UIL: Lavoro Italiano | Novità nel sito
Il nostro indirizzo e tutte le informazioni per contattarci
Google

In questo numero

In questo numero
SETTEMBRE 2013

LAVORO ITALIANO

Direttore Responsabile
Antonio Foccillo

Direzione e Amministrazione
Via Lucullo, 6 - 00187 Roma
Telefono 06.47.53.1
Fax 06.47.53.208
e-mail lavoroitaliano@uil.it

Sede Legale
Via dei Monti Parioli, 6
00197 Roma

Ufficio Abbonamenti
06.47.53.386

Edizioni Lavoro Italiano
Autorizzazione del Tribunale
di Roma n.° 402 del 16.11.1984

Il numero scorso

In questo numero
LUGLIO/AGOSTO 2013

Altri numeri disponibili

SOMMARIO

Il Fatto
Un’austerità da discutere altrimenti si ampliano solo le differenze economico-sociali - di A. Foccillo
L’Italia ha bisogno di un Governo che decida. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL - di A. Passaro
Lo stesso entusiasmo, la stessa determinazione. Intervista a Carmelo Barbagallo - A cura della Redazione
Rimettiamo le persone al centro dell’agenda politica. Intervista a Stefano Fassina - di P. Nenci

Ultim’ora
Serve un vero Governo al paese

Attualità
Il nuovo anno scolastico si apre all’insegna dei tanti problemi irrisolti - di P. Turi
Decreto scuola: bene gli investimenti, ma ancora molto da fare per l’informatizzazione negli istituti - A cura dell’Eurispes

Sindacale
Quello “sforzo comune” da ogni parte invocato... - di C. Tarlazzi
Altro che stabilizzazioni! Con il dl D’Alia si rischia il blocco delle assunzioni (e si salveranno solo gli amici degli amici….)! - A cura della UILRUA
L’altra faccia dell’immobilismo: il decisionismo “spinto”. Piovono, copiose, le decisioni del Governo Letta su Taranto - di G. Turi
Quale futuro per l’industria manifatturiera nel meridione? - di E. Canettieri

Economia
IMU o Service Tax. IMU oder Service Tax sind gleich - di G. Paletta
Porti Italiani: Crollo delle importazioni, responsabilità indefinite, direttive incerte - di G. C. Serafini

Società
L’islamizzazione dell’Italia è solo un bluff - di P. Nenci

Approfondimento
La ricerca della libertà. La Uil ed il colonialismo nell’Africa mediterranea - di P. Saija

Agorà
Se non ora …. quando?- di C. Benevento
Il Perù di oggi, tra boom economico e antiche fratture sociali - di B. Casucci
LAMPEDUSA l’isola che …c’è - di S. Fortino
Onnipotenza e soldi - di G. Salvarani

Il Corsivo
Che fine ha fatto il sindacato dei cittadini? - di P. Tusco

Il Ricordo
Ciao Aurelio - di G. S.

Inserto
Quando il sindacato suonò la campana (II parte) - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Un’austerità da discutere altrimenti si ampliano solo le differenze economico-sociali

Di Antonio Foccillo

Negli ultimi decenni, i Paesi dell’OCSE hanno subito significativi cambiamenti strutturali derivanti dalla loro più stretta integrazione in un’economia globale e il rapido progresso tecnologico. Questi cambiamenti, infatti, hanno influenzato il modo in cui sono distribuiti i redditi da lavoro. In questo periodo la maggior parte dei paesi dell’OCSE ha effettuato riforme normative che, per rafforzare la concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi associati e rendere i mercati del lavoro più flessibili, hanno inciso profondamente sui diritti dei lavoratori. La legislazione sulla tutela dell’occupazione per i lavoratori con contratti temporanei è diventata anche meno protettiva in molti paesi Ocse, dove i salari minimi hanno sostituito, come riferimento, i salari medi e sono stati cambiati anche i meccanismi per la fissazione dei salari.

Lo sfruttamento materiale e immateriale del lavoro precario e flessibile continua a produrre globalmente diseguaglianze sociali sempre più divaricate e impoverimenti generalizzati sempre più estesi.Nel corso dei due decenni, nella grande maggioranza dei paesi OCSE, il reddito disponibile delle famiglie è aumentato in media dell’1,7% all’anno, questo perchè, i redditi del 10% delle famiglie più ricche sono cresciuti più rapidamente rispetto a quelli delle famiglie più povere, portando ad ampliare la disuguaglianza del reddito. Gli incrementi di disuguaglianza del reddito familiare sono stati in gran parte determinati dai cambiamenti nella distribuzione dei salari e stipendi che rappresentano il 75% del reddito familiare di adulti in età lavorativa. In questo frangente la famiglia, è stata l’unico e più efficace ammortizzatore sociale, anche se questo compito solidaristico è stato coattivamente ridotto dalle ultime manovre di tagli, operate dai Governi italiani, sulla base delle direttive Ue, che hanno continuato nell’opera di restrizione e di austerity.Noi riteniamo che in questo scenario bisogna ridiscutere la politica dell’austerity che colpisce direttamente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione, che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare.

Per completare il tutto, in nome della ripresa, si privatizza ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.). L’effetto è che, nel contesto della crisi, è solo la finanza a crescere. Grazie alle privatizzazioni il mercato finanziario è esploso, in Italia come in tutta Europa con tutto ciò che ne consegue in termini di aumento della disoccupazione e impoverimento della popolazione.Da un ventennio in Italia, questa politica di privatizzazione ha portato alla perdita di moltissime aziende anche strategiche, che sono finite in mano ai capitali stranieri, e così facendo hanno privato il nostro paese di ricchezze. Ultimamente abbiamo perso, anche, l’unica azienda telefonica italiana, la Telecom e si parla di cedere alla Francia, l’Alitalia. Peccato che quando il nostro Paese voleva fare acquisti all’estero sono emerse tutte le difficoltà dovute alla voglia dei relativi paesi di mantenersi le loro aziende, fregandosene delle logiche di mercato. In Italia – di fronte al dicktat europeo dell’austerità – si è riversato sui cittadini una bordata di tasse, si sono tagliate le spese pubbliche del welfare.

Poco importa la discesa negativa del PIL; la disoccupazione ha raggiunto cifre pazzesche (più della metà di questi disoccupati sta nella fascia dei giovani che hanno meno di 35 anni e 1/3 ha meno di 25 anni) e il potere d’acquisto delle famiglie è calato sensibilmente tanto da far precipitare i consumi, mentre in Europa, siamo ormai il fanalino di coda quanto alle retribuzioni.Vengono smantellate le garanzie, conquistate dalla società in decenni di lotte e di sofferenze, si trasformano solo in profitto finanziario a favore dei soli abbienti. Ciò avviene socializzando le perdite, aumentando le diseguaglianze e la povertà, criminalizzando l’opposizione e manovrando la ristrutturazione in atto come una vera e propria guerra di sovranità nell’assetto della nuova geografia politica planetaria.Ma se le crisi dei sistemi sociali non sono cosa nuova e inaspettata, come è possibile che il quadro attuale, così chiaro nel suo funzionamento, così feroce e deleterio, non suggerisca il cambio radicale del modello individualistico e del profitto privato? Se si vuole uscire da questo aumento di povertà occorrono nuove forme di politica democratica che ribaltino la bibbia del mercato mondiale capitalistico. Ora, se la politica è luogo e tessuto di relazioni interconnesse in cui la società, la sua organizzazione e le sue crisi non dovrebbero essere più affare dei soliti pochi privilegiati, né tanto meno fondarsi sull’individualismo e la concorrenza individuale e sociale, solo la forza dei valori di solidarietà può rappresentare l’alternativa di oggi, non più rimandabile.Solo se la politica sarà capace di riproporsi come il luogo in cui la società si autorappresenta in un progetto alternativo, elaborato collettivamente e l’organizzazione sociale si struttura solidaristicamente, la politica, cessando di essere l’affare dei pochi, può divenire pratica comune e diretta ad ogni livello.

La democrazia dal basso, a partire dal nucleo centrale del “bene comune”, può concretizzare l’utopia di un progetto ideale contemporaneo. Bisogna agire, adesso, mentre il sistema finanziario internazionale è scosso dalle basi, la crisi dell’euro sta spaventando il mondo intero e mette in ginocchio le economie reali di vaste zone dell’Europa. Il debito continua ad aumentare, come pure i deficit e le contraddittorie stime degli esperti si sommano all’impotenza dei politici. Bisogna ribellarsi, anche se nessuno ha ricette pronte e tutti navigano a vista, perché comunque siamo giunti ad un bivio.I recenti dati della Banca d’Italia indicano che, nonostante le tante manovre economiche di tagli che si sono susseguite fino ad oggi, il debito non scende. Nello stesso tempo, il fabbisogno della P.A. continua ad aumentare, nonostante il blocco delle assunzioni, la diminuzione dei dipendenti, il salario individuale dei pubblici dipendenti sia rimasto invariato dal 2010, i contratti collettivi, nazionali e aziendali, siano bloccati e l’occupazione sia in calo. Il nuovo record assoluto del debito pubblico italiano è la conferma che la politica di restrizione e di austerity sta facendo precipitare il nostro paese in una spirale rischiosa e, quindi, bisogna invertire le scelte di politica economica: abbandonare le politiche di austerity e puntare allo sviluppo.

È, questo, l’unico modo per rilanciare l’economia e abbattere il debito.Infatti, l’attuale politica di austerity ha prodotto un aumento esponenziale delle tasse al punto che abbiamo superato la Finlandia e che, adesso, ci collochiamo al quarto posto in Europa per peso della tassazione. Inoltre dobbiamo fronteggiare la spesa per interessi più alta in Europa nonostante il saldo primario dell’Italia è secondo solo alla Germania,. E’ tempo, ormai, di aggredire la crisi con politiche non recessive e con investimenti pubblici che vanno esclusi dal rapporto deficit/pil. Serve un intervento serio e tempestivo da parte delle istituzioni politiche ed economiche che salvaguardi le persone più deboli come pensionati e lavoratori dipendenti, cioè coloro che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo.

La signora Merkel, dopo la rielezione, sembra esser cosciente del pericolo di questa politica tanto da sostenere che in Europa il rigore non basta, ci vuole la svolta per una maggiore competitività, e non esclude che la Germania debba spendere ancora di più insieme agli altri big della UE per salvare la moneta. Alla fine arriva ad ammettere che debbono cambiare le cose: “Noi non chiediamo agli altrui membri dell’eurozona, né a noi stessi rigore e basta, il problema importante è il recupero di competitività dell’area della moneta unica. Dobbiamo anche imparare a essere umili, noi tedeschi: dieci o quindici anni fa, per competitività e peso del debito, eravamo noi il grande malato d’Europa. Se noi ce l’abbiamo fatta, con grandi riforme, posso sperare che i paesi amici ora in crisi ce la facciano anche loro, con percorsi analoghi.”L’Unione Europa, fino ad oggi, attenta unicamente all’imperativo della stabilità scoraggiando ogni politica di sviluppo ha prodotto ulteriori diseguaglianze economico-sociali con le sue direttive tendenti a richiamare gli Stati aderenti al rispetto dei parametri economici dettati dalla Bce. E’ necessario quindi proporre una iniziativa politica a livello europeo per ripristinare condizioni di equilibrio nella gestione delle risorse a favore dell’intera collettività e non solo dei paesi egemoni. Non possiamo più accettare un’Europa attenta esclusivamente al mercato, a cui conferisce la possibilità di decidere il grado di convergenza delle condizioni di lavoro e il progresso sociale, alimentando così ulteriore sfiducia, povertà e malcontento con qualche rischio per la democrazia.

Un secolare principio recita che una politica economica senza rappresentatività democratica è intrinsecamente tirannica, quindi l’Europa, per imporre democraticamente decisioni economiche a tutti i suoi cittadini deve innanzitutto avere un governo europeo eletto, altrimenti si rischia un pericoloso “default” democratico. In sintesi senza un chiaro richiamo ad una politica nazionale ed europea decisa democraticamente, le costrizioni provenienti da Bruxelles e da Berlino rischiano di accentuare una diminuzione della sovranità nazionale che va ben oltre a quando è stato trasferito a un livello soprannazionale. Pertanto, ripartendo dalle considerazione della Cancelliera tedesca, bisogna uscire da questa spirale e aggredire la crisi con politiche non recessive, escludendo gli investimenti pubblici dal rapporto deficit/pil. Ormai è talmente evidente questa necessità che la stessa Ue ha deciso di dare più tempo ai paesi in difficoltà.Inoltre, continuiamo a pensare che sia necessario modificare anche i Trattati: non si può insistere con la ricetta di una ripresa controllata nel rigore. Bisogna che la politica si riappropri dell’Europa e che la Banca Europea svolga la funzione di una Banca che emetta moneta. Infine, si deve innanzitutto promuovere adeguate politiche del lavoro quale fondamentale fattore del nuovo corso di politica economica che darebbe fiducia e riaccenderebbe nei giovani le speranze di poter programmare la loro vita futura.

Questa può essere una battaglia certamente del Governo Italiano, ma deve essere anche strategia del sindacato.

Separatore

L’Italia ha bisogno di un Governo che decida. Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, mentre eravamo in stampa, si è determinata una delle vicende politiche più intricate e complesse degli ultimi anni, con una spaccatura all’interno del Pdl, in merito alla conferma della fiducia al Governo Letta. Si è giunti a un livello di drammatizzazione mai vissuto in precedenza in quel partito, con preoccupanti conseguenze sul piano istituzionale. Poi tutto è rientrato, almeno formalmente, e tutte le forze che sostengono questo Governo gli hanno riconfermato il loro sostegno. E’ stato un momento davvero difficile…

Sì, c’è stata forte preoccupazione per la crisi istituzionale che si stava determinando in quelle ore. L’incertezza del quadro politico avrebbe potuto causare gravi ripercussioni per la nostra economia, con un aumento della pressione fiscale sul lavoro e sulle pensioni. Il voto di fiducia all’Esecutivo Letta, dunque, è stata una buona notizia. L’Italia, però, non ha bisogno di un Governo purché sia, ma di un governo che decida: la notizia sarà davvero buona quando saranno ridotte le tasse sul lavoro. Per raggiungere questo obiettivo, il Sindacato è pronto a indicare soluzioni concrete nell’interesse dei lavoratori, delle imprese e per la ripresa della nostra economia. Altrimenti, il Sindacato è pronto a mobilitarsi.

Nei primi giorni del mese di ottobre, tu, Camusso e Bonanni incontrerete il presidente del Consiglio. Cosa gli chiederete?

Chiederemo che la legge di stabilità preveda, innanzitutto, un’effettiva restituzione fiscale ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, una riduzione fiscale alle imprese collegata agli investimenti e all’ occupazione, il completo finanziamento della cassa integrazione in deroga e la definitiva soluzione al problema degli esodati e dei precari della Pubblica amministrazione, della scuola e della ricerca.

La questione fiscale è una priorità. Quali segnali giungono dal Governo?

Ascolteremo Letta e poi faremo le nostre valutazioni. Al momento, c’è molta confusione. Sia noi che la Confindustria avevamo chiesto che fossero fatte alcune scelte sul piano delle riduzione delle tasse. Il Governo si è espresso favorevolmente, ma poi il ministro dell’Economia ha parlato d’altro. Vedremo ora cosa succederà. Noi pensiamo che la riduzione del livello di tassazione sia essenziale non solo in nome della giustizia fiscale, ma per la necessità di rilanciare investimenti, consumi e occupazione. Insomma, lo ribadisco, il Governo deve cambiare la politica economica, altrimenti bisogna cambiare il Governo, a prescindere da Berlusconi.

Peraltro, i dati sull’occupazione continuano ad essere allarmanti. Ancora una volta l’Istat conferma che non si riesce ad invertire questo trend negativo. Quali sono gli aspetti che ti preoccupano maggiormente?

La cosa più allarmante e preoccupante è che la speranza per un disoccupato di trovare un posto di lavoro in Italia è di gran lunga inferiore a quel che avviene in altri Paesi: il numero dei disoccupati di lungo periodo è superiore persino alla Spagna. Non solo; ci preoccupa anche la velocità con cui stiamo perdendo posti di lavoro. Se avessimo costantemente registrato un 12% di disoccupazione sarebbe stato, paradossalmente, meno grave di quel che è accaduto passando, in pochissimi anni, dal 7 al 12%: questo andamento ci dà l’idea del precipizio in cui stiamo rischiando di cadere. Si registra, infine, un aumento persino del numero di persone che, scoraggiate, non cercano più lavoro. Siamo davvero in una situazione di emergenza.

Come possiamo affrontare e risolvere questa emergenza?

In realtà, le regole sul mercato del lavoro non rappresentano la soluzione che, invece, sta proprio nella riduzione delle tasse sul lavoro, oltreché nella riduzione della burocrazia e nel funzionamento della giustizia. Tutte riforme, queste, che avrebbero dovuto fare i nostri governi e che, invece, come si può vedere, non hanno fatto.

La disoccupazione aumenta e i salari diminuiscono. Si può uscire da questa spirale?

Purtroppo è vero: la disoccupazione strutturale aumenta e chi lavora guadagna di meno. E’ una combinazione micidiale. Ecco perché non ci sono scorciatoie: per ridurre il numero dei disoccupati bisogna far sì che cresca il numero delle imprese e che cresca ogni singola impresa. E bisogna ridurre le tasse e la spesa pubblica.

Devono crescere le imprese, ma viviamo una crisi industriale dalle prospettive incerte. C’è una crisi anche del capitalismo nostrano?

Le difficoltà che vivono le imprese hanno varie radici. Sicuramente una delle origini è nel modo in cui sono state fatte le privatizzazioni: in Italia, una parte dell’impresa pubblica è stata privatizzata attraverso cessioni a capitalisti che non avevano risorse. Inoltre, noi abbiamo molti piccoli capitalisti che non riescono a mettersi insieme e quando decidono di acquisire un’impresa fanno molta fatica. Infine, c’è una parte dell’opinione pubblica, di media e di uomini politici che esprime resistenza e ostilità nei confronti delle grandi imprese. Senza grandi imprese, però, non si diventa un grande Paese.

Le recenti vicende che hanno riguardato Telecom e Alitalia possono essere considerate un emblema delle debolezze del nostro Paese?

Direi di sì. Ci stiamo trasformando in una specie di supermercato in cui le imprese straniere forti vengono a comprare le realtà industriali migliori. Qualche anno fa avevamo tre compagnie telefoniche e, tra poco, non ne avremo più nessuna e, inoltre, rischiamo di diventare l’unico Paese del G8 a non avere una compagnia di bandiera: proseguendo su questa strada finisce che, tra un po’, non faremo più parte neanche dello stesso G8!

Cosa bisognerebbe fare per Telecom? Gli spagnoli di Telefonica, di fatto, ne diventano i proprietari…

Per Telecom siamo alle solite: i problemi vengono affrontati quando sono già esplosi. Noi, comunque, non siamo contrari al fatto che qualche impresa estera  acquisti le nostre: l’importante è che le facciano funzionare, investano e le facciano crescere. Temo che ciò possa non accadere per Telecom e che quando si tratterà di fare investimenti possa essere privilegiata la Spagna. In ogni caso, noi siamo contrari all’ipotesi di uno ‘spezzatino’ per Telecom.

E la vicenda Alitalia?

Occorre assumere la prospettiva di Alitalia come obiettivo strategico per l’intero Paese, considerando la società non in quanto tale, ma per l’attività di collegamento che essa opera. I collegamenti internazionali sono un bene per tutto il Paese ed ecco perché noi pensiamo che ci sia bisogno di un intervento diretto del Governo.

Anche per alcune situazioni dell’industria siderurgica hai invocato un intervento - diciamo così - forte dello Stato…

Da questo punto di vista è emblematica la vicenda di Piombino, ma un ragionamento analogo lo avevamo già fatto per l’Ilva di Taranto. Noi dobbiamo pensare che il 43% dei prodotti che esportiamo contiene acciaio: dunque, si tratta di una produzione strategica. Se nessuno vuole o può investire in acciaio, bisogna porsi l’interrogativo se non debba tornare a farlo lo Stato. Insomma, per dirla con una battuta conclusiva, noi dobbiamo evitare che gli operai tedeschi vengano in Italia a fare le loro vacanze e che, contemporaneamente, gli operai italiani emigrino in Germania per lavorare.

Valid XHTML 1.0 Transitional Valid CSS! [Valid RSS]