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GENNAIO 2010

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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Fax 06.47.53.208
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Edizioni Lavoro Italiano
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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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DICEMBRE 2009

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SOMMARIO

Editoriale
Una spruzzata di “utopia” – di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL. La UIL. Il domani riformista -
di A. Passaro

Attualità
Il sindacato riformatore - di D. Proietti

Congresso UIL
Competenza, intelligenza, creatività, senso del dovere, capacità organizzative e relazionali, sono solo alcuni degli ingredienti del capitale umano da trasferire nel lavoro - di G. Cortese
Il lavoro è l’unico patrimonio su cui può puntare il nostro Paese - di G. Morelli
Occorre valorizzare la contrattazione di 2 livello - di F. Iurato
Per valorizzare il lavoro significa soprattutto investire nella scuola e nella formazione -
di A. Ghidella
Il Sindacato Confederale deve diffondere il valore del sapere e del fare - di G. Carrer

UIL: sessant’anni
Per una società più giusta: il nostro ideale di sempre – di R. Vanni
E’ il tempo del protagonismo, delle riforme, della partecipazione dei lavoratori nei centri decisionali delle istituzioni. La Uil ha tutte le carte per giocare quel ruolo -
di G. Benvenuto

Sindacale
Università: Il progetto di riforma Gelmini ricalca le vecchie strade della pesantezza normativa e burocratica e della ricerca di forzati equilibri tra autoregolazione e centralizzazione - di A. Civica
Lo “strano” rapporto tra la previdenza complementare e il codice della strada -
di M. Abatecola
Ripensare la stagione del ’69 per valorizzareil lavoro oggi - di P. Nenci
Il nuovo volto del sindacato - di G. Zuccarello

Economia
Che fine hanno fatto i titoli tossici - di G. Paletta
La politica comune europea e la “Strategia 2020” nel contesto della crisi economica in atto: un aggiornamento - di A. Ponti

Intervista
Irrobustire un progetto ideale e culturale complessivo. Intervista a Bruno Bruni –
di A. Carpentieri

Il Corsivo
Anno nuovo e problemi vecchi - di P. Tusco

Agorà
Craxi e il sindacato – di M. Ballistreri
Cori razzisti sospendere le partite di calcio? - di G. Salvarani

Cultura
Leggere è rileggere. Elio Vittorini: Conversazione in Sicilia - di G. Balella
L’illusione della profondità offerto dal 3D - di L. Gemini
Il ritratto di Dorian Gray di Oliver Parker - di L. Gemini

Inserto
Indice Lavoro Italiano 2009 – di P.N.
L’esame del Censis sulla situazione italiana di oggi e sulle prospettive per il domani -
di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Una spruzzata di “utopia”

Di Antonio Foccillo

Ci si avvia a grandi passi verso il congresso confederale con una discussione molto viva e intesa. Ci si è interrogati, nei vari congressi territoriali e di categoria, su molti temi all’ordine del giorno del dibattito quotidiano. In qualche occasione si è, anche, assistito ad una sorta di dubbio angoscioso di come ricreare condizioni che facciano uscire da questa situazione di crisi il modello economico e come di conseguenza si possano ripristinare condizioni in cui ritorni ad avere dignità l’individuo ed il lavoro. La domanda che nasce a questo punto è, se è possibile pensare che l’attuale sistema basato sulla finanza non lasci più spazi di rilancio ad un metodo di organizzazione della vita sociale, di carattere solidaristico, quale quello che per tanti anni è stato quello di riferimento in Europa?

E’ vero che con il crollo del modello comunista e l’esaurimento della contrapposizione fra economia centralizzata ed economia pluralista è entrato in crisi anche il modello socialdemocratico, riformista e si è determinato un unico modello economico “neoliberista”. Ma è altrettanto certo che fin quando l’attuale classe politica liberista riuscirà a motivare come essenziali per lo sviluppo e per la crescita collettiva tutte le riduzioni di tutele e garanzie che vengono perpetrate dal mercato a danno dei lavoratori (e l’attuale crisi ne è il cogente esempio) e la barbarie relativa allo sfruttamento del lavoro, il liberismo e la sua anima mercantile continueranno ad essere considerati le uniche, moderne vie verso il futuro. Le vicende di Rosarno, Termini Imerese, Phonemedia, il leader dei call center, sono alcuni degli ultimi avvenimenti che dimostrano che è sempre più difficile coniugare la dignità delle persone, il diritto al lavoro e la logica stringente dell’economia fredda e cinica.

Come si può pensare di costruire una società in cui il rispetto per la persona viene continuamente messo sotto i piedi e dove la precarietà del lavoro è spesso accompagnata dal cinico licenziamento di tanta parte di lavoratori ovvero come condizioni inumane per tanti immigrati possono essere continuamente vissute come normali o quando la popolazione, lasciata sola ed esasperata si ribella alla violenza e alla delinquenza e si scontra con queste persone. Solo allora ci si accorge del problema e si scrivono milioni di parole, su pagine e pagine dei media, condannando o giustificando, ma senza mai ragionare sul perché siano nati questi fenomeni e sul perché non si è fatto niente fino al caso concreto che ha fatto esplodere il problema. Licenziamenti, emarginazione, violenza, degrado e divisioni fanno parte del mondo moderno. La logica della competizione estrema ha rotto qualsiasi valore di solidarietà e coesione. L’“altro” è visto spesso come nemico. E l’individualismo impera con la sua logica di affermazione che prevale su qualsiasi altro individuo con ogni mezzo.

Certamente il mondo è cambiato, ma individuare strategie che rendano internazionali le battaglie per i diritti dell’uomo ed il rispetto della persona in tutti i campi della sua volontà di affermarsi è non solo importante, ma anche dirompente rispetto ad un sistema che considera l’individuo solo come un numero e niente altro. Di fronte a questo ragionamento appena abbozzato si è considerati dei “sognatori”, degli “utopisti” al di fuori della realtà che, invece, per i più, è fatta di cose concrete che si risolvono nella quotidianità. Ma veramente si può affermare che i problemi di tutti i giorni: dalla difesa del posto di lavoro a quelli dell’aumento del salario e delle pensioni basse; dal lavoro agli immigrati al superamento delle tante precarietà; dalle rapacità delle multinazionali che arrivano, acquistano le fabbriche e poi vanno via quando non è più conveniente, lasciando a casa i lavoratori, alle delocalizzazioni; dalle privatizzazioni dei servizi di prima necessità, come per esempio l’acqua, all’influenza nella vita di tutti i giorni di modelli di vita imposti e individuati da chi controlla l’economia mondiale possano essere risolti con qualche azione locale, territoriale o anche nazionale.

Ben lo avevano capito i padri fondatori del movimento dei lavoratori, sin dall’Ottocento, includendo l’internazionalizzazione delle azioni e delle lotte fra i primi obiettivi da raggiungere fra tutti quelli che si erano posti. Se non si esce dal localismo o dal provincialismo e si capisce che i processi sono tutti legati e rispondono a logiche ben chiare, che vanno cambiate, per capovolgere il valore su cui si costruiscono le società, che non può essere esclusivamente il profitto, non si riuscirà neppure a scalfire le tante problematiche di tutti i giorni altro che risolverle! Bisogna tornare a volare alto. Una classe dirigente che si rispetti deve mettere anima in quello che fa. Infatti, non bisogna mai dimenticare che l’attuale crisi economica è frutto del processo di globalizzazione, che ha modificato non solo il sistema economico mondiale, ma anche i centri di potere dove si prendono le decisioni e soprattutto ha costruito un’economia virtuale che quando è esplosa i suoi effetti sull’economia reale sono stati virulenti. La forte riduzione del valore della ricchezza, il rallentamento del credito, la contrazione della fiducia dei consumatori e delle imprese frenano la domanda e la produzione nelle economie avanzate, dove si registrano significative perdite di posti di lavoro.

Ci troviamo al capolinea di queste teorie economiche e forse anche delle dottrine politiche, visto che il binomio democrazia-capitalismo vacilla. Oggi, sembra che qualche timido elemento di ripresa dell’economia ci sia, allora bisogna valutare come ed in che modo se né uscirà? Tutti dicono che, alla fine, dalla crisi trarremo i criteri e le regole in base a come si sono modificate le abitudini preesistenti. Alla fine, si dovrà trovare, comunque, un nuovo modello, più equilibrato, in cui vi sia meno sperpero e capace soprattutto di rinnovare il sistema produttivo e di consumo. La società per essere comunità deve per forza di cose essere governata con principi, ideali e valori, altrimenti vive la propria quotidianità solo sul pragmatismo, sullo spontaneismo e sulle individualità una contro l’altra, armate. In una fase come questa, di cui ancora non si intravede la fine e non si ha coscienza della dimensione dei costi sociali della crisi in atto, bisognerebbe essere in grado di fare sistema e di valutare, in un ambito, come già sostenevo, che travalichi la singola provincia e il singolo Stato, non solo quali siano gli interventi efficaci per fermare la crisi, ma anche come ricostruire le premesse di una società democratica in cui la ricerca del benessere reale si basi su di un rinnovato modello economico e sociale. Si torna a parlare di regole e di intervento dello stato in economia, ma – ci chiediamo - sulla base di quale riferimento politico economico verranno fatte queste scelte, visto che i due modelli precedenti, sia quello del centralismo e della programmazione di origine comunista, sia quello del liberismo senza regole del turbo-capitalismo, anche se con motivazioni diverse, sono stati messi in crisi.

Certo qualcuno potrebbe ritenere anche “nostalgiche” e/o fuori del tempo queste considerazioni, quasi non si fosse capaci di leggere le profonde trasformazioni sociali prodotte dal consumismo e dalla cultura di massa di bisogni populistici, ma il problema sta tutto qui: di fronte a tanti disvalori, messi in moto nella nostra società in questi ultimi quindici anni è possibile ancora recuperare una battaglia ideale e valoriale o ormai questa è persa per sempre? Ricreare una cultura di idee che sia sostenuta dalla partecipazione dei cittadini attraverso strutture politiche e sociali caratterizzate dal proprio retroterra valoriale, fatto di tradizione (il proprio dna) e modernità (fatto di pragmatismo) a cui potersi ancorare e far battaglie politiche con il fine però di costruire un modello di società coeso e solidale. Sarebbe suicida, oggi, per uscire da questa situazione riproporre il modello socioeconomico anglo-americano, né tanto meno potremmo fare riferimento a modelli orientali. Dobbiamo cercare nella storia del vecchio continente quei riferimenti necessari a ricreare un modello sociale equo e solidale.

E’ vero che, l’insinuarsi della logica liberista ha tolto alle persone ogni carica ideale, cioè l'esigenza di riconoscersi in un ideale di vita positivo, umanistico ossia di far riferimento a valori sociali e non solo individuali e utilitaristici. Ma, è anche vero che, storicamente, le istanze di trasformazione della società sono avvenute proprio, quando il capitalismo sembrava aver definitivamente distrutto ogni carica ideale, questo perché nessuna struttura sociale ha il potere di distruggere una tradizione di solidarietà, senza alimentare un'altrettanto grande esigenza di liberazione. L'unico modo con cui il moderno liberismo potrebbe impedire che l'esigenza di giustizia sociale si concretizzi in un'esperienza politica è garantire uno standard di vita sufficientemente elevato e fino ad oggi, nell'area occidentale, ciò è riuscito, almeno fino a qualche tempo fa. Tuttavia oggi, i diritti sociali, sempre più ridotti dall’ingordigia capitalista ammantatasi della logica delle compatibilità macroeconomiche, stanno assumendo nei singoli sempre maggiore importanza.

Allora bisogna assumersi il compito di rendere coscienti i nostri concittadini che le contraddizioni, insite nel liberismo, vanno superate prima ch'esse abbiano prodotto condizionamenti tali da rendere molto difficile qualunque cambiamento e quindi senza aspettare che la gente non ne possa più, cioè aspettare passivamente l'acuirsi della crisi. Il compromesso, l’etica, il laicismo, il proporre, la democrazia della partecipazione, il rispetto dell’altrui pensiero, sono tutti principi della storia del riformismo e del laicismo che hanno prodotto modelli di società in cui i principi di uguaglianza, di solidarietà e di coesione sociale hanno affermato la centralità della persona. Il trinomio forte su cui si è costruita, almeno in Europa, un modello di società coesa e solidale è stato: uguaglianza, fratellanza, libertà. Da lì si deve ripartire e questi valori devono orientare la ricostruzione politico-economica della nuova società uscita dalla crisi. Il sindacato e la Uil, in particolare, per i suoi connotati di organizzazione laica e socialista può fare tanto, dipende solo da noi.

Separatore

La Uil. Il domani riformista. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Angeletti, entriamo subito nel vivo della nostra consueta chiacchierata mensile. Il 2010 è per la Uil l’anno del suo XV Congresso. Un appuntamento decisivo per la nostra Organizzazione. Quale sarà il tema centrale di queste assise?

Abbiamo scelto come slogan del Congresso: “La Uil. Il domani riformista”. Il nostro è un Paese al quale servono riforme e nel mondo del sociale noi crediamo ci sia bisogno di un’aggregazione che abbia queste caratteristiche perché l’economia riprenda slancio e i lavoratori trovino tutele adeguate al cambiamento dei tempi. Negli ultimi anni l’unica vera riforma è stata proprio quella del sistema contrattuale. L’abbiamo perseguita tra tante difficoltà e contrarietà ma, alla fine, abbiamo costruito un nuovo modello che consentirà di venir fuori, gradualmente, dalla spirale “bassa produttività-bassi salari”. Una spirale che ha frenato l’economia e ha dato il suo contributo negativo all’avvitamento della crisi. Ora è tempo di puntare anche ad altri obiettivi.

La riduzione della pressione fiscale sulla busta paga è una richiesta che la Uil porta avanti da molto tempo. Pensi siano maturi i tempi per portare a casa questo importante obiettivo?

Non solo credo che i tempi siano maturi ma penso che sia trascorso già sin troppo tempo senza un intervento forte sulla materia fiscale da parte dei governi che si sono succeduti in questi anni. Il nostro sistema fiscale è iniquo ma anche inefficace dal punto di vista economico. E’ assurdo che la media dei lavoratori dipendenti dichiari redditi superiori alla media dei datori di lavoro, o a quelli mediamente dichiarati da altre categorie di lavoro autonomo o professionale. Occorre, dunque, una riforma che consenta di ridurre le tasse ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Solo se si fa questo passo si creano anche i presupposti per rimettere mano al sistema fiscale nel suo insieme.

Perché dici che è inefficace dal punto di vista economico?

Perché drena risorse a svantaggio di categorie di contribuenti che hanno un’alta propensione marginale al consumo. Se si riducono le tasse ai lavoratori dipendenti e ai pensionati si consente a costoro di avere maggiori risorse a disposizione per riattivare i consumi e la domanda interna. In questo modo si dà una mano all’economia ma anche all’occupazione. Certo, occorre del tempo perché questi benefici si realizzino, ma proprio per questo motivo non si può aspettare e bisogna agire subito.

Una riduzione delle tasse richiede risorse. Dove possono essere attinte?

Intanto bisogna intensificare la lotta all’evasione fiscale. E’ comprensibile che la politica faccia fatica ad affrontare questo capitolo: mettersi contro gli evasori non paga in termini di consenso. Ma il nostro sistema economico non può più permettersi alti livelli di evasione fiscale. Su questo fronte sono stati ottenuti risultati apprezzabili. Bisogna dare continuità all’azione di controllo e finalizzare una parte degli introiti alla riduzione delle tasse. Inoltre, si può innalzare l’aliquota sulle rendite finanziarie, comunque senza superare il livello europeo attestato mediamente sul 20%. Infine, bisogna ridurre la spesa di funzionamento della pubblica amministrazione e, ancora, occorre aumentare l’Iva su alcuni beni specifici e individuati. Così facendo si possono recuperare tutte le risorse necessarie a ridurre le tasse ai lavoratori.

Hai fatto riferimento all’occupazione. Qual è la strategia da mettere in campo?

La crisi economica, purtroppo, continuerà ad avere ripercussioni negative sui livelli occupazionali ancora per qualche tempo. Dobbiamo evitare che i lavoratori siano estromessi dal ciclo produttivo. Per dirla con uno slogan: meglio finanziare l’occupazione che la disoccupazione. Lo Stato, insomma, deve intervenire per far sì che i lavoratori restino legati al loro posto di lavoro anche se, in questa fase il lavoro dovesse scarseggiare. Solo in questo modo, quando ci sarà la ripresa, le nostre aziende potranno essere pronte a ripartire. In questa fase, un sistema efficace di ammortizzatori sociali deve tener conto di tale necessità.

Cambiamo argomento e parliamo di Fiat. In questi giorni, tiene banco, in particolare, la vicenda di Termini Imerese. E’ intervenuto il governo che ha convocato le parti interessate prima a palazzo Chigi e, successivamente, proprio in questi ultimi giorni di gennaio, al ministero delle Attività Produttive. Cosa succede e, soprattutto, quali sono le prospettive?

Come è noto la Fiat ha comunicato l’intenzione di cessare, nel 2012, la propria attività in quel sito. La reazione dei lavoratori di quello stabilimento e dell’indotto era prevedibile. C’è un problema specifico che riguarda 18 lavoratori che sono stati licenziati, la qual cosa ha ulteriormente inasprito gli animi. Sarebbe bene che la Fiat reintegrasse quei lavoratori anche per consentire al tavolo tecnico che, dal 5 febbraio, sarà insediato al ministero delle Attività Produttive, di partire con il piede giusto e di valutare serenamente le soluzioni possibili per quel sito.

Sta di fatto che quello stabilimento è di proprietà della Fiat e noi vogliamo sentire dalla Fiat quale sarà il futuro di Termini Imerese, cosa pensa di mettere in campo. Non si è mai verificato, in Europa, che una multinazionale decidesse di chiudere uno stabilimento e di andarsene senza aver prospettato una soluzione credibile al problema.

C’è infine la questione incentivi. Ebbene io penso che in un Paese come il nostro in cui il mercato delle auto è per il 67% appannaggio delle case automobilistiche straniere, riattivare quel tipo di sostegno significherebbe sostenere l’occupazione degli altri Paesi. Solo quando la Fiat deciderà di spostare in Italia la produzione di 300mila auto, io diverrò nuovamente uno strenuo sostenitore della necessità di un piano di incentivi.

Chiudiamo come abbiamo cominciato: con una domanda sulla stagione contrattuale della Uil. In queste settimane stai facendo il giro per i congressi territoriali e di categoria. In sintesi, qual è la tua prima impressione sullo stato di salute dell’Organizzazione?

Abbiamo una Uil davvero in ottima salute. Anche nelle situazioni più complesse, generate dalle difficoltà economiche che sta vivendo il Paese, ho riscontrato una capacità reattiva decisamente positiva e incoraggiante. I nostri quadri e delegati sono motivati, hanno piena consapevolezza dell’importante ruolo che la Uil è chiamata a svolgere per la tutela dei lavoratori e dei pensionati e affrontano i problemi della quotidianità nei luoghi di lavoro con senso di responsabilità, disponibilità e competenza. D’altronde, sono i risultati che parlano: cresciamo ovunque in termini di iscritti e di consensi. E’ questo il termometro giusto per testare lo stato di salute dell’Organizzazione. C’è entusiasmo e c’è fiducia: io credo, dunque, che per la Uil ci sia anche un grande futuro.

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