla sera”: sui vantaggi concreti, cioè, che l’integrazione europea porta ogni giorno. In particolare, abbiamo lanciato un sito internet, www.vivieuropa.it, che ha l’ambizione di fungere da “snodo” verso altri siti, dove ottenere velocemente informazioni sulle occasioni offerte ad ogni cittadino che voglia lavorare, fare impresa, studiare, o viaggiare in Europa. Che voglia cioè offrirsi più possibilità e allargare il proprio futuro. Al di là di Berlino, ci sono tre ambiti importanti su cui l’Europa ha deciso di puntare per i prossimi anni e su cui l’Italia, intesa sia come governo sia come paese, sarà chiamata a fare la sua parte. I primi due ambiti riguardano il cambiamento climatico e l’energia. Nel corso dell’ultimo Consiglio europeo che si è tenuto ad inizio marzo, i Capi di Stato e di Governo hanno preso delle decisioni importanti che rappresentano una vera e propria rivoluzione: siamo infatti passati a considerare complementari due politiche – l’energia e l’ambiente - che erano state sempre viste come “antagoniste”. L’Unione ha saputo fare questa rivoluzione e ha risposto alla sfida accettando di assumere un ruolo guida nella protezione internazionale del clima, collocandosi in una posizione di avanguardia in settori, come quello della riduzione dei gas serra, delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, che diventeranno sempre più la chiave della crescita e dello sviluppo sostenibile nel prossimo futuro. Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, l’impegno comune è di ridurre del 20% (rispetto ai livelli del 1990), entro il 2020, le emissioni di gas ad effetto serra. Per quanto riguarda le energie rinnovabili, è stato fissato un target ambizioso: la loro quota nell’energia primaria dovrà raggiungere complessivamente il 20% entro il 2020. Un target analogo è stato deciso per l’efficienza energetica, dove l’intenzione è quella di arrivare ad un risparmio dei consumi energetici del 20% rispetto alle proiezioni per il 2020. I risultati di marzo hanno mostrato che esiste una convergenza in seno all’Unione e che ci sono i margini politici per arrivare a termine ad una vera politica energetica comune europea. Operando nel pieno rispetto del mix energetico scelto dagli Stati membri ed in uno spirito di solidarietà tra questi ultimi, questa politica dovrà garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, la competitività delle nostre economie, la disponibilità di energia a prezzi accessibili, e promuove la sostenibilità ambientale e la lotta contro i cambiamenti climatici. L’Italia ha sostenuto con convinzione le proposte presentante dalla Presidenza UE, che riprendevano in larga sostanza quelle della Commissione europea dello scorso gennaio, e le ha sostenute con la consapevolezza della gravosità degli impegni assunti. Il punto critico riguarderà adesso il quadro di ripartizione in tema degli oneri tra gli Stati membri in tema di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Si tratta di un aspetto importante che richiederà da parte nostra una grande attenzione e su cui il governo è intenzionato a vigilare in maniera costante. Il terzo ambito importante che sta al cuore dell’azione dell’UE – e che deve diventare il nuovo cuore anche dell’azione di governo - riguarda la cosiddetta Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione, che mira a fare dell’Europa “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Lisbona si sta dimostrando un importante motore per il cambiamento. E il governo italiano ne ha approfittato per portare avanti delle azioni di riforma importanti, prime fra tutte quelle relative ai pacchetti sulle liberalizzazioni, con cui garantire ai consumatori servizi più efficienti e a costi più bassi.

Personalmente, ci sono due altre dimensioni “orizzontali” di Lisbona che ritengo meritino particolare attenzione, e che devono essere al centro della nostra agenda politica. La prima riguarda le donne. Il ruolo delle donne è profondamente mutato nella società e nell’economia, ma pare che la politica non se ne sia ancora accorta. Mentre invece bisogna assolutamente intervenire per incoraggiare delle trasformazioni strutturali. Il dato di occupazione femminile è drammaticamente basso. In Italia, siamo al 45%, contro una media europea del 56% e contro valori pari a 58-60% per paesi che non sono la Danimarca (dove siamo oltre il 70%), ma la Francia e la Germania. In Europa, peggio di noi sta solo Malta! Non abbiamo quindi molta scelta: o cominciamo a preoccuparci seriamente per questo ritardo cronico e cerchiamo di porvi rimedio, oppure ci accontentiamo di restare un’economia ed una società che non si avvale delle potenzialità di una larga fetta della sua popolazione. Il dato sull’occupazione è già di per sé preoccupante, ma lo diventa ancora di più se lo accostiamo al dato sulle nascite. In Italia, il tasso di natalità è al 9,5‰, contro una media europea superiore di oltre un punto. E cioè, le donne italiane non lavorano, come risulta dal primo dato (45%), e non fanno figli, come risulta dal secondo (9,5‰). Mi verrebbe da chiedere: ma allora, se non lavorano e non fanno figli, che cosa fanno? A questa domanda oggi dobbiamo cominciare a dare una risposta vera, seria, capace di guardare lontano e di traghettarci verso una nuova Italia in cui non saremo più confrontati con una situazione tanto imbarazzante. A mio avviso dobbiamo cominciare da alcuni punti precisi ma importanti, come ad esempio i servizi di assistenza all’infanzia ed una legislazione più “amica” delle donne, perché queste ultime possano finalmente coniugare al meglio vita professionale e vita familiare.

Un altro fronte critico riguarda l’impresa. La voglia di intraprendenza delle donne deve essere vista come una risorsa per il paese, non come una minaccia. Si tratta di un fermento che va cavalcato, non frenato.

In termini più generali, è chiaro che dobbiamo lavorare per cambiare una certa cultura diffusa nel nostro paese, e per fare in modo che le donne siano messe nelle condizioni di dare il loro contributo alla crescita economica, sociale e politica del paese.

La seconda dimensione di Lisbona che mi sta particolarmente a cuore riguarda i giovani. Io credo che quello che veramente serva sia dare ai nostri giovani la possibilità di liberare le loro energie; la possibilità di fare dei sacrifici ma di farli sapendo che, mentre li fanno, costruiscono qualcosa.

Ci sono due versanti su cui dobbiamo operare delle trasformazioni radicali. Il primo riguarda la ricerca. Non possiamo pensare che stiamo gettando le fondamenta del nostro futuro se poi paghiamo i ricercatori con salari da precariato, se abbiamo università poco dinamiche, isolate dal resto del contesto sociale e del tessuto produttivo. Università che non guardano al mondo. Tutto questo produce un risultato catastrofico: i nostri migliori talenti se ne vanno in Europa, o dall’altra parte dell’Atlantico, dove contribuiscono a sviluppare industrie, politiche pubbliche e in generale a far crescere quei paesi cui noi, poi, ci affanniamo a correre dietro.  Il secondo punto riguarda la mobilità, anche geografica. Su questo fronte, è necessario cominciare a dire chiaramente che muoversi è una opportunità. Una opportunità di crescita personale ancora prima che professionale. Nulla ci serve di più che una generazione di giovani curiosi, che abbia voglia di viaggiare, di andare a fare un’esperienza formativa o di lavoro in un’altra città o in un altro paese. Una generazione di giovani che non abbiano paura di perdere niente e che sentano invece di avere tutto da guadagnare.

Il terzo aspetto sui giovani riguarda – come per le donne – l’imprenditoria. I giovani sono pieni di idee e dobbiamo fare in modo che possano crederci. Servono non solo incentivi, ma anche facilità e rapidità nel mettere su un’azienda. Certo, è importante poter far nascere in un giorno una nuova impresa, ma dobbiamo anche ridurre gli oneri amministrativi che poi gravano sulla vita dell’impresa, soprattutto delle PMI.

C’è da guadagnare molto a liberare il potenziale dei giovani, a dare loro la possibilità di produrre idee, da trasformare in progetti o da portare avanti all’interno delle imprese o della pubblica amministrazione. Per riuscire in questo, dobbiamo far diventare i nostri ambienti di lavoro posti più aperti, più predisposti al nuovo e alla creatività. Bisogna infine puntare su una formazione continua, basata su sull’acquisizione costante di nuovi saperi. Nessuno deve restare escluso dalle opportunità che offre il mondo moderno, tutti devono essere coinvolti, ogni università, ogni famiglia, ogni impresa, ogni lavoratore.

Il mondo di oggi è un mondo più incerto ma anche un mondo che offre tante occasioni. Per coglierle, però, servono spirito di sacrificio, coraggio, volontà di miglioramento. Oggi, da italiani, dobbiamo permetterci l’ambizione non solo di restare al passo con i nostri amici europei, ma di raggiungere la testa del gruppo. Questo è lo stimolo di Lisbona. Questo è lo stimolo quotidiano che deve venirci ogni giorno dall’Unione europea, e questo è, in fondo, il tipo di scommessa che abbiamo fatto come governo e come Paese.

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