Un atto di guerra contro la classe operaia
APRILE 2019
Inserto
Un atto di guerra contro la classe operaia
di   Piero Nenci

Ripensiamo al difficile 1979: l’anno in cui fu ucciso dalle Br il coraggioso Guido Rossa (“un vero atto di guerra contro la classe operaia”), in cui non si riusciva a mettere in piedi un governo, in cui la violenza politica (e d’altra matrice) continuava ad accanirsi contro chi compiva il proprio dovere di fedele servitore dello Stato. Per tutte queste vittime vogliamo deporre le nostre pietre d’inciampo, perché non venga dimenticato il sacrificio di nessuno di loro. Questo fu l’anno di vari casi politico-affaristici: Sindona, Banca d’Italia, Eni-Petromin, sentenza Lockheed. Fu un anno difficile anche per la Federazione sindacale unitaria, non solo per gli ostacoli che impedivano il rinnovo dei contratti per cui i lavoratori furono costretti ad un’aspra serie di lotte, ma soprattutto per l’iniziativa Fiat di voler espellere 61 dipendenti accusandoli di infedeltà e violenza. Fu anche l’anno dell’insediamento in Campidoglio di un sindaco comunista. Intanto esplodevano l’Iran e l’Afganistan e si affacciava il radicalismo islamico.

 

Una irreparabile crisi di governo, le conseguenti elezioni anticipate nel consueto polverone politico e la difficoltà a mettere insieme un nuovo esecutivo; l’assassinio di due magistrati, di un sindacalista, di un giornalista, di un ufficiale dei carabinieri, di un avvocato, di un politico, di un questore di polizia; un grande sciopero dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto; l’atto di forza della Fiat con le lettere di licenziamento a 61 operai accusati di infedeltà e violenza; l’arrivo in Campidoglio di un sindaco made Pci; i misteri del faccendiere Sindona; gli strascichi delle tangenti della Lockheed e il nuovo caso EniPetromin, la rivoluzione iraniana e il colpo di Stato in Afganistan. Tutto questo (e non solo) caratterizzò, 40 anni fa, il bollente 1979, quando ancora non si era spento il rammarico per l’assassinio di Aldo Moro e di tanti altri nell’anno precedente. Non è possibile dimenticare tutto questo. Mettiamo dunque anche noi alcune pietre d’inciampo perché l’Italia non venga fatta inciampare di nuovo in esperienze tanto devastanti. Soprattutto ora che ci appare molto più debole di allora.

 

Conoscemmo il fondamentalismo islamico

 

Il primo fatto notevole dell’anno fu – il 16 gennaio – l’abbandono dell’Iran da parte dello Scià Reza Pahlevi e di sua moglie Farah Diba, diretti  in esilio al Cairo. Lo Scià era figlio di Reza Khan che nel 1925, con l’appoggio dell’esercito aveva spodestato l’ultimo Scià dei Cagiari avviando una drastica modernizzazione del Paese che da Persia si era poi chiamato Iran. Negli anni ’50 era diventato primo ministro il capo del partito nazionalista Mossadeq che aveva nazionalizzato l’industria petrolifera, fatto non accettato da Usa, Gran Bretagna e compagnie petrolifere in genere. Seguì un colpo di Stato militare che pensionò Mossadeq e posizionò Baghdad in funzione antisovietica. Quindi una nuova fase di modernizzazione del Paese che comprese, tra le varie iniziative, una riforma agraria e la concessione del voto alle donne. Negli anni ’70 una violenta repressione delle opposizioni provocò un nuovo capovolgimento che fece fallire questa “riforma bianca”: il Paese fu scosso da violenti disordini, da grandi dimostrazioni e scioperi che lo paralizzarono e costrinsero lo Scià ad abbandonare l’Iran. E mentre Reza Pahlevi sale sull’aereo il popolo in rivolta abbatte la sua statua e la impicca ad un ponte. Il primo febbraio, dopo quindici anni d’esilio, dalla Francia tornò a Teheran il leader religioso ayatollah Khomeini accolto da milioni di fedeli osannanti; il nuovo leader religioso operò un altro capovolgimento del Paese fondando una repubblica islamica basata su rigidi principi sciiti: si aprirono i tribunali rivoluzionari islamici che imprigionarono, processarono e impiccarono un buon numero di personalità politiche e militari legate al caduto regime e pronti a mandare alla forca quanti volevano inquinare l’Islam con la modernità. Poi il 4 dicembre l’esercito degli studenti fedelissimi a Khomeini assaltò ed occupò la sede dell’ambasciata americana di Teheran tenendo prigionieri quanti vi trovarono, ambasciatore compreso, fino al gennaio 1981. Il primo teorico che ha interpretato la religione islamica facendone una ideologia militante antimoderna fu il pakistano Abul Ala Mawdudi: voleva salvare la società del suo tempo (quando era colonia britannica) dall’occidentalizzazione che giudicava il peggior nemico che mai l’Islam aveva dovuto affrontare. Chiamò i suoi connazionali, e tutti i musulmani, ad una lotta sacra contro la modernità in patria e all’estero. Questa jihad, anche armata, doveva diventare il sesto pilastro della religione fondata dal Profeta. Insomma Khomeini aveva la strada già tracciata: dato il segnale i suoi fedeli si scatenarono. Intanto in Italia, sempre quel 16 gennaio, Giovanni Ventura, uno degli imputati per la strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) fuggì da Catanzaro, sede del processo in cui lui e i suoi amici erano sotto giudizio, dove era in soggiorno obbligato, facendo perdere le sue tracce.

 

Il coraggio di un sindacalista Il secondo fatto che caratterizzò quel 1979 fu l’assassinio a Genova di Guido Rossa, operaio dell’Italsider, sindacalista della Federazione unitaria dei metalmeccanici e tesserato col Pci. Era un aggiustatore meccanico di 44 anni, sposato e aveva una figlia. Le Br gli hanno fatto pagare la sua militanza comunista, il suo impegno sindacale e il suo opporsi al terrorismo. Era infatti stato lui a scoprire e denunciare Francesco Berardi, impiegato nella medesima azienda. Lo hanno freddato il 24 gennaio dentro la sua 850, il mattino presto mentre si recava al lavoro. Da vario tempo ci si era accorti che dall’Italsider partivano le indicazioni per le azioni delle Br relative all’azienda: già mesi prima avevano sparato contro un dirigente, Rossa aveva capito che il tramite era Berardi (ex di Lotta Continua) il quale da operaio era stato promosso al ruolo impiegatizio. Rossa lo aveva scoperto con alcuni opuscoli delle Br, aveva convocato il Consiglio di fabbrica che aveva deciso di denunciarlo; si venne a capire anche che Berardi aveva annotato i numeri di targa delle auto di alcuni dirigenti, possibili obiettivi di futura violenza. Al processo per direttissima Rossa aveva avuto il coraggio di confermare pubblicamente la denuncia del CdF. Il Berardi fu condannato a quattro anni, licenziato e recluso a Novara. Ma con la sua testimonianza Rossa si era addossato la condanna occulta delle Br. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini partecipando al funerale del sindacalista ucciso gli conferì la medaglia d’oro al valore civile davanti a tutti i suoi compagni di lavoro e ad una folta rappresentanza della Federazione unitaria del metalmeccanici. “Il terrorismo, perduta ogni speranza di trovare un minimo di consenso nelle masse operaie del Paese ora spara su di esse”, scrisse Enzo Mattina Segretario dei metalmeccanici Uil. “Può apparire paradossale, mentre ancora la salma del compagno Rossa non è stata tumulata, affermare che il terrorismo e la violenza hanno perso la loro battaglia. E tuttavia è così perché la paura che volevano infondere non ha immobilizzato né la classe operaia, né il popolo italiano. La mala erba del terrorismo e della violenza è anche al nostro interno, nelle fabbriche, come la vicenda del compagno Rossa ha dimostrato. Non la lasceremo certo attecchire”. Pochi giorni dopo, parlando ad un comizio a Cagliari il Segretario Generale Uil Giorgio Benvenuto dichiarò: “Il terrorismo continua la sua ormai ininterrotta azione disgregatrice ed arriva a colpire direttamente la classe operaia, portando alle estreme conseguenze la strategia dell’avventura di cui si fa portatore. Dopo aver colpito politicamente la classe operaia oggi il terrorismo passa a colpirla fisicamente, smascherando così il senso vero, autentico della sua funzione”. La Federazione sindacale unitaria della Liguria proclamò subito uno sciopero generale esprimendo “la piena solidarietà e le più commosse condoglianze alla famiglia di Guido, delegato del CdF dell’Italsider. Questo efferato assassinio, a cui si aggiunge il ferimento di Giovanni Ferla, delegato del Consiglio unitario del Policlinico di Milano, rappresenta un’ulteriore fase nella strategia della tensione e dell’eversione rivolta a colpire direttamene gli esponenti più autentici della classe operaia”. “Con questo omicidio le Br hanno dimostrato quanto sono deboli – commentarono più tardi, a mente fredda i suoi colleghi del CdF – da una parte dovevano far fuori alla svelta Rossa perché tutti avessero paura. Dall’altra, però, dovevano prevedere la reazione che l’assassinio avrebbe suscitato fra gli operai. E la reazione è stata tanto grande e così piena di rabbia che per le Br forse era meglio lasciar vivo Guido. Non averla saputa prevedere, prova che le Br fra gli operai non hanno nessuno. Possono trovare in fabbrica delle orecchie ma sono orecchie sorde; sono stati incapaci di sentire che la denuncia aveva trovato consensi e aveva dato coraggio”.

 

La catena degli assassinii politici Sì fu proprio una lunga catena, cominciata negli anni precedenti (ricordiamo qui solo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta nel 1978) e continuata in quelli seguenti. Nel 1979 dopo Rossa toccò al giudice Emilio Alessandrini (Milano, 29 gennaio), anche lui ucciso perché dava fastidio ai gruppi eversivi di sinistra: la sua morte fu rivendicata dal gruppo Prima linea. Alessandrini era un pescarese, laureato a Napoli; aveva cominciato la carriera in magistratura a Bologna; nel 1968 era procuratore a Milano dove aveva indagato con efficacia sui gruppi eversivi di destra, poi gli era stato affidato il caso di Piazza Fontana e nel 1972 era passato ai reati finanziari, al contrabbando e ai traffici di vario genere di cui aveva presentato una documentata relazione, soprattutto riguardo alla criminalità politica in connessione con quella comune (convegno di Grottaferrata 1978). Era passato alle Commissioni consultive istituite al Ministero di Grazia e Giustizia per la riforma dei Codici e a Milano era gli era stato affidato il compito di segretario dell’Associazione nazionale magistrati. Era guardato con sospetto dagli eversori di sinistra per la sua capacità di indagine, anche perché aveva cominciato ad interessarsi, appunto, dei gruppi milanesi di Autonomia operaia in collaborazione col Collega Calogero che operava a Padova. La mattina del 29 gennaio fece appena in tempo ad accompagnare il figlio Marco alla scuola elementare che venne colpito da otto colpi di pistola. I terroristi lanciarono alcuni candelotti fumogeni per coprirsi la fuga e quindi telefonarono a la Repubblica per rivendicare la paternità dell’attentato. “Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che si lascia copiare il compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare, che non combina sciocchezze. Era un personaggio-simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli”, scrisse di lui Walter Tobagi che fu assassinato quasi allo stesso modo l’anno dopo. Proprio in quei giorni Alessandrini stava coordinando una ricerca su “Violenza armata e terrorismo come mezzo politico” affidatagli dal Cnr. Il nostro giornale si occupò di questi due assassinii sul numero del 26 gennaio. “Un atto di guerra contro la classe operaia”, fu il titolo. “L’assassinio di Guido Rossa ha segnato un salto di qualità, una svolta. Lo hanno ripetuto i duecentomila lavoratori che hanno sfilato per le vie di Genova. Ora il movimento operaio sa di essere diventato il bersaglio fisico del terrorismo”. E ricordando il giudice: “La morte di Alessandrini segue quella di Rossa: si è colpito chi con coraggio, coerente con la scelta di operare in senso riformatore, nelle fabbriche, nella giustizia, non ha creduto alla demonizzazione del terrorismo ma lo ha affrontato come un avversario che va sconfitto dalle ragioni delle scelte democratiche del Paese”. Il 29 marzo fu ucciso l’avvocato Italo Schettini, 58 anni, consigliere della Dc di Cosenza, per mandare un avvertimento al suo partito; sembra che nel gruppo di fuoco di quel giorno fossero presenti i capi stessi delle Br. Il 3 maggio la violenza politica si presentò a Roma quando un commando di una dozzina di brigatisti assaltò la sede del comitato regionale Dc di piazza Nicosia. Era da poco iniziata la campagna elettorale per le elezioni anticipate indette dal Presidente Pertini per risolvere una crisi di governo intricata e difficile quando i brigatisti attaccarono la sede Dc. Un gruppo restò di guardia all’esterno, un secondo gruppo salì negli uffici, arraffò schedari e documenti e collocò alcuni ordigni esplosivi. Accorse una pattuglia della polizia che fu accolta dal fuoco del gruppo rimasto all’esterno dell’edificio: il brigadiere Antonio Mea fu ucciso sul colpo, l’agente Pierino Ollanu morì una settimana più tardi per le ferite riportate e l’agente Vincenzo Ammirato rimase ferito in modo più leggero. Il 13 luglio la vittima fu il colonnello Antonio Varisco, uno zaratino di 52 anni, responsabile dei servizi alla magistratura: si occupava delle traduzioni e delle scorte ai carcerati. Le Br lo accusavano di particolare severità verso i loro compagni detenuti in modo che non potessero comunicare con l’esterno; seguirono la sua auto con un’altra macchina dalla quale spararono i pallettoni che lo uccisero: proprio sul lungo Tevere, vicino al monumento a Matteotti, lì dove nel 1924 i fascisti avevano massacrato l’esponente socialista. Il 27 ottobre la vittima dei terroristi fu Domenico Taverna; comandava la squadra di polizia giudiziaria del commissariato Appia nuova; aveva combattuto in Russia dove era stato ferito (aveva ancora una pallottola in una coscia); non si era mai occupato di politica o di terrorismo ed era vicino alla pensione. I brigatisti lo avevano scelto perché facile da colpire. Quella mattina, mentre scendeva in garage lo centrarono con otto proiettili alle spalle. Molto coraggiosi: doveva morire perché uomo dell’apparato dello Stato contro cui le Br avevano dichiarato guerra. Il 9 novembre la vittima fu un giovane poliziotto, un ragazzo di appena 24 anni, Michele Granato che aveva accompagnato a casa, in una via di Casalbruciato, la sua fidanzatina. Era un siciliano, aveva fatto il muratore, iscritto al Pci, poi entrato in polizia, assegnato al Commissariato di San Lorenzo: servitore dello Stato e quindi nemico di quegli esaltati delle Br. Il 21 novembre gli assassini tornarono a sparare a Genova, colpendo a Sampierdarena il maresciallo Vittorio Battaglini e il carabiniere Mario Tosa. Erano in servizio di pattuglia, scesi dall’auto di servizio erano entrati in un bar per un caffè e lì furono freddati; il primo aveva 44 anni, il secondo solo la metà. Il 7 dicembre fu la volta, a Roma, Mariano Romiti comandante della squadra di polizia giudiziaria di Centocelle. In borghese stava salendo su un autobus in via Casilina, alla fermata di Torre Spaccata, per recarsi in tribunale per testimoniare; un uomo ben conosciuto dai suoi perché era stato tra i fondatori del sindacato di polizia. La catena di morte di quell’anno ebbe un nuovo anello l’anno dopo: il 25 gennaio 1980 quando fu teso un agguato a Genova al colonnello Emanuele Tuttobene e al suo autista, l’appuntato Antonio Casu. Nella rivendicazione del doppio omicidio le Br dichiararono che l’ufficiale era il comandante della struttura di spionaggio dei carabinieri e dissero di voler vendicare la morte di Francesco Berardi, l’impiegato denunciato da Guido Rossa, che in carcere si era suicidato il 24 ottobre precedente. Le ricordiamo tutte queste vittime, ponendo per ognuna di esse la nostra “pietra d’inciampo”.

 

Altre vittime eccellenti La prima fu il giornalista Mino Pecorelli; fu ucciso nella sua auto la sera del 20 marzo. Era un molisano e aveva un passato degno di nota: durante la guerra, a 16 anni si era arruolato nel Corpo polacco che combatteva con gli alleati, aveva partecipato alla battaglia di Montecassino e successivamente a quelle nelle Marche. Dopo la guerra si trasferì a Palermo dove si laureò in legge, poi a Roma dove esercitò l’avvocatura divenendo esperto di cause fallimentari. Il ministro Dc Fiorentino Sullo lo volle come capo del suo ufficio stampa, quindi entrò nell’ambito del giornalismo e dal 1967 fece il giornalista a tempo pieno per varie testate specializzandosi negli scoop degli  ambienti politici. Poi si mise in proprio fondando l’agenzia di notizie OP, (Osservatore politico) che si  poteva avere solo in un abbonamento. Quando lavoravo alla Sala Stampa di piazza San Silvestro ricordo che chi non era abbonato a OP cercava di farsi passare qualche notizia o anche solo qualche particolare per via amicale al prezzo di un caffè al bar dai colleghi che avevano l’abbonamento. Ma Pecorelli, che il giorno dopo controllava tutti i maggiori quotidiani, se trovava qualche notizia che lui solo aveva dato, pubblicata anche da un giornale che non era abbonato al suo OP si attaccava al telefono e protestava col direttore. Cosa pubblicava questa agenzia (che poi fu trasformata in un periodico): pettegolezzi e retroscena della politica, intrallazzi tra politici e potere economico, comportamenti e dichiarazioni (più o meno veri) dei politici di maggior peso, fatterelli della loro vita privata (ad esempio della famiglia Leone), i retroscena dello scandalo dell’Italpetroli, l’esistenza di una loggia massonica vaticana e tante altre cose ancora. Pecorelli riuscì a scovare notizie particolari sulla vicenda Moro e marcò da vicino Andreotti e i suoi amici. Dopo la sua morte, della quale non fu mai scoperto vero motivo e autore (troppi i nemici che si era fatto), il suo nome fu trovato nelle liste della Loggia P2. Neppure la mafia stette tranquilla in quel turbolento 1979. Il 21 luglio il mafioso Leoluca Bagarella sparò a Boris Giuliano, 49 anni, capo della squadra mobile di Palermo mentre stava uscendo da un bar. Era un poliziotto solerte, era dotato di un particolare talento investigativo: troppo pericoloso per gli affaristi di mafia. Aveva indagato sul caso della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro e sull’attività mai del tutto chiarita del presidente dell’Eni Mattei. Nel ’79 era sulla pista di una valigetta gonfia di soldi, prezzo di una partita di eroina, non riuscì a completare l’indagine. A settembre la mafia rivolse la sua attenzione al giudice Cesare Terranova: aveva mandato a processo vari mafiosi come Angelo Labarbera e Pietro Torretta, era stato eletto alla Camera come indipendente nelle liste del Pci per tre legislature ed aveva lavorato nella commissione antimafia. Tornato in magistratura era passato alla Corte d’appello. La mattina del 25 settembre in auto si recava al suo lavoro affiancato dal maresciallo di Ps Lenin Mancuso: trovarono una strada sbarrata per lavori in corso, lì un gruppo di fuoco della mafia sparò. Terranova era temuto per quanto aveva dimostrato di saper fare e perché stava per diventare giudice istruttore.

 

Manette alla Banca d’Italia Questo titolo e titoli simili a questo apparvero sui giornali nei primi giorni di marzo, quando il governatore Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli vennero indagati dalla Procura di Roma con l’accusa di interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento personale. Il vicedirettore venne addirittura arrestato, il governatore evitò Regina Coeli solo per l’età avanzata. Fu un terremoto che scosse il Paese e sfiduciò la gente, in un contesto politico quanto mai difficile perché il governo era dimissionario. Anche la Banca d’Italia? ci si chiedeva. Perché la magistratura aveva colpito così in alto? Cosa c’era dietro: forse il caso Italcasse, forse i finanziamenti alla Sir di Rovelli? Il Ministro del tesoro Filippo Maria Pandolfi espresse il proprio stupore per quell’iniziativa della Procura, “devo testimoniare che la Banca d’Italia – disse – si è sempre comportata correttamente nel governo del credito”. Anche il Direttorio dell’Istituto si disse convinto che il comportamento della banca era stato “ineccepibile”. Due anni dopo Baffi e Sarcinelli vennero completamente scagionati e in seguito sorse il sospetto che l’incriminazione fosse stata suggerita dalla loggia massonica P2 per ostacolare Bankitalia dall’esplorare le carte del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Ma certo il colpo fu molto forte: chi voleva destabilizzare l’Italia? Tutto il Paese ci rimetteva, ma chi ci avrebbe guadagnato? Un alto fatto di Giustizia che esplose sulla stampa quell’anno fu il processo 7 aprile. Avviato dal Procuratore di Padova Pietro Calogero, questo processo indagò l’attività dell’intellighenzia dell’ultrasinistra che si denominava Autonomia operaia che la magistratura sospettava fosse il volto scoperto delle brigate rosse: centinaia di militanti furono indagati, molti arrestati e finirono sotto processo alcuni leader come Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone, Franco Piperno e Lanfranco Pace. Negri scriveva che “la parola d’ordine che possiamo produrre è: brucia, ragazzo, brucia”, che “la lotta di massa non è meno essenziale della lotta armata”, che “la giustizia proletaria si concentra e si esalta dentro l’asse fondamentale di azione che è la lotta armata”. Pace e Piperno sfuggirono all’arresto e in seguito accusarono la Federazione giovanile del Pci di aver suggerito ai giudici le persone da arrestare. Negri fu accusato d’essere l’ideologo delle Br, fu assolto per mancanza di prove, riarrestato e rilasciato dopo l’elezione in Parlamento. Anche Vesce entrò in Parlamento tra le file dei Radicali. Altri ebbero pene di tre o quattro anni. Fu, tutto sommato, una gran confusione; si capì che lo Stato cercava di difendersi e di salvare la democrazia ma non tutte le procedure erano state limpide e gli imputati (e i loro agguerriti avvocati) erano riusciti a erodere le certezze dell’accusa. Intervenne anche Amnesty International ad accusare le autorità italiane di numerose irregolarità nei procedimenti e di eccessive carcerazioni preventive.

 

L’avventura sindoniana

 

In questo 1979 ebbe termine anche la lunga e complessa carriera finanziaria dell’avvocato messinese Michele Sindona. Per raccontarla correttamente occorrerebbero troppe pagine, ci atterremo solo ad alcuni tratti essenziali. Arrivato a Milano nel 1946, aprì uno studio di consulenza tributaria diventando presto il commercialista di grosse società del dopoguerra. Altra sua proficua attività fu la speculazione in Borsa, favorita da una sfacciata fortuna. Negli anni 60 introdusse a Piazza Affari il sistema delle Opa Usa e diventò anche fiscalista di grossi nomi della mafia italo-americana. Nel 1961 si appropria di un primo istituto di credito – la Banca privata finanziaria – che pochi anni dopo l’Interpol di New York indaga per riciclaggio di denaro sporco. Tramite la sua holding lussemburghese Fasco fa nuove acquisizioni e nel ’69 comincia a lavorare con lo Ior del Vaticano. Passa di successo in successo, fino al 1971 quando fallì l’Opa sulla Bastogi finanziaria che controllava pacchetti azionari di alcune società importanti di quegli anni. Il suo disegno di una “finanziaria bianca” legata ad Andreotti e Piccoli e benedetta dal Vaticano, ma avversata da Rumor, Colombo e La Malfa, che avrebbe portato Sindona a sostituire Enrico Cuccia a Mediobanca (così è stato scritto da Nick Tosches), va in pezzi. Tuttavia Sindona ha fortuna con l’acquisizione della Franklin national bank e con esiti positivi in altre operazioni su aziende italiane ed estere, tanto che nel 1974 viene definito da Giulio Andreotti “difensore della lira”e dall’ambasciatore Usa in Italia, John Volpe, “uomo dell’anno”. Pochi mesi dopo un brutto crollo in borsa gli falcidia il 98% dei profitti della Franklin: Sindona accusa una perdita di 40 milioni di dollari, è costretto a cedere parecchie acquisizioni e ad ottobre la sua banca viene dichiarata insolvente per frode e cattiva gestione. La Banca d’Italia che da alcuni anni stava seguendo con attenzione le sue attività finanziarie bloccò tutte le sue operazioni e nominò un commissario nella persona del coraggioso avvocato milanese Giorgio Ambrosoli che scoprì facilmente una serie di irregolarità e falsità nelle attività della Banca privata di Sindona. L’avvocato Ambrosoli fu presto raggiunto da tentativi di corruzione perché non ostacolasse il salvataggio della banca di Sindona; li respinse e allora gli arrivarono chiare minacce e l’11 luglio fu assassinato. Il mese dopo, improvvisamente, Sindona scomparve dalla sua dorata residenza di New York: circolarono false notizie di sequestro e anche di morte, invece il banchiere siculo con documenti falsi era sbarcato a Vienna, aveva proseguito per Atene e Brindisi e si era rifugiato in casa di un mafioso in provincia di Palermo. Da dove aveva tentato di salvarsi offrendo al governo italiano una copiosa documentazione su numerosi evasori fiscali e facendo incendiare il portone di casa del presidente di Mediobanca per intimidirlo. Ma era ormai in uomo bruciato e anche la mafia lo abbandonò. Ad ottobre tornò sulla scena: si fece (o fu fatto) trovare in una cabina telefonica di New York e arrestato. Nel 1980 il tribunale federale di Manhattan lo multò di duecentomila dollari e lo condannò a 25 anni di carcere; quattro anni dopo l’Italia ottenne la sua estradizione temporanea per processarlo per i reati compiuti in patria e qui fu condannato a 12 anni per frode e ad un risarcimento di 2 miliardi di lire ai liquidatori della Banca privata finanziaria. Fu riprocessato l’anno dopo anche come mandante dell’omicidio dell’avvocato Ambrosoli e condannato all’ergastolo. Due giorni dopo la sentenza, il 20 marzo 1986, nel carcere di Voghera dove era detenuto, fu avvelenato da una dose di cianuro di potassio. Non poté dunque essere ricondotto negli Usa dove avrebbe dovuto scontare la prima pena di 25 anni. Da qui si nacque una nuova leggenda: si sarebbe avvelenato da solo con una dose non letale per farsi rimandare subito negli Usa e la bustina gli sarebbe stata fornita da Andreotti; dopo il breve malore avrebbe dovuto riprendersi e allora gli Usa avrebbero preteso la restituzione del loro condannato che, allontanato dall’Italia, non avrebbe mai rivelato retroscena troppo compromettenti per la Dc e i suoi amici, da anni invischiati in intrallazzi di ogni genere. Invece quella dose fu letale.

 

Il pesce del primo aprile Ma riprendiamo i fatti del 1979: il quinto governo Andreotti fu bocciato in Senato per un solo voto il primo giorno di aprile; per la fiducia erano necessari 150 sì, ne raccolse solo 149. Fra i 22 senatori assenti al momento del voto tre erano Dc (e uno era un sottosegretario), due socialdemocratici (lo stesso Saragat) e uno repubblicano (il Nobel Eugenio Montale). Il 31 gennaio Andreotti aveva già presentato le dimissioni del precedente governo che reggeva (era il IV, il famoso governo di unità nazionale che aveva avuto il sostegno del non voto comunista) dal marzo dell’anno precedente e che aveva governato durante tutta la vicenda di Aldo Moro. Il Presidente Pertini convocò subito i presidenti dei due rami del Parlamento Fanfani e Ingrao, si era consultato con loro poi aveva chiamato Ugo La Malfa perché procedesse al tentativo di mettere insieme una nuova compagine governativa ma il primo marzo anche La Malfa non aveva trovato una soluzione e aveva rinunciato (e poche settimane dopo improvvisamente fu colpito da un’emorragia cerebrale e morì), per cui Pertini aveva invitato Andreotti a riprovarci di nuovo. Dunque dopo la bocciatura del primo aprile a Pertini non restò altro da fare che sciogliere le Camere e dichiarare chiusa la settima legislatura. Si andò al voto il 3 e 4 giugno, l’affluenza fu vicina al 91%. Alla Dc andarono 262 seggi alla Camera e 138 al Senato. Il Pci perse 26 seggi alla Camera e 7 al Senato per cui era presente con 201 deputati e 199 senatori. Il Psi 62 deputati (+ 5) e 32 senatori (+ 3). La campagna elettorale non fu facile, come difficile era tutto quell’anno: la Dc soffriva per la mancanza del sostegno del grande tessitore Aldo Moro, al Pri era venuto a mancare il suo capo storico, il Psdi aveva accusato l’arresto del suo ex segretario Tanassi coinvolto nell’affare Lockheed, Enrico Berlinguer voleva far entrare nel governo il Pci ma intanto continuava a polemizzare con asprezza con la Dc; il vero protagonista di quella campagna elettorale – si scrisse – fu Marco Pannella che riuscì a raccogliere le adesioni di ex parlamentari comunisti e socialisti, di ex dirigenti di Lotta Continua e di noti intellettuali e arrivò a conquistare 18 seggi alla Camera (+ 14) e 2 in Senato (+2). Il Presidente Pertini affidò l’incarico di formare il nuovo governo al segretario del Psi Bettino Craxi che dopo una esplorazione rifiutò l’incarico; che venne passato al Dc Filippo Maria Pandolfi che a sua volta rinunciò; il terzo chiamato fu Francesco Cossiga che in soli due giorni riuscì ad ottenere il sostegno del suo partito, del Psli e del Pli e il 4 agosto sciolse la riserva. Erano passati 6 mesi dalla crisi del 31 gennaio quando Andreotti aveva presentato le prime dimissioni.

 

Il lavorio del sindacato sulla via dell’unità A metà febbraio la Federazione sindacale unitaria riunì a Roma i suoi Consigli generali per una rilettura, un approfondimento e un aggiornamento della famosa linea dell’Eur che gli imprenditori lamentavano non venisse rispettata in concreto nei luoghi di lavoro. Da quella linea – disse Benvenuto – siamo tutti d’accordo che non si può arretrare: “tale convinzione corrisponde alla convinzione che se l’unità è la scelta dei tempi buoni, la rottura non può comunque essere la scelta (o il rimedio) dei tempi cattivi”. Tempi difficili, certo, questi – aggiunse il segretario generale della Uil – perché siamo nel pieno di una crisi politica che potrebbe comportare il rischio di una radicalizzazione dello scontro e potremmo “essere costretti a subire le conseguenze negative delle rottura dell’unità nazionale senza aver avuto la possibilità di coglierne le implicazioni positive”. Il dibattito fu lungo e articolato; basta sfogliare le pagine di Lavoro Italiano di quel periodo per ritrovare decine e decine di interventi, di pareri e di proposte. Alla fine venne stilato un Documento sull’unità sindacale che oggi appare di non facile lettura. La Federazione unitaria doveva “mostrare un ruolo di presenza autonoma del movimento sindacale nella dialettica politica e sociale”; intanto  dichiarava che il ricorso ad elezioni anticipate sarebbe stato “in contrasto con le esigenze reali del Paese e con gli obiettivi del movimento sindacale”, che restavano sempre validi i motivi di sostegno del sindacato per “la formazione per un quadro di collaborazione e solidarietà democratica che non va lacerata definitivamente ma, al contrario, ricomposta ed espressa con gli equilibri più idonei e avanzati che la situazione consente”. Il sindacato si riproponeva quindi “da protagonista in questa fase politica per esprimere le esigenze di cambiamento dei lavoratori”, come aveva dimostrato il 2 febbraio durante la manifestazione di Genova per l’uccisione di Guido Rossa. La Federazione invitava le forze politiche a studiare la “Piattaforma dell’Eur”non solo perché forniva una risposta, ampia e compiuta sui problemi del momento ma anche perché rafforzava “il ruolo del sindacato come soggetto in grado di elaborare autonomamente e di presentare una proposta generale”. Il documento indicava quindi alle strutture del sindacato gli indirizzi per continuare e compiere l’unità del sindacato, secondo una impostazione “realistica e praticabile che superi sia l’ipotesi iniziale di unità organica, sia l’assuefazione all’attuale assetto federativo”. La Festa del lavoro del Primo maggio le tre Confederazioni sindacali pubblicarono questo appello: “Rinnoviamo il nostro impegno per la pace, contro lo sfruttamento e l’emarginazione, per la libertà e la democrazia di tutti i popoli”; sulle questioni interne la Federazione unitaria espresse la sua “più ferma condanna contro il terrorismo ed ogni forma di violenza”e ribadì il proposito di “affrontare e risolvere alla radice gli squilibri storici del Paese, a cominciare  dal Mezzogiorno e dall’occupazione”. Per dare maggior vigore a questo messaggio i tre Segretari Generali decisero di portarlo personalmente in tutto il Paese: Lama tenne il comizio a piazza del Duomo a Milano, Carniti (appena eletto Segretario Generale della Cisl) lo tenne a Firenze e Benvenuto a Torino; tutti i membri delle segreterie delle tre organizzazioni furono in missione in altre città. Il medesimo tema venne quindi svolto in modo unanime in tutta Italia. Fu un segnale di grande forza e di volontà unitaria del sindacato.

 

Il nodo dei rinnovi contrattuali Tuttavia la forza d’urto dei lavoratori andò in gran parte a vuoto perché a quella data il Paese non aveva ancora un governo. I sindacati si dovettero quindi mobilitare di nuovo e indissero per il 19 giugno uno sciopero generale “per sbloccare i contratti”. Lavoro Italiano sottolineò che una mobilitazione di tutti sul medesimo tema era stata fatta anche nel 1962 e di nuovo nel 1975 con Lama a Bologna, Marini a Bari e Ravenna a Milano a capeggiare le manifestazioni di maggior rilievo. Subito dopo – il 22 giugno – scesero in piazza i metalmeccanici. Scrisse il giornale della Uil: “La ragione vera di questa grande giornata di mobilitazione  sta nel fatto che da parte degli industriali, da parte del governo per i dipendenti pubblici, da parte dello schieramento politico-sociale interpretato dal  presidente di Confindustria Guido Carli – con la teorizzazione della ‘centralità dell’impresa’ – si sta conducendo una battaglia che mira essenzialmente, se non esclusivamente, a ridimensionare il potere sindacale nelle aziende e il potere politico del movimento sindacale nella società”. Su la Repubblica la giornalista Vittoria Sivo scrisse che i metalmeccanici avevano “riscoperto una combattività che negli ultimi anni sembrava appannata”; sembrava essere tornati agli anni sessanta: quasi nessuna provocazione dall’Autonomia, grande folla con la presenza anche dei figli piccoli e nessun negozio che aveva abbassato le saracinesche. Ma tutto questo non servì; allora il 4 luglio i metalmeccanici si mossero di nuovo con altre manifestazioni, cortei, blocchi stradali, occupazione di suolo pubblico: si era votato, il quadro politico generale era stato ridisegnato, che venisse fatto subito un nuovo governo, che si rinnovassero subito i contratti. Questa nuova spinta ebbe almeno un effetto immediato: il 9 luglio, dopo una trattativa protrattasi per 27 ore, con l’Intersind (che rappresentava le industrie pubbliche) era stata raggiunta per i metalmeccanici una prima intesa sull’orario di lavoro; poi erano stati affrontati gli altri capitoli e finalmente a fine mese era stato siglato il nuovo contatto: 20 mila lire d’aumento, nuovi parametri, scatti di anzianità, orario ecc. Ora toccava ai chimici poi agli altri settori: la strada era stata aperta e anche l’imprenditoria privata avrebbe fatto la sua parte. Insediato a palazzo Chigi il nuovo Presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, la lenta macchina dello Stato riprende a muoversi: ma ad inizio ottobre, quando si cominciano a delineare i problemi del confronto con l’esecutivo – fisco, tariffe, inflazione, politica della casa ecc. – scoppia la bomba Fiat.

 

La bomba Fiat

 

L’11 ottobre l’azienda torinese inviò 61 lettere di “sospensione cautelativa” a 61 suoi dipendenti. Correvano sospetti e voci già da una settimana; poi si seppe: 61 dipendenti – tra loro quattro esperti sindacali ma nessun delegato – erano accusati di aver tenuto “un costante comportamento contrario ai principi basilari del rapporto di lavoro”. La Fiat li sospende cautelativamente “per atti che recano grave nocumento” all’azienda. Alcuni di loro operano a Mirafiori, altri a Rivalta ed altri alla Lancia di Chivasso. Hanno sei giorni di tempo per presentare ricorso. Il comunicato aziendale fa riferimento a prestazioni di lavoro non rispondenti ai principi della diligenza, correttezza, buona fede. Nessuno di loro è accusato di terrorismo e tuttavia la Fiat parla apertamente di terrorismo diffuso e clima di intimidazione: negli ultimi quattro anni sono stati uccisi tre dirigenti, 19 sono stati aggrediti o feriti, decine di auto di dirigenti o di capi sono state incendiate e gli atti di intimidazione sono ormai all’ordine del giorno. I fatti sono sotto gli occhi di tutti: Ettore Amerio, capo del personale, sequestrato nel 1973, Carlo Ghiglieno assassinato il 21 settembre, Cesare Varetto ferito pochi giorni dopo. La Fiat non intende accusare il sindacato ma solo una serie di comportamenti non più tollerabili che rendono l’azienda ingovernabile; questa catena di violenza quotidiana non è più sopportabile. I vertici Fiat hanno incontrato i dirigenti di Mirafiori dopo il ferimento di Varetto ed hanno registrato un grande malcontento. Prima di inviare queste lettere l’azienda aveva avvertito sia il governo che le organizzazioni dei metalmeccanici. La Flm ha risposto alla Fiat di denunciare gli eventuali colpevoli, non di licenziarli senza che ne siano stati chiariti i motivi; l’Unità ha pubblicato una cosa analoga: se quanto dice la Fiat è vero, invece di inviare le lettere avrebbe dovuto denunciare le persone accusate all’autorità giudiziaria. Il sindaco della città si è detto sconcertato per la genericità delle accuse contro i sospesi. I lavoratori hanno risposto all’azienda con una serie di brevi scioperi. Io che scrivo queste cose possono aggiungere la testimonianza di un giovane che a Mirafiori in quegli anni era a capo di una squadra di lavoro: aveva studiato, era intelligente e pieno di buona volontà ma la squadra che gli avevano assegnato non rispondeva agli impegni: troppe lentezze, troppe imprecisioni, errori non corretti, perdite di tempo, piccoli sabotaggi, consegne in ritardo e ogni sia pur gentile richiamo causa di alterchi, offese e minacce. Quando ti dicono: so qual è la tua macchina, guarda che so dove abiti, lo sai che conosco la tua famiglia, hai sentito cosa è successo al tale; il tutto condito da bestemmie e volgarità; quando ti succede questo per mesi e mesi che fai? E quando riesci a farti assegnare ad un’altra squadra ma ti continuano a minacciare perché sei un servo degli Agnelli, un leccaculo del capo, una spia del direttore, quando ti dicono che ti capiterà qualcosa di brutto, cosa ti resta da fare? Quel giovane caposquadra si è licenziato, è andato a cercare un altro lavoro. “Un conto sono le lotte legittime che il sindacato può organizzare in fabbrica e un altro è lo stillicidio di violenza organizzata che gradualmente porta alle spiagge pericolose del terrorismo: le telefonate intimidatorie a casa dei capi, le loro auto bruciate, gli insulti, gli sbeffeggiamenti. Allora noi diciamo che se effettivamente questo sindacato è forte ed ha un ruolo di guida del movimento può e deve intervenire. Senza aprire una caccia alle streghe, ma solo facendo il proprio dovere. E a chi ci obietta che queste sono tentazioni antisindacali rispondiamo che è solo bisogno di chiarezza”. Così disse un dirigente Fiat un noto giornalista de la Repubblica.

 

Le risposte della Uilm e della Fiom Non fu facile per il sindacato rispondere all’atto della Fiat, stretto com’era “tra il partito armato e quello dell’ordine”. Scrisse il Segretario di allora dei metalmeccanici Uil, Enzo Mattina: “l’ordine che  oggi la dirigenza Fiat invoca come giustificazione dei licenziamenti è sommario ed arbitrario”; l’azienda vuol solo dimostrare chi comanda, i licenziamenti non servono a ristabilire una normalità democratica, la Fiat non si fida delle regole democratiche e sceglie la giustizia privata. In un paio di giorni abbiamo assistito al tentativo di “liquidare d’un colpo il sistema di garanzie degli imputati, la legge sulla giusta causa dei licenziandi, le norme sul collocamento ma la delinquenza non si combatte con l’illegalità; questo è il punto del nostro dissenso profondo con il modello d’ordine della Fiat”. Mattina aggiunse: “Non neghiamo che la violenza esiste, che esiste il terrorismo, che l’una e l’altro siano presenti in fabbrica, che entrambe  vadano combattute in fabbrica come nel Paese”; ammette: “forse non siamo stati all’altezza dell’azione di prevenzione rispetto ai fenomeni di violenza diffusa che talvolta si manifestano nelle fabbriche, su questo terreno possiamo e dobbiamo intervenire” perché “il movimento di classe non deve offrire alcun alibi ad operazioni liberticide”. I dissidenti vanno conquistati politicamente attraverso una efficace dialettica, senza ricorrere a forme di costrizione, va introdotto un ruolo diverso coi capi,  va ripensato il loro ruolo e i modi di esercizio della loro funzione. Non c’è un’altra strada: il sindacato non può fare il poliziotto, non può accettare la giustizia sommaria che la Fiat vorrebbe imporre. “Mai come oggi ci è parso indispensabile serbare integro il nostro potere contrattuale contro le tentazioni e restringere i margini di iniziativa democratica perché in nessun caso vogliamo affidare allo scontro armato, come pretendono le Br, l’unica possibilità di cambiamento del Paese”. Il parere della Fiom lo possiamo leggere in una intervista di Repubblica. Disse l’allora segretario generale aggiunto Ottaviano Del Turco che il sindacato confederale aveva bisogno di abolire un linguaggio ‘guerresco’ d’altri tempi; insomma attenti a quando paliamo perché “il nostro linguaggio può diventare il veicolo attraverso il quale il lavoratore si sente autorizzato a tradurre in atti violenti la violenza delle parole”. Durante alcuni cortei per il rinnovo dei contratti alcuni capisquadra e capireparto furono costretti a sfilare con gli operai: “forma brutale di violenza fisica e morale”, risponde il sindacalista, “chiunque pratica queste o altre forme di lotta esasperate in fabbrica non ha diritto alla tutela del sindacato, si faccia tutelare da chi condivide questi metodi”. Naturalmente il sindacato non abbandonò i 61 che per godere della difesa da parte del collegio sindacale furono invitati a sottoscrivere una dichiarazione di non condivisione di atti di terrorismo, sopraffazione e intimidazione e di accettazione dei valori patrimonio del sindacato. Cinquanta firmarono, gli altri 11 pur sottoscrivendoli criticarono la pretesa del sindacato come “un ricatto inaccettabile” per cui furono difesi da un collegio alternativo e uno non accettò neppure il ricorso.

 

Altri fatti

 

Ma nel 1979 capitarono anche molti altri fatti, per i quali purtroppo è rimasto poco spazio e qui racconteremo per sommi capi. Il 23 febbraio, dopo dieci anni dalla strage di piazza Fontana a Milano, dopo 25 mesi di processo e tre giorni e mezzo di Camera di Consiglio, la Corte d’assise di Catanzaro emette il verdetto e i tre principali imputati – Giannettini, Freda e Ventura – vengono condannati all’ergastolo. Il primo marzo, la Corte costituzionale, dopo 23 giorni di Camera di consiglio, emette verdetto e sentenza, senza possibilità d’appello, sullo scandalo Lockeheed. Questa azienda americana aveva versato corpose tangenti perché l’aeronautica italiana acquistasse i suoi cargo C130 Hercules; in quegli anni varie aziende Usa si erano fatte concorrenza in maniera illecita in Europa per collocare i loro costosi prodotti. Furono scoperte e messe sotto inchiesta dalla magistratura americana e, naturalmente, si ebbero immediate ripercussioni nei Paesi europei dove quei prodotti erano stati acquistati. In Italia furono chiamati in causa il Presidente del Consiglio Mariano Rumor, l’allora ministro della difesa Luigi Guy e poi il suo successore Mario Tanassi (Psdi), il Generale dell’arma aerea Duilio Fanali, l’ex Presidente di Finmeccanica Camillo Crociani ed altri. Si alzò un gran polverone, si svolse un focoso dibattito in Parlamento dove tutta la Dc fu messa sotto accusa per corruzione e a difenderla si presentò Moro stesso che gridò: “La Dc non si farà processare sulle piazze”. Ne restò toccato lo stesso Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Poi tutto l’affare finì sotto la competenza della Costituzionale che il primo marzo 1979 assolse Guy ma condannò Tanassi, Fanali e Crociani. Né quello fu l’unico affare tangentato poiché a dicembre scoppiò lo scandalo Eni-Petromin che costrinse alle dimissioni l’allora presidente dell’ente petrolifero italiano Giorgio Mazzanti, l’Eni pagò una mancia del 7 per cento per un vantaggioso contratto petrolifero con la società dello Stato Saudita. Lo scandalo esplose in Arabia e subito si ripercosse da noi. Mazzanti fu sospeso e si dovette dimettere (ma in seguito fu giudicato incolpevole) e sull’affare il Presidente del Consiglio Cossiga appose il segreto di Stato. In seguito si seppe che quella tangente era finita nelle tasche dei sauditi ma in Italia si continuò a far credere che era servita per finanziare i partiti nostrani. L’anno si stava concludendo quando improvvisamente il 24 dicembre l’Urss decise di invadere l’Afganistan (fu, si disse poi, il suo Vietnam). L’anno prima il partito democratico popolare afgano aveva operato un colpo di Stato: uccise il Presidente Mohammed Khan, fautore di una politica progressista, e lo sostituì con Mohammed Taraki instaurando la Repubblica democratica dell’Afganistan. Ma Taraki non era gradito alle autorità religiose perché il suo programma prevedeva una laicizzazione dello Stato di stampo socialista: la riforma agraria, la scolarizzazione dei giovani, l’abolizione del burka per le donne e la loro partecipazione al voto. Le gerarchie religiose risposero con la resistenza armata capeggiata dai combattenti per la fede (mujaheddin), il governo li fronteggiò con la forza e da Mosca arrivarono circa tremila consiglieri militari. A gennaio 1979 si ebbero i primi scontri tra mujaheddin ed esercito e ad Herat scoppiò una rivolta che fece vittime anche tra i consiglieri russi. Il governo rispose con un bombardamento che fece migliaia di morti ma rafforzò ulteriormente la resistenza (col sostegno di Iran e Pakistan). A quel punto entrò in gioco il Presidente americano Carter appoggiando la rivolta in funzione antisovietica. A settembre prese improvvisamene il potere in funzione filoamericana Hafizullah Amin e Taraki fu assassinato. Il nuovo presidente fece concessioni alle autorità religiose ma allo stesso tempo inasprì la repressione dei ribelli e rifiutò l’aiuto di Mosca. A dicembre fu ucciso un altro consigliere russo e siccome Mosca temeva un contagio di ribellione islamica anche nelle limitrofe repubbliche dell’Asia centrale, decise l’invasione dell’armata rossa: Amin venne eliminato e sostituito da Babrak Karmal. La reazione americana fu immediata: un embargo contro l’Afganistan e offerte di aiuti militari al Pakistan per contrastare l’invasione russa. L’anno successivo arrivò alla Casa Bianca Donald Reagan che aumentò gli aiuti ai combattenti anti-sovietici: Mosca avrebbe dovuto patire in Afganistan quanto gli americani avevano subito in Vietnam. Intanto però i mujaheddin ebbero il sostegno dei pasdaran iraniani e l’aiuto dell’Arabia Saudita e tra loro crebbe il famoso Osama bin Laden. La situazione si trascinò fino all’arrivo di Gorbaciov nel 1985, da subito disposto a porre fine alla guerra con un trattato di pace suggellato a Ginevra nel 1988. Ma qui noi poniamo la conclusione di questa carrellata sul difficile 1979. Riproponiamo quanto abbiamo trovato scritto sugli ultimi numeri di Lavoro Italiano pubblicati quell’anno: 30 novembre, “Ancora in sciopero per stanare il governo: dal 29 novembre al 12 dicembre tutte le categorie sono impegnate in uno sciopero articolato di quattro ore, indetto dalla Federazione unitaria; il sindacato è costretto ad incalzare il governo in modo sempre più deciso, per costringerlo ad assumere decisioni coerenti nella gestione della politica economica del Paese. Il programmato Direttivo unitario del 18 dicembre valuterà la situazione, anche in relazione ad eventuali risposte del governo”. 14 dicembre, “La crisi, oltre che approfondirsi, sembra si vada sempre più estendendo nel tessuto politicosociale del Paese; in tale situazione il sindacato non può più responsabilmente accettare – come pure sembra che qualcuno desideri – di ‘chiamarsi fuori’ e non può neanche concedersi pause natalizie. Lo esige la costante mobilitazione dei lavoratori”. Parole che si potrebbero riproporre anche oggi, perché sotto molti aspetti il 2019 sembra rispecchiare il vecchio 1979. Infine non possiamo dimenticare l’arrivo in Campidoglio del primo sindacato targato Pci, il simpatico e votatissimo Luigi Petroselli che tentò di promuovere a città tutte le periferie della capitale. Un sindaco comunista a capo della città del Papa!, qualcuno si indignò. Era succeduto al prof. Carlo Argan (anche lui eletto coi voti comunisti ma come indipendente) dimessosi per motivi di salute che in un’ultima intervista aveva accusato il governo di non rendersi conto di dover sostenere la propria capitale e rimproverato i romani “incorreggibili: per loro sporcare sembra essere non un diritto, ma quasi un dovere”. Come oggi.

 

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Note

 

Raffaele Russo, Atlante dell’Islam, Giunti 2001

Enzo Mattina, Avanti!, 27 gennaio 1979

Giorgio Benvenuto, Agenzia unitaria sindacale, 26-27  gennaio  1979 Flm ligure, Ausi, 26-27  gennaio  1979

Il Cdf dell’Italsider in la Repubblica, 9  novembre  1979

W. Tobagi, Corriere della Sera, 30 gennaio 1979 Salvatore Tropea, la Repubblica, 21 settembre 1979

 

Enzo Mattina, in Lavoro Italiano, 12 ottobre 1979 Ottaviano Del Turco, in la Repubblica, 13 ottobre 1979 Carlo Argan, in la Repubblica, 5 settembre 1979

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