Il precariato fa notizia
OTTOBRE 2018
Sindacale
Il precariato fa notizia
di   Sonia Ostrica

 

Non passa praticamente giorno senza che i mezzi di informazione dedichino pagine alla condizione di precarietà vissuta nella ricerca e nell’alta formazione. Storie di professionalità ed eccellenza svilite da anni di contratti a termine, senza sicurezza né prospettive certe per il futuro. Storie di emigrazione in Paesi capaci di garantire stabilità e riconoscimento delle competenze. Storie dei tanti che, nonostante tutto, restano e resistono, dando un contributo decisivo per il funzionamento e la stessa sopravvivenza delle nostre Istituzioni scientifiche ed accademiche, spesso con contratti di pochi euro, spesso continuando a lavorare come “volontari” a contratto scaduto, nella speranza del successivo. Queste storie destano sdegno in tutti noi, perché mostrano quanto sia basso oggi (per non dire inesistente) nelle Università, negli Enti di Ricerca e nell’AFAM il grado di tutele e di diritti dei precari e come siano diffusi fenomeni di sfruttamento del lavoro.

In ogni occasione, di fronte all’ennesima storia, è amaro constatare quanto il nostro Paese non sappia valorizzare una parte consistente della propria ricchezza, quel “capitale umano” frutto di ingenti investimenti pluriennali - di Stato e famiglie - in alta formazione, e disperda risorse umane invidiate per la capacità, trasversalmente riconosciuta, dei nostri ricercatori. Quanto sia radicata questa condizione è testimoniato dallo stesso senso comune, ben al di là dei confini dei nostri settori. Ricerca e precariato sono trattati come concetti complementari e strettamente compenetrati: quasi un sinonimo. Anzi, precario non è ormai solo il singolo ricercatore con il “contrattino”: precario è l’Ente di Ricerca nel suo insieme, precaria è l’Università tutta. Precaria è una intera generazione di studiosi e laureati, giovani e meno giovani, che nel suo complesso è diventata un “fenomeno” tipico e strutturale della nostra società. Un fenomeno tanto condiviso ed evidente da essere trattato perfino in chiave cinematografica, in una trilogia di film di grande successo (“Smetto quando voglio”).

I racconti di queste storie danno certamente il senso di quanto sia grave la situazione. Ma allo stesso tempo, avvertiamo il rischio che la precarietà nella ricerca e nell’alta formazione siano ormai considerati come un fatto acquisito, che sicuramente scuote le coscienze ma che al contempo sembra ineluttabile. Certo, si continua a denunciare quanto il precariato costi in termini di ingiustizia sociale e di perdita di opportunità di sviluppo per il Paese: ma al tempo stesso abbiamo introiettato questa stortura come una cosa normale, a cui “non c’è rimedio”. A nostro parere, questa situazione non è il frutto del fato, né tantomeno può essere ritenuta ovvia e necessaria. Va sottolineato, ancora una volta, che il caso italiano non trova analogie in altri Paesi ad economia avanzata (e neanche in molti altri tra cui quelli emergenti), nei quali si registrano in media maggiori volumi di investimenti in ricerca, innovazione e alta formazione (anche durante tempi di crisi), numeri più elevati di addetti, maggiori capacità di implementare attività di ricerca, livelli salariali più elevati. Come sostenuto in altre occasioni, la condizione attuale della ricerca e dell’alta formazione universitaria italiana è stata determinata da una serie di scelte politiche.

Sinteticamente, in primo luogo hanno sicuramente inciso una serie di interventi sul mercato del lavoro, atti a introdurre contratti “più flessibili”, a termine, con minori tutele e minori salari, nel settore privato come in quello pubblico. A ciò si sono aggiunte le misure tese a contenere la spesa pubblica: spending review, taglio dei finanziamenti nei bilanci delle amministrazioni, blocco delle assunzioni, blocco del rinnovo del contratto nazionale. Una serie di prese di posizioni nel dibattito politico e culturale nell’ultimo decennio hanno poi fatto il resto. Da diverse parti si è voluto rappresentare in buona sostanza tutta la ricerca e l’università pubblica come soggetti inefficienti (se non addirittura inutili) e da riformare, intervenendo sui loro assetti e riducendo le risorse finanziarie per le attività istituzionali.

Secondo questi orientamenti politici, ad esempio, la cultura è diventata un lusso che non ci si può permettere in tempo di crisi. Ovvero, ha cominciato a farsi strada l’idea che l’essere ricercatori sia una “avventura”, intrinsecamente incompatibile anzi antitetica con qualsiasi forma di sicurezza e stabilità. Ed ancora, che il ricercatore universitario dovesse essere solo precario, non di ruolo, come stabilito dalla Legge voluta dalla Ministra Gelmini nel 2010. Il tutto veicolato come strumento principe per “premiare” finalmente il merito. Questa impostazione ha peraltro trovato consensi politici trasversali, ben oltre i perimetri dei Governi, delle maggioranze e delle minoranze, fino a diventare un tratto comune nel corso dell’ultimo decennio. Nella scorsa legislatura ad esempio più volte abbiamo dovuto constatare l’indisponibilità del Governo e della maggioranza ad intervenire almeno sui contenuti più critici della Riforma Gelmini.

Del resto, una certa continuità si rileva anche nelle decisioni dell’attuale Esecutivo, che come responsabile del Dipartimento Università del MIUR ha nominato il Prof. Valditara, allora relatore di maggioranza di quella Riforma varata dal Governo Berlusconi. Queste scelte e queste idee sono la vera causa della condizione attuale dell’Università italiana: non è il “destino”, non è una questione inevitabile, né tantomeno una conseguenza involontaria e imprevedibile. Stando ai dati del MIUR, dal 2010 abbiamo assistito ad un decremento costante degli docenti ordinari, dei ricercatori a tempo indeterminato (ad esaurimento) e del personale tecnico amministrativo. Al contempo, sono cresciuti associati, ricercatori a tempo determinato, borsisti e assegnisti.

Come riportato anche dalla stampa, il risultato di questi flussi è presto detto: in 7 anni, il numero degli addetti negli Atenei italiani si è ridotto del 6,5%, il numero complessivo di professori e ricercatori segna un -7,9%, il mondo accademico è costituito ormai da un 29,5% di associati e per ben il 51,6% da precari impegnati con diverse tipologie contrattuali (ricercatori, assegnisti, borsisti) nelle attività istituzionali di docenza e ricerca. Il taglio del personale e la conseguente precarizzazione in assenza di adeguato reclutamento ha comportato una crescita dell’età media a 52 anni (59 anni per gli ordinari, 47 anni per i precari). C’è chi ha sostenuto che con certe riforme si voleva togliere potere ai “baroni” e premiare il “merito”: purtroppo la realtà dei numeri e le storie dei precari stanno lì a testimoniare, crudamente, che questa vuota retorica nascondeva un disegno di complessivo ridimensionamento dell’università italiana. Se volessimo approfondire le ragioni di tale scelta scellerata, dovremmo ancora una volta tornare a puntare l’indice accusatore su un sistema orientato verso un liberismo selvaggio, che ha mercificato l’uomo trattandolo al pari di qualsiasi altra merce, negando così ad intere generazioni – per la prima volta dal dopoguerra - la prospettiva di un miglioramento delle proprie condizioni di vita rispetto a quelle di nascita.

Precari sono anche gli Enti Pubblici di Ricerca: secondo nostre stime, all’inizio del 2017 su circa 30.583 addetti, il 13,8% era costituito da personale a tempo determinato (ricercatori, tecnologi, tecnici ed amministrativi), l’11,0% da assegnisti, il 6,7% da contratti di collaborazione: ciò tralasciando il dettaglio degli infiniti ulteriori “strumenti di impiego”. Va detto che a questa tipologia di precariato è stata data una parziale risposta dal Governo Gentiloni con le misure in materia di stabilizzazione, inserite nell’art. 20 del D.lgs. 75/17 e nella stessa Legge n.  95/17 (Legge di Bilancio 2018). Bisogna inoltre sottolineare che il D.lgs. 218/16 ha rappresentato comunque un passo in avanti in materia di autonomia degli EPR, introducendo modalità di assunzione, in presenza di risorse e di specifiche autorizza zioni, più rapide e soprattutto non strettamente vincolate al rigido blocco del turnover over sperimentato in questi anni.

C’è però il rischio che gli sforzi normativi prodotti nell’ultimo scorcio del precedente Governo restino inchiostro sulla carta, per un nefasto intreccio di norme. Ad esempio, il processo di stabilizzazione dei precari negli EPR ha segnato un evidente rallentamento nel corso del 2018, a causa di quanto previsto dall’art. 23, comma 2 del D.lgs. 75/17, che in buona sostanza blocca al 2016 il livello massimo del salario accessorio nelle Amministrazioni Pubbliche e quindi non consente la sua integrazione proporzionale rispetto alle nuove assunzioni/stabilizzazioni. Ecco quindi il paradosso: da un lato, gli Enti hanno a disposizione norme e risorse specifiche già stanziate per stabilizzare i precari, dall’altra rischiano di non poterle utilizzare perché non si può superare il limite sul salario accessorio fissato al 2016! Al momento alle Amministrazioni, in assenza di ulteriori ed adeguati provvedimenti normativi, si presentano due possibilità: bloccare le assunzioni dei precari, oppure assumerli ma riducendo il salario di tutto il personale, di ruolo e precario.

Chi, tra gli Enti più coraggiosi, aveva anticipato le stabilizzazioni ed assunzioni nel 2017, proprio nei giorni in cui si scrive questo articolo sta sperimentando il rischio conseguente ai rilievi dei revisori interni, che vorrebbero far recuperare le somme “non dovute” e pagate ai lavoratori già dipendenti e neo assunti!! Tutto questo appare certamente incredibile, a conferma di quanto sia confusa e contraddittoria la fase attuale. Il nostro auspicio è che il Ministro della Funzione Pubblica, On.le Buongiorno, dia seguito agli impegni assunti con il Sindacato e si proceda quindi con la Legge di Bilancio e col DDL “concretezza” a sbloccare questa situazione ed a stabilizzare i precari della ricerca senza danni per i lavoratori già in servizio. Attendiamo di conoscere i contenuti della Agenzia Nazionale per la Ricercaannunciata dal Ministro MIUR Bussetti, di cui si parla da oltre un decennio, che ognuno immagina con scopi e funzioni diverse: per quanto ci riguarda, auspichiamo – da tempo! - che essa possa davvero essere sia strumento per una migliore e più efficiente allocazione di risorse tra tutti i 22 enti di ricerca e i loro 7 ministeri vigilanti, sia il punto di “messa in rete” di competenze, per sfruttare al meglio le risorse europee e quelle che tutti si augurano possano arrivare da partnership con i privati.

Infine, i precari del sistema AFAM rientrano nelle procedure di stabilizzazione del personale “statale”: in base alla normativa prodotta, tutti quelli che hanno 3 anni entreranno per legge in graduatoria nazionale (sia a tempo determinato che indeterminato). Rimane però tutto da definire il precariato degli istituti cosiddetti “pareggiati” e gli “ex pareggiati” che, pur avendo anch’essi ottenuto una definizione di legge per un processo di statizzazione, ancora non hanno visto decollare i decreti attuativi, che sono tutti da scrivere, pur essendo già finanziati!!! Il paradosso è che mentre i soldi per il processo di statizzazione restano inutilizzati, molti docenti sono obbligati a insegnare senza alcuna certezza di percepire lo stipendio, come sta di nuovo succedendo al Bellini di Catania, al Paisiello di Taranto, al Briccialdi di Terni. Oltre che precari che lavorano senza stipendio, la chicca è che per questi istituti pareggiati non si è ancora proceduto nemmeno ad erogare al personale l’adeguamento stipendiale conseguente al CCNL firmato il 19 aprile scorso: che dire di più, se non che questo appare un Paese in cui disuguaglianze ed ingiustizie sono troppe?

I nostri Settori hanno bisogno urgente di questi ed altri interventi diretti a rilanciarne il ruolo ed a valorizzarne il personale, fermo nel riconoscimento della carriera come negli incrementi salariali. Sosteniamo questa battaglia, da tempo, nella consapevolezza che cultura, scienza ed innovazione siano indispensabili per garantire sviluppo sociale ed economico al nostro Paese, che deve riuscire a coniugare competitività, crescita dell’occupazione e giustizia sociale anche e proprio grazie alla trasversalità ed al valore intrinseco di questi strumenti. Solo con questo impegno è possibile dare risposte concrete alle storie dei precari ed un futuro di progresso al nostro Paese.

 

 

*Segretaria Generale Uil Rua

 

 

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