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SETTEMBRE 2009

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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SOMMARIO

Il Fatto
Laicità e riformismo - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario generale Uil. Il sindacato sarà sempre
più un soggetto di aggregazione sociale - di A. Passaro

Speciale L’Aquila
Il progetto più importante: fare squadra per un obiettivo condiviso, in tutti i possibili
campi di interazione - del Prof. F. Di Orio
Caduti i muri delle case ora devono cadere i muri dell’egoismo e degli interessi
di parte che tanto male hanno fatto alla nostra amata città - di L. Del Beato
Tavolo sulla Rinascita dell’Aquila - di R. Campo e P. Paolelli 

Sociale
Maternità oggi: fattore di sviluppo opportunità domani - di N. Nisi 

Sindacale
Lavoro Pubblico: quale domani per il sindacato? - di P. Pirani
La Galassia Scuola, oggi! - di M. Di Menna
Voucher, uno strumento sbagliato e ingiusto che favorisce anziché combattere
il lavoro nero - di S. Mantegazza
Edilizia in crisi - di G. Moretti
Il Ccnl dei metalmeccanici è il vero banco di prova dell’accordo confederale
sulla riforma del sistema contrattuale - di A. Regazzi 

Società
Colpi di sole e no - di E. Canettieri
Un nuovo modello globale di società - di A. Carpentieri
Immigrati al lavoro: preziosa risorsa, non solo economica, per il nostro Paese -
di G. Zuccarello 

Economia
Crisi economica e speculazioni - di G. Paletta 

Agorà
Il tricolore e il 150° anniversario dell’unità d’Italia - di G. Salvarani
“Ma New York è più bella di Roma?” La Grande Mela è ancora un mito? -
di M. C. Mastroeni
Il diritto alla salute nel quadro di una politica federale - di A. Ponti
La “Tobin-tax”contro la crisi globale - di M. Ballistreri 

Cultura
Leggere è rileggere. Igino Ugo Tarchetti: Fosca - di G. Balella
Scrittore e lettore: quasi un conflitto - di N. A. Rossi
Venezia tra cinema e storia - di L. Gemini 

Inserto
Le carceri italiane: situazione inumana e questione di ordine pubblico
Intervista ad Eugenio Sarno, Segretario generale della Uil penitenziari - di P. Nenci

Separatore

IL FATTO

Laicità e riformismo

Di Antonio Foccillo

Laicità e riformismo sono due principi che fanno parte del Dna della Uil e di cui bisogna discutere per individuare il filo rosso che coniuga il passato con il futuro della nostra organizzazione.

Per farli diventare pratica concreta nella nostra azione è bene precisarne il contenuto, nel contesto di una discussione che alla fine dovrà rispondere alla domanda: quale laicità e quale riformismo è oggi proponibile?

Certamente il principio della laicità, nel percorso degli anni ha registrato diversificazioni di interpretazioni, ma “Laico” è “colui il quale non vuole condizionamenti nella propria come nell’altrui libertà di scelta e di azione, vuole garantirla specialmente in politica rispetto a chi invece ritiene di dover conciliare o sottomettere la sua libertà all’autorità di un’ideologia e di un credo religioso[1]”.

Ne consegue quindi la domanda se si ha ancora bisogno della cultura laica in una società sempre più diversificata, dove valori e ideali sono affievoliti, ma soprattutto dove tutto è scontro fra opposte fazioni, dove la morale, l’etica ed il rispetto degli altri sono sopraffatti dall’egoismo negativo, di coloro che consapevolmente strumentalizzano chiunque li circonda e dall’egocentrismo di coloro che prendono tutto senza restituire mai nulla.

In questo contesto, che delinea una nuova etica socio politica, il Laico che si batte per la tolleranza, che crede in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, che hanno la stesa dignità di espressione dei propri e riconosce che il dubbio è l’essenza del suo vivere, ha ancora diritto di cittadinanza?

Ampliando il discorso alle strutture politiche o amministrative, la loro“Laicità” ne esprime l’autonomia dei principi, dei valori e delle leggi da qualsiasi autorità esterna che potrebbe determinare, compromettere o perlomeno influenzarne l’azione. Laicità significa anche gestire il “potere” non identificandosi con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia in modo egemone, ma articolando il proprio pensiero secondo principi logici che non possono essere condizionati. Proprio per ciò la laicità di uno Stato significa libertà, che ha piena sostanza nel lasciare lo stesso spazio alle opinioni di tutti in modo da dare alle minoranze di oggi la possibilità di divenire la maggioranza di domani. E questa regola esige non solo eguale libertà, ma eguale dignità per tutti i cittadini. Cosicché pluralismo e democrazia diventano strettamente legati al concetto di laicità.

Nella nostra organizzazione sindacale, la laicità UIL, non solo rappresenta la salvaguardia del pluralismo e della democrazia, ma anche la capacità di confrontarsi con tutti, senza pregiudizi e soprattutto riconoscere che il pensiero e l’azione si evolvono sempre collegandosi all’attualità, nel contesto, però, della propria impostazione ideale senza voler accettare dogmi o egemonie e soprattutto senza volerle imporre ad altri.

Si è forti solo con le idee e solo se esse, attraverso il confronto e la libertà di espressione, diventano idee generalmente condivise

La laicità, rilevava lo storico e giurista romano Carlo Arturo Jemolo[2] nel 1960, è “la dottrina che, riconoscendo l'esistenza di numerosi raggruppamenti e società minori …, considera come necessità suprema l'esistenza di una società più larga, comprendente tutte quelle società minori e presieduta da un sistema organizzativo, lo Stato. Regola di tale società sarà quella di mai chiedere al cittadino le sue convinzioni religiose (essendo la religione materia estranea alla società retta dallo Stato) così come mai lo Stato interverrà, aiutando od ostacolando i raggruppamenti religiosi”.

Oggi si parla sempre più spesso di dialogo, di pluralismo, di tolleranza attiva, di diritti, ma si ha l’impressione che tutti questi concetti siano impiegati senza dare loro il vero significato. Insomma come la democrazia è un metodo per elevare i cittadini intellettualmente e moralmente, allo stesso modo, il “dialogo” acquista valore proprio per la sua capacità di ‘convertire’, di indurre le persone a spogliarsi del proprio egoismo e indifferentismo etico, caratteristici dell’odierna tribù occidentale e italiana, per “aprirsi agli altri”[3].

E’ per questa ragione, cioè l’assenza di comunicazione fra politica e cittadini, che, ad esempio, i ‘costi’ della tolleranza e dell’incontro delle ‘culture’ non entrano mai nel discorso pubblico come se le rinunce degli individui o il ridimensionamento dei loro diritti fossero scontati o pacifici e quindi non meritevoli di dialogo e confronto.

Senza uguaglianza la democrazia è un regime”, ha rilevato Gustavo Zagrebelsky in uno dei suoi recenti articoli-saggi. “Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore politico tra tutti  il più importante e, tra tutti, oggi il più negletto, perfino talora deriso a destra e a sinistra. Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi dipende il rovesciamento del loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti. Senza uguaglianza, la società dividendosi in strati diventa gerarchia Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione. Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale”.

Al contrario di Zagrebelsky, secondo la logica liberista, Isaiah Berlin[4] o Friedrich Hayek[5] agganciano i diritti dell’uomo e del cittadino alla libertà, perché il principio di uguaglianza non è gradito a quel mercato capitalista che produce e riproduce senza tregua le ineguaglianze di status, di reddito, di prestigio..

Venendo al riformismo Giuliano Amato[6] ha scritto: "Oggi c'è ancora spazio per il riformismo, oppure anch'esso è stato travolto dalla fine del XX secolo? La mia risposta è positiva, perché in questo mondo sono enormi i rischi di esclusione, di divaricazione economica e sociale, di conflitti ingestibili. Non è venuto meno il bisogno, anzi si è esteso su scala planetaria, con una acuita domanda di riequilibrio nei confronti di un'economia che è largamente sfuggita alle regolazioni statuali ed è quindi in condizioni di riprodurre le sue originarie spinte squilibranti e addirittura devastanti".

Il termine riformismo pur mantenendo, nel tempo, un certo significato originario, è stato fatto proprio da tradizioni diverse della cultura e della politica, tant’è che si arrivò a parlare di un riformismo thatcheriano.

Quindi, riformismo definisce ormai la volontà di riformare l'esistente, in qualunque modo ed in qualunque direzione; in tal senso, possono essere riformisti anche i conservatori che vogliono riformare garanzie e difese sociali, ritenute di ostacolo alla dinamica del mercato ed esattamente in questa direzione agì il governo della signora Thatcher, che mise in atto una politica riformista per i fini e con il sostegno dei conservatori.

Il termine quindi non caratterizza più quelle culture politiche che si ripropongono una innovazione caratterizzata da una maggiore eguaglianza sociale e che agevoli le possibilità di inclusione di coloro che sono esclusi.

Il riformismo laico e socialista nasce in contrapposizione al metodo rivoluzionario e la contrapposizione tra riforme e rivoluzione si collega fondamentalmente alle due interpretazioni alle quali fu assoggettato il pensiero di Marx. Il metodo rivoluzionario fu criticato da Bernstein, il quale nega che lo sviluppo sia affidato al crescente sfruttamento dei salariati, avendo dimostrato l’inconsistenza dell’ipotesi secondo la quale soltanto un crescente depauperamento della classe operaia renderebbe possibile il funzionamento della macchina produttiva. Bernstein conclude affermando che "Il movimento è tutto", con ciò intendendo dire che il risultato non è affidato al fine ultimo e che è la dinamica della realtà che produce di per sé esiti migliorativi.

I primi riformisti, pur accettando le argomentazioni di Bernstein, in fondo non pensavano che il movimento fosse tutto, bensì che esso servisse per arrivare al fine della trasformazione dell'assetto produttivo, sino alla realizzazione della proprietà socialista dei mezzi di produzione (questa è la linea dei riformisti del Partito Socialista Italiano nato nel 1892 ). Quei riformisti furono dei "gradualisti". Per loro essere riformisti significava puntare al superamento finale del sistema capitalistico, arrivandoci attraverso il movimento, come dice Bernstein. Negli stessi termini il riformismo prende forza nel più grande partito del socialismo europeo del tempo, l'Spd, la socialdemocrazia tedesca.

Il riformismo di inizio secolo, dunque, ha un germe finalistico, e non a caso la leadership dell'Spd guarda a Bernstein come ad un eretico, proprio perché egli nega l'importanza del fine ultimo a vantaggio delle dinamiche che di volta in volta consentono progressi sociali. E tuttavia, per quanto finalistico, quello stesso riformismo di inizio secolo impara da Bernstein ad occuparsi del presente, delle condizioni attuali di coloro che si riconoscono nel movimento socialista e quindi ad adoperarsi, attraverso il conflitto sociale e la negoziazione all'interno delle istituzioni, per migliorarle.

Di qui inizia il processo delle conquiste riformiste rivolte al presente. Ci si batte per la riduzione dell'orario di lavoro per le donne e i bambini; perché chi lavora possa creare le premesse per ottenere un trattamento pensionistico nella vecchiaia e un reddito che lo assista nei periodi in cui non può lavorare; perché il latte, il gas e la luce possano essere forniti da aziende di proprietà pubblica che, in quanto non motivate da profitto, sono disposte anche a portarlo a quei clienti che il gergo degli economisti definisce marginali e per i quali il costo può superare la remunerazione del servizio.

Tutte queste sono le conquiste del riformismo laico e socialista, in particolare italiano, nel primo periodo della sua storia. Esse sono il frutto di un'azione che si svolge a più livelli: fornendo libertà e diritti nella lotta sociale, modificando le istituzioni locali, modificando legislazioni nazionali, creando nuove istituzioni.

Quali ne sono gli effetti?

Il primo - il più ovvio - è quello di migliorare concretamente le condizioni di vita dei lavoratori.

Il secondo è quello di rendere più gestibile e vivibile il conflitto sociale, non più immediatamente schiacciato da una repressione in cui lo stato assiste unilateralmente una sola delle parti.

Il terzo è quello di assicurare governabilità e progressiva coesione all'assetto sociale esistente. Questo è un punto di straordinaria importanza, su cui vale la pena soffermarsi perché, in tal modo, l'azione del riformismo rimuove le ragioni della più forte conflittualità e, offrendo soluzioni che sono utili ad entrambe le parti in conflitto, stabilizza l'assetto sociale.

Il riformismo dell'inizio del secolo realizzando le riforme, previene la violenza, riduce le distanze sociali e produce coesione. Mette in pratica così il paradigma secondo il quale nessuna società è governabile se le disuguaglianze superano il limite che le rende insostenibili sfociando perciò nella violenza/autoritarismo.

Poggeranno su questo fondamento le esperienze riformiste più compiute, quelle cioè dei paesi in cui i partiti socialisti vanno al governo in situazioni di crisi economica, a seguito della grande depressione del 1929 e del 1950. Assumendo responsabilità di governo i partiti socialisti trovano già nella loro pur breve tradizione il modello che fa coincidere l'interesse della parte che rappresentano con l'interesse nazionale. Ed è proprio questa la ragione per la quale sono poi accettati come guida politica dello stato.

Inoltre, se all'inizio del secolo le impostazioni del riformismo erano autoprodotte[7], a partire dagli anni trenta, si aprono alle altre culture ed, infatti, è Keynes il grande ispiratore dei governi socialisti. Tuttavia il nuovo eclettismo culturale mantiene le vecchie finalità: sostenere il reddito delle famiglie, fare in modo che si creino e non si distruggano i posti di lavoro, evitare l'esclusione.

Inoltre Keynes insegna che il risparmio come tale non serve a nulla se non diventa investimento, perché l'investimento genera posti di lavoro, che generano reddito, che poi viene speso e mantiene alto il Prodotto interno lordo, attivando quel circuito virtuoso di un'economia che funziona a pieno ritmo e che allarga, anziché ridurre il benessere. Questo diventa anche il circuito virtuoso del riformismo, senza peraltro cancellare le dispute che hanno caratterizzato la storia dei partiti socialisti.

Ma c'è ancora spazio per il riformismo - sviluppato grazie alle grandi identità collettive cresciute entro i grandi agglomerati della prima fase dell'industrializzazione fordista - oggi che quei grandi agglomerati si stanno assottigliando; che l'organizzazione delle imprese e la tipologia dei lavori sono diverse; oggi che viviamo sempre più in società frammentate? E allora, che cosa può dire ancora il riformismo oggi che il mondo è, da una parte, smisuratamente più grande e dall'altra, è ricondotto alle ragioni e ai bisogni di ciascuno di noi?

Può e deve dire ancora tantissimo, perché, anche in questo contesto, sono enormi i rischi di esclusione, di divaricazione economica e sociale, di conflitti ingestibili.

Non è venuto meno il bisogno di riformismo, anzi si è esteso su scala planetaria, con una più amplificata domanda di riequilibrio nei confronti di un'economia che è largamente sfuggita alle regolazioni statuali ed è quindi in condizioni di riprodurre le sue originarie spinte squilibranti e devastanti.

Il confrontarsi con società di individui, con persone che si sentono tali, che hanno o vogliono avere una loro professionalità sul lavoro, che vogliono essere liberi di (e quindi liberi di scegliere) e non solo liberi da (e quindi essere protetti) non dovrebbe spaventare i riformisti. È in fondo il segno del futuro che essi hanno sempre cercato di costruire, quello di una società in cui non solo pochi, ma tutti possono sentirsi liberi, non grazie a ricchezze finanziarie, ma alle conoscenze e alle competenze di cui la società li aiuta a dotarsi.

Qui inizia il nuovo capitolo del riformismo.

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[1] Dall’Enciclopedia Wikipendia

[2] Jemolo, Arturo Carlo (Roma 1891-1980), giurista e storico italiano. Docente di diritto ecclesiastico a Sassari, a Bologna, all'Università Cattolica di Milano e a Roma, è autore di numerosi studi sul rapporto tra Stato e Chiesa nell'Italia unita. Tra le sue opere di diritto più conosciute vi sono manuali di diritto ecclesiastico quali Elementi di diritto ecclesiastico (1927) e Lezioni di diritto ecclesiastico (1934). Tra i saggi d'argomento storico si ricordano Anni di prova (1969) e Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni (1971).  

[3] E’ ciò che Habermas descrive nell’agire comunicativo, orientato all’intesa, in cui l’uomo incontra l’uomo, diametralmente opposto all’agire strategico, orientato al successo, in cui l’uomo muove l’uomo

[4] Berlin è particolarmente noto per il suo saggio "Due concetti di libertà".

[5] Hayek: esponente storico del liberalismo, è stato uno dei maggiori esponenti della scuola austriaca ed uno dei maggiori critici dell’economia pianificata e centralista. Nel 1974 è stato insignito del Premio Nobel per l'economia. È considerato uno dei maggiori avversari delle politiche interventiste classiche del pensiero di John Maynard Keynes, nonché uno dei più importanti difensori delle teorie liberali del XX secolo.

[6] Testo tratto dalla lezione su "Riformismo e riformismi nella lunga tradizione e transizione italiana" tenuta da Giuliano Amato a Milano il 12 ottobre 2001.

[7] l'azienda pubblica non motivata dal profitto, che fornisce i servizi essenziali è frutto proprio dell'elaborazione interna alla cultura socialista

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Il sindacato sarà sempre più un soggetto di aggregazione sociale. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Angeletti, nel mese di settembre è ormai tradizione che il governo incontri le parti sociali per illustrare le linee guida della legge finanziaria. Un provvedimento che, negli ultimi anni, è diventato sempre più snello ed essenziale al punto che si è giunti ad usare la definizione di finanziaria “light”. Ma quali sono gli impegni che la Uil ha chiesto al governo?

Noi crediamo che il governo abbia accolto le nostre indicazioni assumendo provvedimenti importanti in materia di ammortizzatori sociali e di gestione della difficile situazione occupazionale. Resta invece molta strada da fare sul fronte fiscale. Ecco perché al tavolo di Palazzo Chigi noi abbiamo chiesto che sia avviata una discussione per giungere ad un impegno: ridurre le tasse ai lavoratori dipendenti. Ci vuole un piano, adesso. E noi proponiamo che, da questo momento, ogni euro in più che lo Stato riesce ad incassare debba essere destinato a questo scopo. Dal governo ci attendiamo questa disponibilità. Sempre su questo fronte, poi, abbiamo anche chiesto che la soglia di sbarramento per fruire della defiscalizzazione sulla contrattazione di secondo livello sia elevata a 40mila euro.

A tal proposito, consideri ancora valida la proposta di detassare le tredicesime?

Assolutamente sì: c’è spazio per la riduzione delle tredicesime sin da ora. Magari con modalità che non comportino un costo eccessivo. Si potrebbe pensare di applicare una cedolare secca del 10% e mettere un tetto ai redditi fino a 50mila euro. E’ un provvedimento indispensabile e prima o poi dovrà essere adottato: bisogna sostenere la domanda interna. Il governo dovrà convincersi di ciò e dovrà assumersi i rischi che ne derivano.

Tornando al tavolo di palazzo Chigi sulla finanziaria, la Uil ha anche sollevato la questione investimenti...

Certo, noi riteniamo che occorrano investimenti in infrastrutture. A questo proposito devo dare atto al governo di aver realizzato con rapidità ed efficacia il piano per la ricostruzione delle prime case ai terremotati abruzzesi. Bisogna far tesoro di quell’esperienza e, dunque, anche per altre situazioni, accrescere le prerogative dei commissari che, al momento, appaiono ancora troppo modeste e poco incisive.

E sulla vicenda del rinnovo dei contratti del pubblico impiego?

Ci aspettiamo, semplicemente, che il governo mantenga la parola e l’impegno assunti. Come è noto, anche il governo, in quanto datore di lavoro del pubblico impiego, ha sottoscritto la riforma del sistema contrattuale. Deve semplicemente applicarla nel suo ambito. Nulla di più, nulla di meno.

Sempre a proposito di rinnovi contrattuali, per i metalmeccanici la trattativa è in corso. La Fiom vi partecipa solo come osservatore ed è verosimile che non firmi la possibile intesa. La fase è quella tipica di un confronto negoziale classico tra la Fim e la Uilm, da un lato, e la Federmeccanica, dall’altro. Cosa succederà?

Bisognerà vedere. Credo, tuttavia, che ci siano le condizioni per fare un buon accordo. Peraltro, sarebbe la prima volta che un contratto si chiuda prima della sua scadenza, fissata, come è noto, al 31 dicembre di questo anno. Non credo che per le imprese possa essere un problema giungere ad un accordo sindacale senza la Fiom: è già successo due volte nel recente passato, in occasione dei rinnovi del 2001 e del 2003 senza che ciò comportasse alcuna conseguenza negativa. Anzi, grazie a quei rinnovi firmati solo dalla Uil e dalla Fim, tutti i lavoratori metalmeccanici, compresi quelli iscritti alla Fiom, videro aumentare i propri salari che, altrimenti, sarebbero rimasti al palo.

E veniamo ora al Congresso della Uil. La stagione congressuale è formalmente e praticamente iniziata…

La Direzione nazionale ha approvato le tesi congressuali e hanno preso il via i primi congressi di categoria a livello territoriale. Sarà una stagione importante per la Uil anche per riflettere sul futuro del nostro sindacato…..

… e del sindacato del futuro la Uil ha già cominciato a discutere organizzando un seminario al quale ha invitato studiosi, professori universitari e sindacalisti. Qual è il tuo parere su questo punto?

Io penso che il sindacato diventerà sempre più un’organizzazione di carattere internazionale. A livello nazionale non ci sarà più spazio se non per adattamenti di ciò che viene determinato su scala internazionale. Persino i modelli contrattuali, in un futuro non troppo lontano, avranno riferimenti europei. Il sindacato non potrà che essere un vero soggetto di aggregazione sociale mentre è decisamente tramontata l’idea di un sindacato della lotta di classe e della contrapposizione tra capitale e lavoro. C’è grande attenzione alla questione della coesione sociale da parte di molti governi, dalla Cina sino agli Usa. Persino la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno consolidato il dialogo con i sindacati. Insomma, cambia il contesto globale e il sindacato, a livello globale, deve essere in grado di raccogliere questa sfida.

Tu hai partecipato al G20 a Pittsburgh e, insieme ad altri tuoi colleghi, hai avuto colloqui anche con alcuni capi di Stato. In estrema sintesi, che clima hai colto e, soprattutto, quale ti è sembrato il principale nodo da sciogliere?

C’è chi sostiene che, in questa fase, siano stati immessi troppi soldi in circolazione e che ciò potrebbe generare una fiammata inflazionistica. D’altro canto, c’è chi ricorda che, per avere una politica occupazionale efficace, è necessario che circolino soldi. Al momento vi è dunque uno scontro in atto tra chi vuole che si continuino a dare stimoli all’economia e chi, invece, propugna la riduzione della quantità di danaro in circolazione. Personalmente, ho sostenuto la prima tesi: meglio correre il rischio dell’inflazione. L’altra strada potrebbe condurre ad un’ulteriore impennata della disoccupazione e ad un nuovo tracollo dell’economia.

Un’ultima domanda flash: cosa pensi dello scudo fiscale?

Non mi sembra una bella soluzione. Ma è una soluzione necessaria: far rientrare quei capitali nel nostro Paese può servire a rilanciare la nostra economia.

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