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NOVEMBRE 2015

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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OTTOBRE 2015

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SOMMARIO

Il Fatto
- La pubblica amministrazione:valore aggiunto per il paese - di A. Foccillo
Il mondo ha bisogno di pace e di democrazia per costruire un futuro di sviluppo e di benessere per tutti - Intervista a Carmelo Barbagallo Segretario generale UIL - di Antonio Passaro

Sindacale
- Per un reddito di inclusione sociale per i cittadini più poveri. Dall’Alleanza contro la povertà in Italia alla Legge di Stabilità 2016 - di S. Roseto
- Sistemi Ricerca, Università, AFAM: priorità per il rilancio del paese - di S. Ostrica
- Su manifestazione dipendenti pubblici silenzio assordante del governo Renzi - di G. Torluccio
- Il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego, la farsa continua - di N. Turco
- Rinnovo dei contratti dopo la definizione dei comparti va riaperta la stagione del confronto con la politica - di P. Turi
- La Uil Molise ed un anno “vissuto intensamente” - di T. Boccardo
- L’economia in Puglia - di A. Pugliese
- La Uil Emilia Romagna parte civile al processo Aemilia - di G. Zignani

Economia
- L’economia nelle relazioni congressuali dei segretari generali (VII) - Benvenuto - Bologna: “Un sindacato di partecipazione per l’unità tra i lavoratori i giovani le donne i disoccupati”- 29 giugno - 3 luglio 1977 - di P. Saija

Approfondimento
- Laicità/Laicismo - di F. Garofalo

Agorà
- Spending Review: Avanti un altro… - di G. C. Serafini

La Replica
- Le polemiche sulla Pubblica amministrazione - di A. Foccillo

Il Ricordo
- Anna Maria Acone - di P. Baratto

Inserto
- La frenesia di farsi schiavizzare - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

La pubblica amministrazione: valore aggiunto per il Paese

di Antonio Foccillo

Dopo la manifestazione del 28 novembre, il Governo, invece, di favorire l’apertura dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, continua a parlare solo di riforma che dovrebbe concretizzarsi, in modo unilaterale, con i decreti attuativi del ministro Madia. In realtà l’unica effettiva riforma della Pubblica Amministrazione riguarda il personale, contro il quale si prosegue con la soppressione dei diritti con l’intenzione di ricavare una mole non indifferente di risparmi di spesa per lo Stato. Ad esempio, è già in atto il libero spostamento dei dipendenti pubblici entro un raggio di 50 chilometri. La mobilità è presentata come opera di semplificazione. La mobilità, infatti, secondo il ministro non punirebbe nessuno. Perché nessuno perderà lo stipendio né la qualità della sua vita. Anzi. La mobilità può essere un’occasione per lavorare meglio, per ritrovare motivazione.

Ogni commento a queste affermazioni è superfluo.

Per i dipendenti pubblici questi trasferimenti sono legati alle cosiddette tabelle di equiparazione, che, secondo il ministro devono puntare alla perfezione per garantire che nessuno perderà un euro cambiando lavoro. L’operazione, per il Ministro, avrà un banco di prova importante con l’attuazione della riforma delle Province. Il ministro poi sostiene che non ci saranno danni alle buste paga. Commentare questo ottimismo non è possibile. Purtroppo con queste dichiarazioni si da l’impressione di non conoscere la realtà, e, quindi, di voler governare un Paese “virtuale”. Proprio la riforma delle province smentisce tale ottimismo e rischia di diventare un continuo ricorso alla Magistratura.

Veniamo ad altri contenuti della riforma della pubblica amministrazione della Madia che ha previsto anche la precarizzazione della dirigenza pubblica, che sarà assoggettata al regime degli incarichi a termine, per un quadriennio prorogabile per ulteriori due anni, allo scopo di modernizzare il settore pubblico (così dichiara il Governo).

L’istituzione del ruolo unico della dirigenza pubblica “di ruolo” distinta in dirigenza statale, regionale e degli enti locali, comporterà l’inserimento dei dirigenti nell’unico calderone di settore e l’appiattimento delle loro posizioni dando così alle amministrazioni interessate la possibilità di attingere dallo stesso, a seguito di una procedura ancora da definire nei dettagli, per la scelta dei dirigenti da incaricare. Nello stesso tempo è prevista la possibilità per le amministrazioni pubbliche di conferire gli incarichi dirigenziali a personale non di ruolo pur nel limite di una contenuta percentuale.

Per i segretari comunali e provinciali è stata abolita la figura con la conseguente attribuzione delle corrispondenti funzioni ad una figura di nuova creazione “il dirigente apicale” con compiti di attuazione dell’indirizzo politico amministrativo, che non dovrà necessariamente coincidere, fatta eccezione per un ristretto periodo temporale non superiore a tre anni dal decreto legislativo di attuazione della delega, con il personale già appartenente alla carriera della soppressa figura. Ciò comporterà la possibilità per le amministrazioni pubbliche di scegliere i propri dirigenti, compresi quelli che non hanno compiti di attuazione dell’indirizzo politico amministrativo, dal ruolo unico e dunque anche tra coloro già appartenenti al ruolo dei segretari degli enti locali.

Sull’argomento si sono subito registrate le proteste dei dirigenti pubblici e dei segretari degli enti locali in particolare, i quali hanno letto nella legge l’affermazione del principio di licenziabilità dei dirigenti pubblici attraverso il meccanismo della cancellazione dal ruolo unico decorso un periodo temporale, ancora da stabilire, senza che sia intervenuto l’incarico ad opera del vertice politico delle amministrazioni pubbliche.

Una vera dirompente riforma, dunque, che potrebbe mandare a casa centinaia di dirigenti pubblici colpevoli solo del fatto di non essere stati scelti dai vertici politici pur senza alcuna plausibile giustificazione.

Le argomentazioni a favore della riforma portate avanti dal Governo non rendono ragione ad un sistema che, nell’ottica di un cambiamento da effettuare a tutti i costi per salvare l’immagine dell’Italia di fronte all’Europa, non si cura nemmeno di comprovare il rispetto dei principi cardine sui quali poggia l’intero impianto costituzionale vigente, che ha il suo fondamento negli articoli 97 e 98 della Costituzione repubblicana.

I principi di buon andamento e imparzialità delle amministrazioni pubbliche ad esclusivo servizio della nazione, cede così il passo ad altri valori che non trovano riscontro nella Costituzione italiana e che si conciliano semmai con altri sistemi organizzativi basati su modelli di governance aventi il loro fulcro nel ruolo centrale assunto dal vertice politico.

Se dunque l’Italia adotta questo nuovo modello di governance, a Costituzione invariata, appare ovvia la rottura tra la volontà del Governo e la radice profondamente democratica e partecipativa delle istituzioni repubblicane.

In quest’ottica vengono risolte anche le problematiche della dirigenza pubblica relative ai modelli, ai ruoli, alla mobilità, alle retribuzioni, alla licenziabilità, agitando come magico specchietto per allodole la managerialità dei dirigenti pubblici.

Vogliamo ricordare anche l’insuccesso dell’inserimento nelle Pubbliche amministrazioni di molti manager provenienti dal privato, vedi l’esperienza dei City manager, insuccesso che si potrebbe affermare che non è dipeso dalle loro capacità. E’ evidente che il problema risiede altrove, vale a dire nei meccanismi della pubblica amministrazione che non sono congegnati per una gestione manageriale, infatti, nella realtà, il dirigente pubblico è un manager che non è in condizione di definire gli obiettivi di lungo termine, non negozia il budget, non esercita il controllo pieno sulle risorse, non risponde dei risultati.

La realtà è che una parte del fatturato della P.A. viene assorbito da sperperi e costi impropri e le risorse economiche non consentono appropriati programmi di innovazione tecnologica e finanche organizzativa, tanto che il grado di efficienza ed efficacia dei servizi pubblici è in gran parte determinato dall’uso che si fa delle risorse umane. La soluzione va quindi trovata in una nuova organizzazione del lavoro pubblico che deve iniziare dagli investimenti per finire allo snellimento delle norme, che appesantiscono l’agire delle PPAA.

Rispetto al tema lavoro si è assistito nel corso degli anni ad una overdose normativa, con una ciclica e torrenziale sovrapposizione di norme, determinata dai cedimenti alle emergenze, dalle logiche propagandistiche che le ispirano, da ultimo da rinati furori ideologici.

Le ultime leggi finanziarie hanno portato all’esasperazione questo processo diffondendo un caos normativo, che non produce benefici nella spesa pubblica per il personale, ma rende sempre più ingestibile l’organizzazione dei servizi, aumentandone i costi ed abbassandone la qualità. Ciò è avvenuto a seguito degli insuccessi a continuare e migliorare quei processi di ammodernamento che, a partire dal D.Lgs. 29 del 1993 fino al D.Lgs. 165 del 2001, avevano caratterizzato una nuova stagione del lavoro pubblico.

Invece di partire da una seria analisi delle cause che hanno portato al fallimento queste riforme e quindi trovare i correttivi che incidano su di esse, i governi procedono senza una strategia che non sia quella del divieto e della minaccia, senza considerare gli effetti di questo modo d’agire.

Oggi, sono circa 3 milioni i lavoratori del pubblico impiego dei 4,9 milioni di lavoratori senza contratto, che attendono ancora il rinnovo, secondo i dati Istat. Nonostante che la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il blocco si continua a non rispondere da parte del governo e nella legge di stabilità sono state messe cifre irrisorie per la contrattazione nazionale, mentre la contrattazione di secondo livello viene ribloccata. Oltretutto con l’attuale normativa si determinerebbe un’ulteriore diminuzione dell’attuale stipendio dei dipendenti. Si parla tanto di ripresa ma se non si aumentano i salari, difficilmente, l’economia decollerà.

Sui lavoratori pubblici si scaricano le inefficienze del sistema e vengono rovesciate loro addosso solo parole denigratorie, mai si parla del fatto che nonostante abbiano in questi ultimi sei anni avuto il blocco della contrattazione e del salario individuale hanno assicurato comunque i servizi. E’ ora di riconoscere loro il diritto al giusto stipendio rinnovando i contratti.

Purtroppo, come avevamo previsto, l’attenzione si focalizza solo sul tema del licenziamento dei pubblici dipendenti, mentre nessuno si scandalizza del fatto che da ben sei anni questi lavoratori aspettano il rinnovo del contratto e con il salario individuale bloccato. Noi vogliamo ricordare che la stessa sollecitazione deve esserci nel riconoscere ai dipendenti anche il giusto salario e il rinnovo dei contratti.

Purtroppo ogni volta che bisogna dare qualcosa ai lavoratori pubblici partono campagne denigratorie per creare un’opinione pubblica contraria. Ormai i lavoratori del pubblico impiego si utilizzano solo in negativo o per fare cassa per il bilancio dello Stato.

I lavoratori sono arrabbiati e l’hanno dimostrato anche con la manifestazione del 28, prima ancora con una notevolissima partecipazione alle assemblee, ove hanno chiesto il rispetto dei loro diritti contrattuali e investimenti nelle amministrazioni pubbliche per migliorare la loro qualità e, quindi, rispondere sempre meglio ai cittadini.

Nel pubblico impiego, nonostante le tante campagne denigratorie, la stragrande maggioranza dei lavoratori lavora con serietà e addirittura svolge il lavoro anche per quelli che portano discredito con i loro comportamenti, questi ultimi vanno perseguiti. Chi ha sbagliato è giusto che venga punito, a partire anche dai dirigenti che fanno finta di non vedere.

Infine, a chi chiede che i lavoratori pubblici debbano essere trattati come i privati, vogliamo ricordare che queste norme esistevano dal 1993 con l’applicazione del codice civile e della piena contrattualizzazione nel rapporto di lavoro. Poi nel 2009 si tornò alla legislazione delle norme contrattuali che ha creato, ancora di più, inefficienza e ha peggiorato le cose.

Solo con la contrattazione si renderà più efficiente la macchina, mentre con l’eccesso di legislazione si burocratizza ancora di più. Pertanto contratti subito e con le giuste risorse. I dipendenti pubblici hanno dovuto subire l’umiliazione di un misero appostamento di risorse in Legge di stabilità, 300 milioni di euro, utili a un aumento contrattuale talmente esiguo da essere fasullo.

Noi riteniamo che in un momento di crisi economica, ancora di più, si deve puntare sulla macchina dello Stato, unico soggetto in grado di garantire a tutti i cittadini pari opportunità e soprattutto sevizi su tutto il territorio dello Stato e a prezzi competitivi. Senza questi servizi i cittadini saranno sempre più poveri.

Il servizio Pubblico e i suoi dipendenti, sono tra i meno numerosi in Europa, in relazione al numero degli abitanti. Non solo: negli anni del blocco del turn over il personale dipendente si è invecchiato, mentre gli stipendi sono rimasti al palo con un potere d’acquisto sempre più scarso.

Infatti, secondo i dati Eurostat 2010, l’Italia è l’unico paese in Europa in cui il numero dei dipendenti pubblici è calato in modo considerevole, mentre in quasi tutti gli altri Stati europei crescono, persino nella rigorosa Germania. L’incidenza sul Pil della spesa per gli stipendi dei dipendenti pubblici nel 2013 (10,3%) è perfettamente in linea con la media dei Paesi dell’Euro, con un valore inferiore a quello francese (13,0%) e britannico (10,6%). Anche il costo pro capite dei dipendenti pubblici è nella media dei paesi europei.

Nello specifico, gli effetti del blocco della contrattazione hanno causato una grossa perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni: da gennaio 2009 al luglio 2015 i pubblici dipendenti hanno perso, in media, secondo i comparti, dai 1424 euro annui ai 2075 euro annui ed un dipendente con uno stipendio lordo di 25.240 euro ha perso 2.300 euro.

Questi dati dimostrano che la situazione della Pubblica Amministrazione in Italia e, in particolare, dei dipendenti pubblici è fortemente penalizzata dal blocco delle retribuzioni e del turn over, dallo stallo della situazione contrattuale, ferma dal 2009 e dalla mancanza di una riforma seria ed efficace.

Pertanto, se non ci saranno risposte sia sul fronte degli aumenti salariali, sia sulla riapertura della stagione di rinnovo dei contratti; se non verrà liberata dai vincoli esistenti la contrattazione decentrata, strumento essenziale per migliorare l’organizzazione del lavoro e la qualità dei servizi pubblici, il sindacato sarà costretto ad aumentare lo stato di agitazione per ottenere dal governo il cambiamento delle scelte della legge di stabilità.

Non riconoscere i diritti dei lavoratori e non finanziare le amministrazioni pubbliche e l’innovazione, la ricerca, la formazione, la cultura non favorisce la crescita e non qualifica la competitività nel Paese, per questo bisognerà condurre una vasta informazione alla cittadinanza per costruire una grande alleanza che possa chiedere al Paese una pubblica amministrazione efficiente.

Se si rinnovassero i contratti con l’attuale normativa, l’unico risultato sarebbe un’ulteriore riduzione dei salari per i dipendenti. Quindi, propedeuticamente, bisogna liberare la contrattazione dai rigidi vincoli normativi e, soprattutto, puntare a una vera e piena contrattualizzazione di secondo livello che valorizzi la professionalità e, nello stesso tempo, renda efficiente i servizi per la cittadinanza.

Una reale inversione di rotta, per noi, avrebbe dovuto avere un approccio completamente diverso e per questo non ci stancheremo di chiedere di:

- ripristinare il processo di modernizzazione agendo sullo sblocco selettivo delle assunzioni, utilizzando il turn over e per molti versi incentivandolo;

- creare incentivi reali alla mobilità sud/centro - nord;

- incrementare la produttività del lavoro pubblico, agendo non sui singoli ma su processi di riorganizzazione incentivata e puntare su investimenti.

- semplificare gli iter burocratici ed il loro coordinamento visto che spesso trovano diversa applicazione a seconda della zona.

- rinnovare i contratti.

Separatore

Il mondo ha bisogno di pace e di democrazia per costruire un futuro di sviluppo e di benessere per tutti. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Barbagallo, il 13 novembre ha segnato un momento tragico per la Francia, l’Europa, l’umanità intera. L’attacco terroristico dell’Isis a Parigi ha seminato morte e distruzione e ha richiamato alla memoria il dramma delle Torri gemelle. Tu eri ad Antalya, in Turchia, dove si stava svolgendo il Labour20 in previsione del G20. È stato un duro colpo per tutti....

È stata una tragedia che ci ha sconvolto. Mentre, tutti insieme, lì ad Antalya, cercavamo nuovi percorsi verso l’occupazione, la protezione sociale, la crescita e lo sviluppo, il terrorismo fondamentalista ha provato ad oscurare il mondo con il suo delirio. Ma l’aspirazione alla libertà, alla democrazia e al progresso è più forte dell’efferata barbarie di questi fanatici. Bisogna aumentare, ovunque, lo stato di allerta e, inoltre, bisogna mettere in atto, a tutti i livelli, strategie che isolino i terroristi. Quell’incontro sindacale internazionale è stata anche l’occasione per esortare tutti i lavoratori a collaborare in questa direzione, con una vigilanza responsabile sul territorio e nei luoghi di lavoro. Noi pensiamo anche che sia necessario un impegno dei Governi nazionali e dell’Europa per politiche occupazionali e sociali inclusive, come uno degli antidoti ai richiami del terrorismo. Il mondo ha bisogno di pace e di democrazia per costruire un futuro di sviluppo e di benessere per tutti”.

Siete comunque riusciti a presentare un documento comune insieme agli imprenditori, rappresentati da Business20?

Sì, abbiamo presentato un documento comune dei rappresentanti sia dei sindacati sia degli imprenditori sul ruolo e sull’impegno delle parti sociali per lo sviluppo, la crescita economica e, inoltre, per l’occupazione giovanile e delle donne. C’è la convinzione che un armonico e diffuso sviluppo economico, sociale e occupazionale e una più equa redistribuzione della ricchezza possano rappresentare anche strumenti utili per dare sostanza ai valori di pace e democrazia e per isolare il terrorismo internazionale. Su questa strada, il Sindacato italiano e quello europeo e mondiale sono pronti a collaborare e a fare la propria parte.

Hai voluto partecipare a una manifestazione indetta dall’Unione delle comunità islamiche per dire no al terrorismo: questa unità può servire a isolare i fanatici fautori di morte e distruzione?

Credo proprio di sì. Abbiamo voluto esprimere, insieme alle Comunità islamiche in Italia, il nostro unanime sdegno e la nostra ferma condanna contro tutti i terrorismi. Abbiamo voluto testimoniare che le armi più efficaci per combattere questa barbarie sono la solidarietà e la cooperazione tra popoli, etnie e religioni. Il mondo del lavoro ha radicato in sé questi valori e può e deve essere un baluardo contro ogni forma di violenza. Non bisogna chiudersi nei propri egoismi, però, e occorre sconfiggere la tentazione ad isolarsi che può essere dettata da psicosi e da paure. Ho anche ricordato la mia esperienza da Segretario della Uil di Palermo, quando feci adibire una chiesa sconsacrata a moschea per la preghiera dei lavoratori musulmani. Già allora quella scelta fu una concreta testimonianza dell’impegno che il Sindacato può mettere in atto per la pacificazione.

Passiamo a temi più strettamente sindacali. Proprio pochi giorni or sono, il ministro Poletti è intervenuto sostenendo che l’ora-lavoro sarebbe un attrezzo vecchio e non dovrebbe essere più l’unica misura per il salario. Più o meno, è questa la posizione espressa dal rappresentante del Governo in un’occasione pubblica. Qual è la tua opinione al proposito?

Ho la sensazione che si vogliano far passare per idee di modernità concetti da liberismo sfrenato. Ad ogni buon conto, un ministro del Lavoro non può pensare di affrontare temi del genere con annunci spot ad uso giornalistico. Se vuole affrontare questi problemi, noi siamo disponibili a sederci a un tavolo, ma cominciamo dal tema della partecipazione e poi, eventualmente, vediamo se per alcuni specifici lavori si possa ragionare secondo differenti logiche.

Altro argomento sul tavolo è quello relativo alla rappresentanza e alla rappresentatività. Nel mese di novembre è stato firmato l’accordo anche con la Confcommercio. Questo risultato positivo è un segnale anche per chi, nel Governo, vorrebbe regolamentare materie di competenza delle parti sociali?

Quella con la Confcommercio è un’intesa molto importante perché non definisce solo i criteri per misurare la rappresentanza e la rappresentatività, ma anche quelli per la validità del contratto nazionale e per premiare la produttività a livello aziendale e territoriale. È vero: qualcuno vorrebbe sostituire il contratto nazionale con il salario minimo, ma questo sarebbe un modo per ridurre ulteriormente il potere d’acquisto dei lavoratori. Di simili interventi, dunque, non se ne sente il bisogno: il Governo fa bene a investire 1 miliardo in sicurezza e 1 miliardo in cultura, ma non metta mano al salario minimo.

Dal punto di vista generale, questa intesa può rappresentare uno stimolo in più per le parti sociali a proseguire nell’azione contrattuale?

È sicuramente un fatto positivo anche in questa prospettiva. Abbiamo sempre sostenuto che il 2015 dovesse essere l’anno dei contratti: alcuni sono stati rinnovati, altri sono in dirittura d’arrivo, per altri ancora sono stati attivati i tavoli negoziali. Siamo in attesa, invece, di un segnale da parte del Governo per il rinnovo di quelli pubblici. Occorre la massima coesione tra le parti sociali e questo accordo rafforza la nostra impostazione: se ne facciano una ragione, le parti sociali sono un esempio di democrazia.

Contratti pubblici: è questo l’altro vulnus. I 300 milioni inseriti in legge di stabilità sono stati giudicati del tutto insufficienti. E il tavolo di trattative non parte. L’ultimo sabato di novembre si è svolta, a Roma, una grande manifestazione nazionale di tutti i lavoratori del settore: è stato il preludio a ulteriori iniziative?

Lo Stato è il peggior datore di lavoro di questo Paese. La Corte costituzionale ha dato indicazioni precise e ci sono le piattaforme delle categorie del pubblico impiego con cui si chiedono 150 euro di aumento. Non c’è bisogno di sedersi a un tavolo per rinnovare il contratto del pubblico impiego, possiamo farlo anche restando in piedi! Si deve mettere mano alla legge di stabilità anche per i trasferimenti a livello locale, perché le risorse stanziate, al momento, servono a comprare solo le caramelle. Stiamo avendo molta responsabilità: quella odierna è una manifestazione che non blocca il Paese, ma non ci costringano a fermarlo davvero. Noi vogliamo firmare i contratti del pubblico impiego a qualsiasi costo: spero che la Befana ci porti in dono i contratti, altrimenti ci sarà il carbone per qualcun altro. Se non ci saranno risposte, la prossima manifestazione sarà più adeguata alla necessità. A me gli scioperi non piace annunciarli, piace farli.

Intanto, Cgil, Cisl e Uil hanno ripreso il confronto per definire una proposta unitaria di modifica del sistema contrattuale da sottoporre successivamente alla Confindustria. A che punto siamo?

I Segretari confederali, con delega alla contrattazione, stanno facendo un lavoro serrato per definire una proposta comune. È arrivato il momento di trovare una soluzione unitaria da proporre alle controparti. Ritengo che si possa e si debba fare, perché i contratti delle categorie stanno andando avanti. È stata sconfitta la tentazione di non fare contratti e ora dobbiamo essere pronti a costruire il nuovo modello contrattuale.

La prossima iniziativa unitaria è sulle pensioni. Il 17 dicembre ci saranno tre manifestazioni di Cgil, Cisl e Uil, a Torino, Firenze e Bari. Qual è l’obiettivo?

Abbiamo chiesto di cambiare radicalmente la Fornero e di prevedere una flessibilità di accesso alla pensione con un range tra 63 e 70 anni: i lavoratori devono essere liberi di scegliere. Questo obiettivo è importante anche per ripristinare un positivo turnover nel mercato del lavoro. Inoltre, si continua a perseverare nell’errore di non separare la previdenza dall’assistenza e a considerare, erroneamente, la spesa per le pensioni pari al 15,7% del Pil. Se si attuasse, finalmente, quella distinzione, sarebbe evidente a tutti che la spesa pensionistica è pari a poco più dell’11% e, dunque, è sotto la media europea. Anche su questo fronte ci aspettiamo segnali concreti dal Governo.

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