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GIUGNO 2009

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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MAGGIO 2009

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SOMMARIO

Il Fatto
Sindrome da vittoria e sindrome da sconfitta - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL. Porre al centro
delle misure economiche i temi dell’occupazione e dei redditi. - di A. Passaro

Economia
Verso una democrazia cosmopolitica - di D. Proietti
Come il turbo-capitalismo ha distrutto il sistema pensionistico americano -
di G. Paletta
Le persone, prima di tutto! La CES per un nuovo Patto Sociale in Europa - di A. Ponti
Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la tempesta perfetta - di M. Sarli

Società
La riorganizzazione delle Università italiane - di I. Vitulia

Sindacale
Per un nuovo contratto sociale - di E. Canettieri
"La parola agli immigrati" a Fiuggi il seminario nazionale della UILA - di G. Casucci
Condividere l’integrazione. Un incontro di UIL e ITAL con la comunità cinese
della Val Vibrata - di M. Tabacco
Dove andiamo con la sicurezza mediatica? - di G. Tiani

Internazionale
Stampa e libertà - di A. Carpentieri

Agorà
Fiat-Opel e la partecipazione dei lavoratori in Italia e in Europa - di M. Ballistreri
Giuristi e intellettuali alla presentazione dell'ultimo libro di Antonio Foccillo -
di P. Nenci
Comparto Sicurezza e Difesa - di G. Salvarani
Flessibilità e buona volontà: sempre più italiani optano per il secondo lavoro -
di G. Zuccarello

La Testimonianza
Una vita nel sindacato: Antonio Festa - A cura della Redazione

Cultura
Leggere è rileggere - Luigi De Marchi: Scimmietta ti amo - di G. Balella
I nostri orientamenti di politica culturale - di N. A. Rossi
“Disastro sul set” - di L. Gemini
Vincere di Marco Bellocchio - di S. Orazi

Inserto
Questo Paese è a corto di infrastrutture - di P. Nenci
Realizzare il ponte è fare qualcosa di concreto per cambiare il mezzogiorno -
di C. Barone

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IL FATTO

Sindrome da vittoria e sindrome da sconfitta

Di Antonio Foccillo

Si sono concluse finalmente le operazioni di voto che hanno spaziato dall’europee alle amministrative, dai ballottaggi al referendum e molti fatti vanno analizzati per i tanti riflessi che si sono determinati. Partiamo dall’astensione che è un dato unificante perchè coinvolge tutta la fase elettorale. Si potrebbe pensare che ciò sia conseguenza del fatto, generalizzato in tutta Europa, che la U.E. è vista sempre più lontana dai cittadini perché non è in grado di essere un punto di riferimento, ma l’astensionismo c’è anche nelle amministrative e, soprattutto, nelle votazioni per il referendum perchè i cittadini hanno voluto dimostrare, non solo stanchezza, ma anche apatia verso la ripetitività del richiamo continuo al voto che, secondo una opinione diffusa, non cambia mai niente pur se i momenti elettorali dovrebbero e potrebbero dare lo spunto per cambiare il tutto. Oggi uno dei mali di questa nostra società è quello di aver seppellito, in fretta e senza discussione, alcuni valori che avevano determinato un sentire comune fra le persone ed un coinvolgimento di militanza politica che impegnava ognuno nel confronto alimentato dalle differenze progettuali nella visione della società e il battersi per un modello piuttosto che in un altro rappresentava il cemento di aggregazione di vaste schiere di elettori che hanno portato l’Italia ad avere il più alto numero di votanti nelle varie elezioni, che si sono succedute nel corso degli anni. Vi erano differenze chiare, vi erano motivi di aggregazione precisi, vi era lo scontro su quali erano gli interessi da difendere e quali erano quelli da sacrificare in una scala gerarchica che veniva fuori dalla discussione e dal confronto e non dall’interesse di un capo. Adesso nella dialettica politica non sono chiari gli scopi per cui votare, le forze politiche si somigliano e non elaborano modelli alternativi che possano richiamare il senso di un impegno ideale e motivazionale. Per questo la gente si disamora e alla fine dimostra questo sentimento con l’astensionismo. Forse è vero che nel resto del mondo è così, ma l’Italia era abituata diversamente. Allora bisogna fare di tutto per ripristinare i circuiti dove ognuno possa esprimere la propria soggettività e le proprie motivazioni in un confronto collettivo che costituisce il fondamento di una democrazia partecipata. Solo la consapevolezza che il futuro si costruisce quando si scende in campo direttamente può ricreare le condizioni per una nuova stagione di partecipazione e se il tutto lo si ammanta di valori ed ideali. L’altra questione è quella relativa ad un arretramento complessivo e generalizzato della sinistra in Europa ed in Italia, pur in una crisi mondiale delle economie frutto della speculazione e del neo liberismo. Anche qui è molto semplice valutare il perché. Non può essere imputato al destino cinico e baro. In questi anni vi è stato un pensiero unico, soffocante e prevaricante, quello del mercato libero e senza regole, dove le voci che si contrapponevano venivano soffocate per loro pretesa incapacità a confrontarsi con il nuovo e per questo erano denominate conservatrici. E così, poiché primeggiava indiscutibile la logica economica ad essa bisognava sacrificare diritti e prerogative conquistati con dure battaglie e tanti sacrifici, quindi si sono distrutti e ridimensionati capisaldi della convivenza civile e democratica, compresi i diritti del lavoro e dei più deboli. In tutto ciò la sinistra non si è sforzata di individuare un modello alternativo, in grado di rispondere ai bisogni della società che diventava sempre più emarginante, disgregante e soprattutto povera. Aumentavano le differenze e le diversità senza che a questo si mettesse alcun riparo. La sinistra ha rincorso il modello essenzialmente economico, solo per ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza rispetto ad un’egemonia, culturale e propositiva, delle destre. Così ha predominato una sola idea ed una sola organizzazione dei rapporti fra esigenze sociali ed economia con una prospettiva che i più forti diventavano sempre più forti, in quanto si costruivano leggi e privilegi, e i più deboli sempre più in difficoltà. Quindi, alla fine, se la sinistra ha dimostrato tutta la sua incapacità a scegliere una strategia in difesa della coesione, chiedendo sacrifici maggiori ai più forti economicamente per sostenere quelli più deboli non poteva, in assenza di una chiara e distinta alternativa politica, pretendere che le masse la rivotassero. E’ stata vista dai più come un orpello del passato senza anima e prospettiva. In una società in cui l’estrema competizione ha portato ogni singolo individuo a preoccuparsi del solo proprio benessere e l’aiuto agli altri è sembrato come una perdita della propria fetta di benessere invece che un dovere civico, non ci si poteva aspettare altro. Oggi i cittadini europei ed italiani stanno vivendo una realtà molto difficile e complessa, aggrediti nei loro diritti essenziali che progressivamente vengono disconosciuti come tali quali: il lavoro che è sempre più precario e sempre meno dignitoso; un contratto che ha perso il carattere della stabilità; una riduzione della salvaguardia del potere di acquisto dei salari e pensioni, un fisco non sempre equo; un welfare che ogni giorno si progetta di smantellare e, già così com’è, non è più in grado di rispondere alle nuove esigenze dei cittadini. Infine, una immigrazione che sta modificando il senso della convivenza e che viene vista, in questa fase, più come differenza preoccupante dal punto di vista della competizione sul mercato del lavoro che una ricchezza ed un valore aggiunto per le nostre economie. Questi sono i temi che debbono caratterizzare un nuovo modo di essere di sinistra e riformista senza dimenticare anche qualche risposta rispetto alla violenza che sta aumentando nelle società se si vuole essere in grado di ripristinare una adesione ampia ed un consenso intorno alle proprie liste. Altra questione è la valutazione del dato elettorale da parte delle forze politiche, le quali, appena si delineano i primi dati, immediatamente tutte indistintamente dichiarano di aver vinto. E’ un dato tradizionale, ma nelle ultime elezioni si è arrivati al paradosso che una vittoria della maggioranza sarebbe stata, secondo l’opposizione, una sconfitta ed la sconfitta dell’opposizione sarebbe stata invece una vittoria. Evitando di chiederci quale è il quoziente di intelligenza che i nostri politici attribuiscono agli elettori, ci sembra che oggi convivano in Italia due sindromi: quella di una parte politica che esalta la vittoria in quanto vuole rappresentare l’uomo forte e vigoroso, e di fatto nasconde soprattutto un forte  narcisismo. L’altra convinta di dove subire una pesante sconfitta e non avendola riscontrata nell’esito elettorale spiega che ha vinto pur avendo perso anche se non in modo eclatante come la sua sindrome della sconfitta le faceva pensare. Pertanto ci si accontenta di aver perso poco, invece, di contrapporsi con le proprie idee e tentare di vincere. Ci si culla nella decubertiana massima “l’importante è partecipare” e non ci si sforza di battersi con le proprie proposte per poter vincere realmente ponendosi come concreta alternativa all’attuale modello politico dominante. Di fronte a questa situazione in cui non sono chiari gli elementi di differenza, le modalità del confronto non sono definite e le regole della partecipazione non sono rispettate il sindacato sta vivendo uno dei momenti più complicati. Ed all’interno dello stesso movimento sindacale, come in politica, c’è una componente che si fa prendere anch’essa dalla sindrome della sconfitta, in quanto non è in grado di prendere decisioni. Questo atteggiamento preclude un’azione forte ed unitaria e va risolta riscrivendo le regole del gioco anche della nostra convivenza sindacale. Come si chiedono ai nostri interlocutori regole chiare nelle relazioni così dobbiamo fare al nostro interno: troppe cose dobbiamo affrontare e troppe sfide dobbiamo vincere. Il mondo è cambiato e non sempre questo cambiamento può essere considerato positivo, dobbiamo essere in grado, come sindacato, di metterci in discussione ed affrontare le tante tematiche presenti nella società e nel mondo del lavoro, convinti che dobbiamo ancora essere una forza di progresso, di emancipazione, di democrazia, di salvaguardia dei diritti e di civiltà giuridica e sociale. Non si possono aspettare i ritardi di qualche pezzo del mondo del lavoro. Il sindacato ha bisogno soprattutto della politica e della buona politica, non né può fare a meno pena la sua capacità di rappresentanza. E’ la politica che decide, che programma, che favorisce l’economia reale e i diritti delle persone e per questo il sindacato ha bisogno di interlocutori, tutti uguali e tali vanno considerati, ma valutando anche chi è in grado di essere realmente vicino al mondo del lavoro e alla sua centralità. Ma, soprattutto, per uscire dalla sindrome della sconfitta, bisogna essere protagonisti e propositivi, essendo coscienti che per essere tali bisogna essere in grado di formulare idee e strategie unificanti e solidali.

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Porre al centro delle misure economiche i temi dell’occupazione e dei redditi. Intervista al Segretario Generale della Uil Luigi Angeletti.

di Antonio Passaro

Angeletti, lo scorso 26 giugno, a Palazzo Chigi, si è svolta la consultazione delle parti sociali europee in vista del G8. I sindacati dei Paesi interessati hanno presentato un documento. Di cosa si tratta?

Il titolo del documento è molto eloquente: “Mettere l’occupazione al centro della ripresa economica”. Ai Paesi del G8, la delegazione sindacale guidata dal Presidente e dal Segretario generale del Tuac, ha chiesto che quei Governi prevedano un pacchetto di incentivi pari all’1 per cento del Pil per lo sviluppo dell’occupazione e per una protezione sociale adeguata. Rivedere il sistema finanziario, la finanza pubblica e la tassazione, portare avanti le riforme della governance globale, intensificare gli sforzi per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sono alcune delle altre rivendicazioni contenute nella dichiarazione delle Global unions. Il punto, dunque, è porre al centro dell’attenzione i temi dell’occupazione e dei redditi.

I riverberi occupazionali di questa crisi economica sono ormai sotto gli occhi di tutti. Consideri sempre valida la proposta della Uil per tamponare le falle che si stanno aprendo nel tessuto sociale? Si è anche parlato di un bonus alle imprese: che ne pensi?

Noi abbiamo proposto una moratoria dei licenziamenti e non mi pare che in questa fase sia percorribile un’altra strada. Oggi abbiamo bisogno di una cultura economica diversa da quella del passato. Bisogna far sì che i lavoratori restino “legati” al proprio posto di lavoro e perché ciò accada occorre incentivare le imprese magari con la decontribuzione. Piuttosto che dare un’indennità di disoccupazione a chi viene messo per strada, diamo un aiuto alle imprese per tenere dentro i propri lavoratori. Per dirla con uno slogan, non bisogna finanziare la disoccupazione ma l’occupazione. E bisogna aiutare le imprese solo se non licenziano e se rinnovano i contratti a termine. Perché perdere posti di lavoro è anche una catastrofe economica e sociale oltre che personale. Se necessario, ad esempio, sarebbe meglio ridurre l’orario di lavoro piuttosto che avere meno persone nei posti di lavoro, perché la velocità con cui usciremo dalla crisi dipenderà anche da quanti posti di lavoro saremo riusciti a salvare. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno, oggi e per molto tempo ancora, fino a quando la crisi non sarà finita, il che accadrà solo quando la disoccupazione non aumenterà più. Dunque, il bonus alle imprese va bene, a patto però che rappresenti una compensazione per la moratoria dei licenziamenti. 

Tu pensi che una delle conseguenze di questa crisi sarà l’accentuazione delle differenze?

Io penso che dobbiamo smetterla di illuderci che sia possibile superare questa crisi affrontandola come si trattasse di una semplice parentesi. Non credo che, passata la crisi, torneremo come eravamo. Quando non ci sarà più il segno negativo a contraddistinguere i dati macroeconomici, ripartiremo comunque da un punto più basso e la competizione tra imprese, aree economiche, territori e regioni si farà più dura, più difficile. Insomma, aumenteranno le differenze e questo, per un sindacato sarà uno scenario complesso, difficile da gestire: sarà la sfida più importante da affrontare, dal punto di vista sociale e politico. Ecco perché i sindacati, lo ripeto, dovranno essere capaci di generare un cambiamento profondo: dovranno imparare a governare queste differenze. Ad esempio bisognerà affermare l’idea che giustizia sociale non è pagare tutti allo stesso modo ma pagare la gente per il lavoro che fa.

In fondo, questa filosofia è già insita nel nuovo sistema contrattuale…

Nel precedente sistema contrattuale, era prevalsa l’idea che la crescita salariale dovesse dipendere da una variabile politica. Il perno su cui si incentrava il vecchio modello era l’inflazione programmata che aveva fatto diventare il salario, per l’appunto, il frutto di una decisione politica. Si è trattato di una grave distorsione, anche se assolutamente necessaria in una data fase storica. Oggi quel contesto è del tutto mutato e, dunque, più ricchezza si produce più essa deve essere ripartita. Perché il salario è la modalità con cui si riconosce il valore del lavoro che si fa.

Si torna a parlare ancora una volta di pensioni. E’ possibile ipotizzare una nuova riforma, in questa fase così complessa?

Partiamo dal presupposto che, oggi, le persone hanno poca voglia di lasciare il posto di lavoro proprio perché c’è la crisi, i redditi diminuiscono e andare in pensione comporterebbe un’ulteriore perdita di reddito. Noi non abbiamo pregiudiziali né tabù e siamo disposti a sederci ad un tavolo per parlare di pensioni perché lo si faccia con intelligenza e con sapienza. Si possono, cioè, incentivare le persone a restare al lavoro e aumentare così l’età pensionabile media, lasciando loro, tuttavia, la possibilità di andare in pensione se costrette dai fatti o in presenza di lavori che obiettivamente non si possono fare oltre una certa età. Quindi una riforma delle pensioni che introduca degli incentivi per innalzare l’età pensionabile è una riforma possibile. E ovviamente, i soldi che verrebbero così risparmiati dovrebbero servire ad aumentare le pensioni, oggi troppo basse. Non è possibile cioè che i risparmi del sistema previdenziale vadano a sopperire alle scarse entrate dello Stato a causa del mancato pagamento delle tasse. Questo sarebbe inaccettabile.

E ora parliamo di Fiat. Lo scorso 18 giugno, c’è stato un importante incontro a Palazzo Chigi tra Governo, sindacati e azienda proprio per fare il punto sulle prospettive del gruppo automobilistico italiano. Quali sono state, in sintesi, le tue considerazioni?

Intanto, bisogna dire che è stato importante svolgere questo incontro al termine di una serie di trattative che hanno visto coinvolta l’azienda a livello internazionale su più fronti. Ora tutti hanno maggior cognizione di causa per fare valutazioni appropriate e, da parte sindacale, per proporre rivendicazioni più oculate. Nel recente passato, l’azienda si era trovata in una condizione di oggettiva fragilità. Ebbene, bisogna riconoscere al gruppo dirigente di essere riuscito a trasformare questa debolezza strutturale in una condizione di forza, tant’è che l’azienda si è trasformata da potenziale preda in predatrice. Al momento, la trattativa con Opel non è andata a buon fine ma forse l’esito conclusivo è solo rinviato e, peraltro, in quella vicenda hanno pesato molto, sul fronte tedesco, valutazioni politiche piuttosto che industriali. E’ certo, comunque, che la Fiat ha ampiamente dimostrato di voler reagire piuttosto che subire la crisi.

E’ una crisi diversa da tutte le altre…

Non c’è dubbio. In passato, la crisi era dovuta alla qualità dell’offerta; oggi, siamo di fronte ad una catastrofica caduta della domanda che pone interrogativi anche sul futuro di Fiat. Nel mondo esiste un problema di sovracapacità produttiva: si producono molte più auto di quante se ne vendano ma questo, paradossalmente, è un problema che non interessa la realtà italiana. La nostra industria automobilistica produce solo un terzo delle macchine che si vendono in Italia. Dunque la riduzione della capacità produttiva non ci dovrebbe riguardare: anche nell’ipotesi di una significativa riorganizzazione a livello europeo, la produzione automobilistica in Italia non dovrebbe essere penalizzata più di tanto.

E l’azienda, in questo quadro, come dovrebbe comportarsi?

L’azienda, dal canto suo, deve porsi l’obiettivo di non far scendere la produzione in Italia al di sotto degli attuali livelli e deve gestire le difficoltà solo con il ricorso alla cassa integrazione e non con la mobilità o pensando a dichiarare eccedenze. Ciò sostanzierebbe l’idea che Fiat intende restare un grande gruppo industriale nel nostro Paese. Questa, peraltro, sarebbe la condizione per chiedere al sindacato di fare la propria parte.

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