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LUGLIO/AGOSTO 2013

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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GIUGNO 2013

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SOMMARIO

Il Fatto
Governare significa progettare - di A. Foccillo
Ridurre la spesa improduttiva per ridurre le tasse sul lavoro. Senza un’economia che funzioni non si creano posti di lavoro. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL - di A. Passaro

Intervista
Ascoltare le parti sociali per attuare le politiche di cui il Paese ha bisogno. Intervista all’on. Cesare Damiano - di P. Nenci

Sindacale
Occorre una svolta decisa, determinata, in cui le parti sociali siano protagoniste della rinascita del nostro Paese, cercando concretamente di realizzare un nuovo e più avanzato sistema di relazioni sociali, basato sul valore del lavoro - di P. Pirani
Niente sconti alla difesa dell’occupazione - Licenziamenti di massa e delocalizzazioni nemici giurati della “ripresa” - di C. Tarlazzi
Chi ha paura del Garante? - di G. Turi
Disabilità e lavoro - di S. Ricci
Artigianato: emergenza piccole e medie imprese. L’importanza della rappresentanza - di G. Zuccarello

Economia
Fondi pensione negoziali, nuovo driver di crescita e sviluppo del Paese - di M. Abatecola
“Ne bis in idem” - di G. Paletta
Le macerie dell’economia italiana - di V. Russo
Quando arriverà’ la ripresa, il sistema Italia sarà in grado di coglierla? - di G. Salvarani

Attualità
Lavoro e Lavoratori digitali - di G. Mele
“Quei passeggeri dalle navi d’oro” - di G. C. Serafini

Società
Nel Cie di Milo, un mattino d’estate - di G. Casucci
Un’indagine sulle abitudini di acquisto degli italiani, con particolare attenzione ai consumi intelligenti - di Eurispes e Focus, in collaborazione con Dacia

Internazionale
L’Unione africana compie 50 anni - di P. Nenci e D. Toppetta
Il sindacato in Africa tra vecchie e nuove sfide - di D. Toppetta

Agorà
Se divisi sian marmaglia… - di C. Benevento

Inserto
Quando il sindacato suonò la campana (I parte) - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Governare significa progettare

Di Antonio Foccillo

L’Italia da alcuni anni continua a pagare l’assenza di una politica economica orientata a promuovere e sostenere la crescita, congiuntamente ad un vero smarrimento di una propria politica industriale. Il precedente Governo (Monti) ha concentrato la sua attenzione esclusivamente al miglioramento dei conti pubblici, con scelte che hanno pesantemente penalizzato i lavoratori dipendenti e i pensionati. Il necessario perseguimento di politiche volte al risanamento è stato fine a se stesso ed ha avuto come conseguenza quella di aggravare la recessione in atto nel nostro sistema economico e produttivo. Il limite maggiore dell’azione economica del Governo è stato quello di non finalizzare le politiche di risanamento al sostegno della crescita. Gli indicatori dell’economia italiana sono sempre più negativi, nonostante le tante cure, i tanti sacrifici e le moltissime manovre imposte in questi anni, basti pensare solo a quelle dell’ultimo governo Berlusconi e del governo Monti.

Alcuni dati significativi di questa drammatica situazione sono così riassunti:

Anche se le vendite all’estero dell’industria sono aumentate, purtroppo, il mercato interno ha visto un’ulteriore riduzione. La causa di tale situazione è il crollo della domanda interna dovuta alla forte perdita del potere di acquisto dei lavoratori e dei pensionati. Questi dati confermano la necessità che il Governo agisca velocemente, in materia economica e fiscale, con provvedimenti utili ad aiutare sia chi ha perso il lavoro e chi lo cerca, sia chi ha visto diminuire il suo potere d’acquisto, sia, infine, chi paga puntualmente le tasse. Se si continua con l’irrigidimento di politiche rivolte essenzialmente al risanamento con ulteriori restrizioni e tagli, non vi sarà né l’aumento delle attività economiche, né una reale ripresa.

La depressione dei consumi, principale fattore della crisi in atto, si cura sostenendo la domanda, non continuando ad abbassarla, come continua a fare l’Italia che anche quest’anno farà registrare un surplus nel bilancio dello Stato al netto degli interessi sul debito. Sono necessarie, dunque, non solo politiche rivolte alla riduzione del debito e al controllo dell’inflazione, ma scelte che, anche attraverso la leva fiscale, aiutino la ripresa dell’intera economia. E’ ora di affrontare la crisi economica con azioni e strumenti concreti per salvaguardare imprese, lavoratori e pensionati che vedano impegnare risorse destinate a finanziare innovazione, ricerca e investimenti e garantire lavoro, stipendi e pensioni. Comunque l’aumento del debito pubblico, in presenza delle manovre attuate dal Governo Monti, testimoniano che le politiche restrittive non sono le sole politiche percorribili non solo ai fini del contenimento/riduzione del debito pubblico ma soprattutto per avviare la crescita di cui il nostro Paese ha urgente bisogno. Noi avanziamo il dubbio che ormai il Trattato di Maastricht non sia più adeguato alle esigenze della nuova realtà economica, perché esso fu concepito soprattutto per combattere l’inflazione e quindi un eventuale eccesso di domanda oggi praticamente inesistente. Tuttavia nella UE si continua ad esercitare un potere di veto su tutto ciò che può essere fatto proprio per rilanciare la domanda in Europa. Noi riteniamo che sia necessario liberare maggiori disponibilità economiche per gli italiani e le piccole e medie imprese, la quali rappresentano la vera forza di questo Paese. Innanzitutto serve un taglio radicale del cuneo fiscale, che potrebbe liberare circa 100 miliardi di euro per aumentare il potere di acquisto tra il 5-6% del Pil. Ciò, ragionevolmente, produrrà anche posti di lavoro. L’ideologia neoliberista che ha prodotto la crisi era basata sul principio che la politica monetaria dovesse operare soprattutto attraverso il tasso di interesse e che la politica fiscale, cioè il rilancio della domanda attraverso il deficit di bilancio, non dovesse avere più nessun ruolo. La realtà ha dimostrato quanto fosse errata questa ideologia. Infatti, i tassi di interesse sono quasi tutti vicini allo zero, persino in Europa e la scelta politica dell’Austerità si è dimostrata nei fatti sbagliata. Negli Stati Uniti, in Giappone ed in Inghilterra si è, infatti, deciso di seguire politiche opposte a quelle dell’Austerità. Il Giappone ha deciso di stampare ed immettere sul mercato grandi quantità di yen fino a quando non si raggiungerà un’inflazione minima del 2%. In America si è fatto un largo uso di quello che viene ormai comunemente chiamato Quantitative Easing. La Fed si propone di raddoppiare, in modo permanente la base monetaria ed il raggiungimento di un certo target di disoccupazione. L’effetto è stato che quest’anno il Pil americano sarà di circa 5 punti superiore a quello del 2007, con la disoccupazione pari al 7,6%. In Europa il Pil è ancora inferiore a quello del 2007 (nella UE del - 0.7%, nei Paesi dell’Eurogruppo di -1.6%). La disoccupazione è salita al 12,1%. In Italia il Pil è sceso di quasi il 7% dal 2007. Insomma fuori dall’Europa, nella permanenza della crisi, si sta diffondendo l’uso di nuovi strumenti monetari e fiscali per raggiungere l’obiettivo dello sviluppo. In Italia sembra sia impossibile far calare il debito pubblico senza strangolare l’economia e promuovere la competitività senza tagliare drasticamente nel sociale, nell’istruzione e nella ricerca. Per ridurre sia il debito che l’indebitamento i Governi italiani hanno fatto ricorso ad operazioni di finanza straordinaria e la cartolarizzazione dei crediti, insieme alle privatizzazioni, hanno concorso alla diminuzione del debito per un importo pari al 1.2% del PIL. E’ a tutti evidente che il debito pubblico elevato impedisce di avviare la ripresa, poiché ogni anno decine di miliardi di euro se ne vanno per pagare gli interessi ai detentori, in buona parte esteri, delle nostre obbligazioni statali e quindi una buona parte della ricchezza nazionale viene trasferita all’estero e non può essere investita per lo sviluppo delle imprese e per il mondo del lavoro in generale. Gli svantaggiosi tassi pagati dal nostro Paese vengono generalmente giustificati da un deficit di credibilità dell’Italia, ma nessuno si è preoccupato di evidenziare che il differenziale sugli interessi a nostro sfavore è anche e soprattutto una conseguenza della rigida misurazione statistica del debito pubblico in rapporto al Pil, che i nostri politici hanno subito, dando per scontato che ne abbiano capito il meccanismo.

Tale rapporto fornisce un’idea approssimativa della sostenibilità attuale e futura del debito stesso e rappresenta un parametro eccessivamente riduttivo non solo per l’Italia, ma anche per Giappone e Belgio proprio per ciò il nostro Paese farebbe bene a prenderne coscienza anche per meglio argomentare la sua posizione a livello internazionale. L’Italia, ha un patrimonio delle famiglie molto elevato che, anche solo limitatamente alla parte finanziaria, equivale a circa il 175% del Pil (in Germania è appena del 126%) quindi il rapporto tra debito pubblico e ricchezza finanziaria netta privata fornisce un’idea più precisa sia della dimensione del nostro debito pubblico sia del suo rapporto con il Pil. Una più precisa valutazione del rapporto debito/ricchezza cambierebbe parecchio la prospettiva di assegnazione dei rating dei debiti sovrani ed in particolare il rating italiano, ammesso che le agenzie di rating siano obiettive ed indipendenti.

In sostanza il paese reale chiede alle forze politiche di rilanciare con fermezza la regia e la forza delle politiche pubbliche capaci di orientare i comportamenti e le proposte dei mercati, cose che il pareggio di bilancio inserito in Costituzione non consente di fare agevolmente. Inoltre chiede di riportare l’economia finanziaria al servizio dell’economia reale, innovare le produzioni e i consumi individuali e collettivi sulla base di un nuovo modello di sviluppo, di cui abbiamo sempre più bisogno. La politica deve abbandonare le vecchie strade, mettere fine a privilegi e corporativismi, redistribuire la ricchezza (perché questa è la vera condizione per crearne della nuova) e ridurre le diseguaglianze, ridare speranza ad un paese che altrimenti rischia di essere stritolato da una crisi che accentua le debolezze strutturali di un sistema economico e istituzionale da tempo in difficoltà. E’ necessario ripristinare un ruolo più incisivo dell’intervento pubblico capace di dare regole vere e rispettate ai mercati finanziari, di disegnare una vera politica industriale, di attivare meccanismi di incentivo e di stimolo dell’economia reale. Si tratta di ridisegnare un sistema in cui il mercato – e gli operatori privati – non siano lasciati senza regole, ma possano agire dentro una cornice in cui prevalga il bene comune, la responsabilità sociale, l’interesse collettivo;

A nostro avviso è necessario creare quella qualità sociale che rappresenta il tratto distintivo di un’economia che rimette al centro il lavoro e le persone, i loro diritti sociali inalienabili, le relazioni umane e la dimensione comunitaria della produzione e del consumo. La qualità sociale parte dalla dignità del lavoro e nello stesso tempo condiziona le attività e i risultati della produzione in un’ottica di economia solidale al servizio del bene comune. Il sindacato italiano, che ha ritrovato la sua unità di azione, deve proporre con forza al Governo, per un rilancio dell’economia, di progettare adeguate politiche del lavoro, quale fondamentale fattore del nuovo corso di politica economica che darebbe fiducia e riaccenderebbe nei giovani le speranze di poter programmare la loro vita futura. Il dato più drammatico è l’aumento della povertà sia in termini relativi che in termini assoluti. Il nostro è un paese in cui le diseguaglianze stanno aumentando sempre più; la crisi di per se genera diseguaglianze colpendo chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione, in più l’unico strumento di politica economica nelle mani del governo, cioè lo strumento fiscale, sta agendo esattamente al contrario di come dovrebbe agire. Bisogna intervenire nell’immediato perché la situazione è critica e deve essere risolta prima che degeneri. È necessario uscire da questa spirale negativa e aiutare le famiglie, i lavoratori, le imprese e i cittadini, modificando profondamente la politica economica, riformando la fiscalità e aumentando il potere di acquisto. Solo così potremmo vedere ripartire veramente i consumi e ridare fiato a un Paese che continua ad essere sotto pressione se non allo stremo.

Per questo il sindacato deve chiedere alla politica e al Governo di governare, ma avendo anche una sua proposta autonoma con cui confrontarsi. Non è sufficiente affiancarsi alle strutture istituzionali con un ruolo di protezione delle aspettative e dei bisogni, è necessario riscoprire il senso di una presenza del sindacato che sia di promozione delle scelte e dei contenuti che vengono a costituirsi. Ciò significa investire il compito del sindacato di una professionalità politica ed ideologica, riconquistare così un ruolo di avanguardia storica.

Da ciò bisogna saper riattualizzare gli strumenti tradizionali del sindacato e insieme introdurre nuovi strumenti.

Certamente la relazione contrattuale non deve venir meno, ma dovrà iscriversi all’interno di un rilancio della finalità storica del sindacato. Questa non è quella di accudire limitati interessi corporativi e settoriali del mondo del lavoro, ma di avere come riferimento l’intero equilibrio socio-economico che determina condizioni di inserimento e partecipazione del lavoratore. Perché in questo il sindacato dovrà saper organizzare una politica coerente di recupero dell’attualità economica e insieme saper legare le emergenze strutturali che si sono determinate nella realtà occupazionale. Non si deve cadere in una perdita dell’orizzonte generale da essa uscirà il nuovo ruolo che il sindacato potrà assumere, e con questo ruolo anche il margine di consenso sociale.

Separatore

Ridurre la spesa improduttiva per ridurre le tasse sul lavoro. Senza un’economia che funzioni non si creano posti di lavoro Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, lo scorso 24 luglio, tu Camusso e Bonanni avete incontrato informalmente il presidente del Consiglio, Enrico Letta. Quali temi avete affrontato?

E’ stato un incontro positivo e costruttivo nel corso del quale abbiamo cominciato a ragionare sulle priorità del prossimo autunno, anche in prospettiva della legge di stabilità. Per noi la riduzione delle tasse sul lavoro resta la questione centrale da affrontare, già a partire dal prossimo mese di settembre. A breve, dunque, vedremo se le nostre indicazioni saranno accolte.

Prima di questo incontro, però, sei stato molto duro nei confronti del Governo. Cosa non ti è piaciuto?

Il Governo e, soprattutto, il ministro dell’Economia pensano che ci sarà una ripresa, ma non stanno facendo nulla per renderla credibile: dovrebbero cimentarsi con una riforma fiscale, ma al momento non vi sono segnali. Se continuano questi rinvii, la ripresa non ci sarà e continueremo ad assistere alla chiusura degli stabilimenti e delle fabbriche. Vedremo se, dopo il recente incontro avuto con il presidente del Consiglio, il Governo avrà recepito le nostre preoccupazioni e i nostri suggerimenti.

E cosa avete suggerito al Governo?

Ridurre la spesa improduttiva per ridurre le tasse sul lavoro: questo è ciò che serve al Paese per creare le condizioni necessarie ad avviare la ripresa.

Hai anche nettamente respinto l’idea di cedere quote delle grandi società partecipate per ridurre il debito. Puoi ribadire le ragioni della tua contrarietà?

Cedere quote di Eni, Enel e Finmeccanica per ripianare il debito è una strategia suicida. Vendere i gioielli di famiglia piuttosto che ridurre gli sprechi è una di quelle scorciatoie che ci porta nello strapiombo. La spesa pubblica è pari a circa 800 miliardi l’anno: possibile che il governo non sia capace di ridurla del 2-3%? Ad esempio, invece di trasferire quote di società, che poi rischiano di sparire, si vendano immobili di proprietà pubblica, si accorpino le municipalizzate e i comuni, si cancellino sperperi e privilegi. Così si potrebbero trovare le risorse sia per aggredire il debito sia per cominciare a ridurre le tasse sul lavoro.

Intanto, al ministero del Lavoro, è stato attivato un tavolo con le parti sociali per individuare valide soluzioni occupazionali in vista dell’Expo. E’ questa la strada giusta per arrivare pronti a quell’appuntamento?

L’aver convenuto di lasciare alle parti sociali l’individuazione delle modalità per cogliere l’occasione dell’Expo dal punto di vista occupazionale, consentirà di adottare soluzioni positive piuttosto che perseguire inadeguati e inutili palliativi. Da questo punto di vista, i rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori hanno l’esperienza e la conoscenza necessarie per affrontare la materia. Il Parlamento è sì sovrano, ma dovrebbe esercitare questa sua prerogativa soprattutto per ridurre le tasse sul lavoro e la manomorta della Pubblica Amministrazione, principali cause della chiusura delle fabbriche. 

Eppure, nella fase iniziale del confronto, hai criticato la Confindustria per le sue richieste e la sua posizione. Cosa è accaduto?

Anche la Confindustria, talvolta, non riesce a rifuggire dalle soluzioni di ripiego, che non hanno mai risolto alcun problema, e continua a insistere nella richiesta di maggiori flessibilità. Sono anni che ci spiegano che scarsa crescita e calo dell’occupazione sono causati dall’incredibile peso della burocrazia e dalle eccessive tasse. Quando, però, si esce dai convegni e si entra nei luoghi in cui si decide, l’unica cosa che le imprese sanno chiedere è una maggiore flessibilità...

Le aziende, però, chiedono maggiore flessibilità, in vista dell’Expo, per offrire più occasioni occupazionali…

Noi siamo disponibili ad accordi che, in vista dell’Expo, permettano alle imprese di assumere secondo logiche di flessibilità, purché vi siano limiti temporali e, soprattutto, sia prevista una retribuzione maggiorata rispetto a quella per i contratti a tempo indeterminato.

Proprio in queste ore, l’Istat diffonde i consueti dati mensili sull’occupazione che continuano ad essere davvero preoccupanti. Qual è il tuo commento?

Questi dati negativi sono la conseguenza, purtroppo prevista, della crisi della nostra economia e, soprattutto, della crisi dell’industria del nostro Paese. Non si fanno più investimenti anche a causa di una farraginosa burocrazia, si trasferiscono produzioni all’estero, ci sono troppe tasse sul lavoro. Senza un’economia che funzioni non si creano posti di lavoro. Non ci sono leggi sul mercato del lavoro in grado di risolvere il problema: possiamo sottoscrivere tutti gli accordi che vogliamo, ma la disoccupazione continuerà ad aumentare fino a quando i problemi fiscali e amministrativi del nostro Paese non saranno sul serio risolti.

A proposito di industria, la Fiat è ancora una volta alla ribalta della cronaca. L’Amministratore delegato, Sergio Marchionne, ha detto che le condizioni industriali in Italia restano impossibili. E’ così?

Marchionne è uomo privo di ipocrisie: molti suoi colleghi non dicono nulla, ma continuano a spostare produzioni e a fare investimenti all’estero. In Italia c’è sicuramente una seria questione industriale. Per quel che riguarda la Fiat, però, penso che il livello di governabilità e di efficienza dei suoi stabilimenti sia assolutamente soddisfacente. L’accordo da noi sottoscritto due anni fa garantisce una grande competitività di questi siti produttivi: gli investimenti della Fiat, dunque, possono continuare a svilupparsi nel nostro Paese, anche per l’Alfa Romeo.

Chiudiamo con tutt’altro argomento. “Il silenzio sugli innocenti”, un bel libro di Luca Marini, parla di un incredibile eccidio avvenuto due anni fa in Norvegia. La Uil commemora quella tragedia. Vuoi spiegarci perché?

Due anni fa, il 22 luglio del 2011, in Norvegia, fu consumata una strage: per mano di un fanatico estremista, Anders Behring Breivik, furono trucidati 69 ragazzi laburisti, convenuti in un’isola di quel paese nordico per un tradizionale campeggio estivo dei socialisti di tutto il mondo. Intanto, altre 8 persone erano morte, ad Oslo, per l’esplosione di un’autobomba, sempre a causa del disegno stragista di Breivik. Fu un eccidio politico, incredibilmente ridimensionato se non addirittura dimenticato. Quei ragazzi, per noi, sono martiri del riformismo e del socialismo europeo. Perciò, ogni anno, il 22 luglio, ne ricorderemo il sacrificio per onorare la loro memoria e mantenere vive le idee per le quali morirono.

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