Il lavoro che cambia: gli skills.
Una scheda del recente Rapporto Eurispes
FEBBRAIO 2019
Agorà
Il lavoro che cambia: gli skills. Una scheda del recente Rapporto Eurispes
di   Piero Nenci

 

Gli skills sono la nuova moneta del XXI secolo. È inutile chiedere allo sportello della propria banca di cambiare dieci o cento euro in skills; il bancario, pur disponendo personalmente di alcuni skills, non li ha mai sentiti nominare e penserebbe che siete matto o lo state prendendo in giro. Invece è tutto vero e si tratta di una cosa seria. Già alcuni anni fa l’Ocse lanciava la Global skills strategy, “un programma organico per affrontare i problemi aperti riguardanti uno dei più importanti fattori di sviluppo del mondo”.

Aggiornata poi anno dopo anno questa strategia costituisce ancora oggi un punto di riferimento importante per cogliere al meglio le sfide della rivoluzione digitale nella quale sono ormai pienamente coinvolte le nostre società e i rispettivi sistemi economici e produttivi. Skills significa competenze, conoscenze, formazione, esperienze; si tratta di strumenti immateriali che arricchiscono l’individuo: chi se l’è procurati si è anche autopromosso ad affrontare la quarta rivoluzione industriale che avrà – come le precedenti rivoluzioni – un forte impatto sul mondo del lavoro. La XXIV scheda del 31° Rapporto Eurispes tratta proprio di questo argomento presentando i dati e gli approfondimenti di una serie di studi e ricerche sullo scottante tema del “lavoro che cambia”.

Se prima dovevamo navigare su un fiume, poi siamo sfociati in un mare in cui abbiamo dovuto imparare ad orientarci ma ora ci troviamo davanti l’oceano, la sfida si è fatta globale, mette paura e non si sa proprio come affrontarla: occorrono nuove e più adatte attrezzature. “Il tema del rapporto fra tecnologia e lavoro è tornato al centro del dibattito politico”, afferma un’indagine conoscitiva del Senato e lo sviluppo di questa nuova rivoluzione è del tutto imprevedibile, anche perché “il divenire intelligente della produzione sta seguendo una molteplicità di strade, in linea di discontinuità o continuità col passato”. Le grandi fabbriche passano dalle linee alle isole autonome in cui convivono lavoratori e robot mentre le piccole imprese stanno affrontando il mutamento con la divisione del lavoro e cercano di far convivere le abilità artigianali con gli strumenti digitali. In precedenza anche la Camera aveva affrontato il medesimo tema: non dobbiamo pensare che si tratti solo di affiancare una macchina ad un uomo perché il cambiamento tecnologico non sarà neutrale ma avrà ricadute anche sui rapporti sociali, lavorativi ed economici. Insomma si sta presentando un nuovo modello economico che contribuirà a decostruire i precedenti settori produttivi, ampliando le opportunità per le imprese proiettandole in uno scenario di interconnessione che non riguarda solo il supporto della rete ma la possibilità di contatto tra spazi e mondi prima separati e distanti. L’indagine del Senato ha sottolineato come tutto ciò non potrà non avere conseguenze sul nostro debole mercato del lavoro, caratterizzato da un basso tasso di occupazione e da un alto tasso di disoccupazione, da un’ampia frangia di anziani e una stretta fascia femminile. Dal 2007 il numero degli operai si è ridotto di oltre un milione di unità, metà dei quali proprio nelle professioni tecniche e qualificate e la produttività non ha trovato spinte per crescere.

Nel “Programma per la valutazione internazionale delle competenze degli adulti” disegnato dall’Ocse nel 2015, l’Italia è situata all’ultimo posto riguardo all’alfabetizzazione di base digitale (ai primi tre posti ci sono Giappone, Finlandia, Olanda); siamo al penultimo posto nell’istruzione numerica degli adulti 16-65 anni (in testa Giappone, Finlandia, Svezia) e all’ultimo nella diffusione delle pratiche di lavoro ad elevata prestazione (ai primi posti Danimarca, Finlandia, Svezia).

Particolarmente grave risulta da noi anche il livello di diffusione delle competenze di base in matematica e nelle discipline tecnico- scientifiche sia tra gli adulti che tra i giovani. Per cui nei prossimi anni un 10% dei nostri lavoratori saranno a rischio e il 44% saranno chiamati ad un radicale cambiamento.

Il che comporterà una polarizzazione delle competenze, un aumento delle disuguaglianze di reddito e un incremento delle differenze tra nord e sud e tra una regione e l’altra. Questa quarta rivoluzione industriale – secondo il progetto Industria 4.0 di “Idea diffusa” (Cgil) – potrebbe spingere il nostro Paese ad una nuova crescita industriale e ad un nuovo tipo di società ma tutto dipenderà dalla volontà politico-sociale e dalle capacità culturali e progettuali dei principali attori dello sviluppo.

Dunque sarà necessario un miglioramento complessivo del livello di competenze del mondo del lavoro. Sia di quelle tecnico-specialistico, sia di quelle trasversali che consentano ai lavoratori un approccio adatto a scenari mutevoli e complessi (e anche all’autoimprenditorialità).

Allora vanno ripensati il sistema educativo scolastico e quello universitario anche perché da noi i laureati sono poco più del 25% della popolazione (la media europea è poco meno del 40) e gli allievi degli istituti tecnici non superano le settemila unità mentre in Germania arrivano a 880 mila. Va inoltre avviato un processo di ri-alfabetizzazione degli adulti per evitare la loro marginalizzazione dal mercato del lavoro e va continuata e potenziata la formazione continua. Anche la Banca mondiale è intervenuta nell’approfondimento di questi temi: per restare competitivi nell’economia del futuro e trasformare l’evoluzione in atto in occasione di sviluppo, governi, imprese e individui devono promuovere rapidamente investimenti in capitale umano. A cominciare dalla prima infanzia, poiché si prevede che i piccoli che vanno alle elementari oggi, da adulti saranno chiamati a lavorare in professioni che ancora non esistono. Compito non semplice data l’imprevedibilità del processo in corso e della rapidità con cui potrebbe evolvere il che richiederebbe un adattarsi al nuovo rapidamente, dall’oggi al domani, per cui il valore più ricercato in un individuo potrebbe esser quello dell’adattabilità. Tutto questo potrebbe anche richiedere di dover studiare più a lungo – ed è stato dimostrato che un anno di scuola in più in genere produce guadagni più elevati – di dover affrontare le macchine senza temerle, di sapersi adattare al lavoro di squadra, di riuscire a sviluppare empatia, di ingegnarsi a risolvere i conflitti; insomma di saper gestire il capitale umano e di avere grinta. Ecco un elenco di skills, di abilità necessarie per il lavoro del prossimo domani. Perché un Paese si sviluppa – sostiene la Banca mondiale – man mano che aumenta il valore del suo capitale umano.

Questo incremento è addirittura calcolabile: il valore del capitale umano contribuisce ad una differenza di prodotto interno lordo pro capite tra i diversi sistemi economici misurata in circa il 10-30%. La scheda del Rapporto Eurispes su gli skills e il lavoro che cambia rafforza tutte queste tesi con quanto è emerso dall’ultimo incontro annuale della Rete europea sul monitoraggio dei mercati del lavoro. Gli esperti di questa Rete hanno distinto fra tre tipi di abilità necessarie per l’ormai vicino futuro: quelle tecnico-professionali, quelle trasversali a-contestuali e quelle socio-relazionali. Le prime risultano sempre meno importanti nel quadro delle attività svolte in un determinato contesto organizzato mentre quelle trasversali a-contestuali stanno prevalendo sempre più nel mondo del lavoro perché le operazioni collegate alle tecnicalità possono essere trasferite ad una macchina mentre quelle che vanno al di là del tecnicismo saranno quelle che contano davvero: come, ad esempio, la capacità di vendere beni, servizi, conoscenze, innovazioni. Ma le abilità trasversali, relative alla costruzione dei rapporti interpersonali e sociali o alla conduzione di un progetto di cui non si conoscono ancora i punti di arrivo sono considerate le più preziose. Ciò richiede immaginazione, capacità di adattamento agli imprevisti: insomma un patrimonio umano che va al di là delle semplici conoscenze tecniche. Stiamo assistendo – sintetizza Eurispes – ad un passaggio sempre più accentuato da quelli che gli esperti chiamano hard skills ai soft skills. Cioè, ancora una volta la tecnologia digitale conferma di non essere soltanto un programma codificato ma anche una serie di pratiche socio-relazionali nelle quali sia gli utilizzatori sia la qualità dei collegamenti che essi stabiliscono costituiscono un vero valore aggiunto sotto il profilo economico.

Concetto confermato anche dall’Agenzia per l’Italia digitale che nel suo ultimo Rapporto ha riconfermato come i soft digital skills possano rappresentare un reale fattore di sviluppo per le imprese poiché le imprese italiane soffrono soprattutto in termini di abilità di gestione, di creatività e comunicazione; tanto che le figure professionali collegate alla creazione e alla gestione dei rapporti interpersonali stanno diventando quasi più importanti dei prodotti stessi.

Gli esperti italiani della Rete europea sul monitoraggio dei mercati del lavoro hanno svolto anche una ricerca in cinque università italiane da cui sono emerse nuove figure professionali come il ‘creatore digitale’ persona chiamata a combinare le proprie abilità tecniche con quelle sempre più richieste del comunicare, fornire assistenza, fare rete. Questi creatori digitali diventano in pratica il ponte tra l’astrattezza dell’immaginazione digitale e il nuovo consumatore del futuro; cioè i nuovi promotori dello sviluppo, destinati a posizionarsi nella parte alta della piramide sociale che si sta riformando anche in questa epoca di grandi e continui cambiamenti. Alla base della piramide resteranno tutti quelli che operano concretamente, al vertice si posizioneranno coloro che organizzano, coordinano, creano, decidono.

I primi hanno bisogno solo di qualità tecniche e spesso senza sapere quanto siano necessarie per loro qualità soft, quantomeno per tener aggiornati i loro skills. I secondi hanno invece bisogno di una lunga lista di abilità manageriali tra le quali quelle socio-relazionali assumono una posizione di rilievo.

 

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