Due voci a confronto sulla situazione economica e sociale. </BR>Intervista a Leonello Tronti e Antonio Foccillo
GENNAIO 2019
Economia
Due voci a confronto sulla situazione economica e sociale.
Intervista a Leonello Tronti e Antonio Foccillo
di   Alessandro Fortuna

 

Recentemente l’Ocse, nel documento Economic Outlook 2018, ha analizzato la situazione dell’economia italiana ed ha rilevato che “i consumi privati si ridurranno, dal momento che la minore crescita dell’occupazione e il rialzo dell’inflazione ridurrebbero i guadagni in termini di reddito disponibile e controbilancerebbero gli effetti positivi delle politiche espansive”. In termini più pratici: una disoccupazione che ha raggiunto cifre altissime, in special modo nella fascia dei giovani che hanno meno di 35 anni (e 1/3 ha meno di 25 anni); un calo sensibile del potere d’acquisto delle famiglie tale da far precipitare i consumi e, infine, la stagnazione delle retribuzioni reali e la caduta di quelle dei dipendenti pubblici che ci collocano all’ultimo posto in Europa. Inizierei la nostra chiacchierata proprio da questa scoraggiante fotografia che purtroppo nulla di nuovo ci dice.

 

Leonello Tronti.:Nelle previsioni dell’Istat per il 2019, pubblicate a fine novembre e gravate ancora da tutte le alee di una manovra non ben definita, l’occupazione è data ancora in crescita, con un tasso di occupazione prevedibilmente anch’esso in crescita, dato che la popolazione in età di lavoro si va lentamente ridimensionando. Invece le retribuzioni reali sono previste in lieve calo, a fronte di un deflatore dei consumi delle famiglie ancora significativamente sotto il target del 2%. Dato l’attuale e il prevedibile peggioramento della congiuntura, è possibile che nel 2019 l’occupazione cresca anche meno e i salari reali si riducano anche più del previsto. Ma, proprio per questo, assai meno probabile è un aumento significativo dei prezzi, non foss’altro che per il nuovo ridimensionamento di quello del petrolio. Oggi, diverse sono le fonti che ritengono possibile una nuova recessione mondiale ed europea nel corso di quest’anno o, più probabilmente, nel 2020. In questa prospettiva, le preoccupazioni delle agenzie internazionali si appuntano sui rischi di un possibile mutamento in senso espansivo del paradigma di riferimento degli interventi delle autorità economiche nazionali e sovranazionali, insoddisfatte dei discutibili risultati delle politiche di austerità e pressate dalle manifestazioni di piazza e dal montare delle opposizioni sovraniste e populiste. Se guardiamo ai dati, il potere d’acquisto delle famiglie italiane ha perso circa il 9% dal 2007 al 2012; poi, un poco alla volta si è ripreso, riguadagnando (terzo trimestre 2018) circa 5 dei 9 punti perduti. Ma, in assenza di politiche fiscali davvero espansive – tanto contrarie al destino di stagnazione pluridecennale cui sono condannati i salari reali dei lavoratori italiani quanto assenti dal dna dell’attuale governo dell’economia europea –, è molto difficile che la ripresa possa continuare negli anni a venire e le famiglie possano quindi finalmente tornare ai livelli di reddito precrisi. Il Sindacato deve attrezzarsi per un franco e continuo confronto sulle politiche economiche, a livello tanto nazionale quanto europeo.

 

Antonio Foccillo:Quelli che hai citato non sono sicuramente dati esaltanti. Sono dati che chiedono a gran voce la fine della contrapposizione nel nostro Paese e la costruzione, tutti insieme, di politiche economiche e fiscali, proprio come dici tu, in grado di favorire una nuova fase di crescita. Di fronte a questo scenario, bisognerebbe ridiscutere la politica dell’austerity che colpisce direttamente i salariati, i ceti medi ed i più poveri con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione che di conseguenza significa concretamente diminuirne il suo ammontare. Come sindacato, abbiamo sempre sostenuto che bisognava uscire dalla politica di austerity che tanti danni ha fatto in quasi tutti i paesi. Purtroppo l’ottusità e la tracotanza di alcuni burocrati europei continuano a sostenere queste politiche invece di pensare ad un’inversione di tendenza per favorire sviluppo, occupazione, costruzione di ricchezza e poi distribuzione della stessa. Inoltre si continua a minacciare chi non rispetta i parametri, come se fossero i dieci comandamenti di Mosè, e non ci si rende conto che questi populismi e revanscismi di destra, che vorrebbero combattere, sono figli proprio di quella politica che non dà speranza. Lo stesso Junker in questi giorni ha parlato di “austerità avventata” durante la crisi.

 

 

Sempre l’Ocse, poi, se da una parte auspica investimenti, dall’altra nelle sue raccomandazioni ci invita a incrementare il nostro avanzo primario, come se quello che è uno dei più alti saldi primari d’Europa, frutto di anni di tagli alla spesa pubblica, non fosse sufficiente. Eppure, in assenza di iniezioni esterne di liquidità, politiche di bassi salari e alta disoccupazione su scala globale restringono i mercati di sbocco per la produzione, riducendo gli investimenti e costringendo i margini di profitto a mantenersi solo a scapito del contenimento dei salari. Se, come sostiene la visione dominante, tuttora fondata sul mito dell’austerità espansiva nonostante gli evidenti insuccessi, la riduzione della spesa pubblica è funzionale alla riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, e, dunque, serve a scongiurare attacchi speculativi, va rilevato che, per contro, il calo dell’occupazione riduce la produzione e, dunque, il PIL stesso; la riduzione dei redditi riduce la base imponibile e può accrescere il debito pubblico già oberato dai costi crescenti della protezione sociale. Qualcosa non quadra, delle due l’una.

 

L.T.:Fare investimenti, di cui l’Italia ha estremo bisogno, e aumentare al contempo l’avanzo primario è impossibile nel breve periodo, a meno di non tagliare drasticamente la spesa corrente. Ma anche questo è impossibile se non con esiti drammatici. I dipendenti pubblici, che nel 1994 erano il 16,5% dell’occupazione, sono già caduti a meno del 13,6%, e il loro lavoro è parallelamente sceso dal 29,5 al 24% del costo del lavoro complessivo. L’invecchiamento della popolazione fa crescere la spesa per le pensioni, la sanità e l’assistenza agli anziani, mentre l’accelerazione delle innovazioni tecnologiche e organizzative connesse con la digitalizzazione richiede da un lato forti investimenti in istruzione, formazione e ricerca, e dall’altro in servizi di sostegno dei disoccupati e di ricollocazione dei lavoratori spiazzati. Per rispondere in modo ragionevole a questi vincoli è necessario ribaltare il problema, chiarendo che non è la bassa crescita a poter imporre vincoli alla spesa corrente, ma è una spesa corrente socialmente ed economicamente incomprimibile che deve porre precisi obiettivi al livello minimo di crescita economica necessario ad accomodarla. Questo ribaltamento della prospettiva richiede la riforma non solo della politica economica italiana, ma anche del Fiscal compact europeo, la cui ratifica nei Trattati è stata recentemente bocciata dal Parlamento europeo. Tra l’altro, l’andamento problematico dei mercati internazionali richiede il rafforzamento dei mercati interni, e quindi un modello di sviluppo trainato in misura crescente dai salari. Il rapporto debito/PIL si può ridurre solo con investimenti – privati o pubblici – che aumentino il PIL e accrescano redditi e occupazione. Il problema non è il disavanzo, ma cosa esso finanzia. Italia ed Europa debbono riconoscere esplicitamente che l’austerità espansiva non funziona e che molto più sana è la tradizionale “regola aurea” della politica di bilancio, che richiede nei momenti di recessione di mantenere il pareggio per la spesa corrente ma, all’opposto, di sostenere la crescita, la qualità infrastrutturale e la competitività del Paese con gli opportuni investimenti pubblici in infrastrutture, conoscenza e innovazione.

 

A.F.:Voglio ricordare che la crescita economica è stata sensibilmente più elevata nel periodo del cosiddetto consenso keynesiano e con elevata conflittualità sociale rispetto al ventennio successivo. Nel nostro Paese, i recenti dati della Banca d’Italia rilevano che, nonostante le tante manovre economiche di tagli che si sono susseguite fino ad oggi, il debito non scende. Il nuovo record del debito pubblico italiano è la conferma che la politica di restrizione e di austerity ha fatto precipitare il nostro Paese in una spirale rischiosa. Se si vuole uscire da questa situazione in cui aumenta la povertà, occorrono nuove forme di politica democratica che riscrivano le regole per combattere la bibbia del neo liberismo e della politica monetarista. Occorre guardare a crescita e sviluppo, a politiche di investimento, piuttosto che farsi ingabbiare dalla crisi proponendo sempre più austerità. Bisogna che si recuperi nel nostro Paese la capacità di guardare lontano, oltre il contingente, con una nuova progettualità, in cui ogni persona si riconosca nella comunità come cittadino. Questa progettualità deve essere in grado di sostenere politiche alternative che contrastino le politiche recessive; partendo da alcune proposte:

- la prima, senza dubbio, è quella di ricreare una condizione di sviluppo produttivo che ridia fiato all’economia reale, a discapito di quella virtuale che tanti danni ha prodotto;

- la seconda, è accrescere il reddito e di conseguenza più potere di acquisto ai lavoratori ed ai pensionati, anche attraverso misure normative di riordino fiscale;

- la terza, è sostenere con adeguati ammortizzatori sociali le persone che rischiano sempre di più l’occupazione;

- la quarta, infine, è tentare di stabilizzare, anche gradualmente, i tanti contratti di lavoro flessibili introdotti come la panacea per il rilancio produttivo ed economico, che, oggi, con la crisi economica, rappresentano l’anello debole del mondo del lavoro.

 

 

Nel corso dei due ultimi decenni, i redditi di poche famiglie sono cresciuti esponenzialmente rispetto a quelli delle famiglie povere. Gli incrementi di disuguaglianza del reddito familiare sono stati in gran parte determinati dai cambiamenti nella distribuzione dei salari, che rappresentano il 75% del reddito degli adulti in età lavorativa. In sostanza la crisi economica è stata scaricata tutta sulle spalle dei lavoratori. Ritieni che sia nostalgico ricordare che la crescita economica è stata sensibilmente più elevata nel periodo del cosiddetto consenso keynesiano e dell’elevata conflittualità sociale rispetto al ventennio successivo?

 

L.T.:L’aumento della disuguaglianza dei redditi va di pari passo con il progressivo impoverimento della classe media, costituita in larga maggioranza da lavoratori. Stretta nella morsa tra la stagnazione salariale e l’abbattimento del carico fiscale sulle classi di reddito più elevate (che si è spostato su quelle intermedie), la classe media è la gran perdente degli ultimi trent’anni. Il problema sarebbe già di per sé gravissimo, perché proprio la classe media costituisce il baricentro e il punto di forza della società. Ma è ancor più grave per ché la scommessa “mercatista” del modello neoliberista, la promessa di uno sviluppo più forte e di più occupazione attraverso la sottrazione dell’economia alla guida e all’intervento diretto dello Stato e il suo affidamento ai mercati, interno e internazionale, e all’autonoma capacità di sviluppo delle imprese, è stata evidentemente perduta. Bisogna avere il coraggio di dirlo forte. Invece dello sviluppo abbiamo avuto l’“effetto Piketty”: un tasso di profitto superiore per decenni al tasso di crescita del reddito, grazie anche allo sviluppo del settore finanziario. Quando l’economia si comporta in questo modo la ricchezza fluisce verso l’alto (specie se accompagnata da politiche fiscali generose con chi ha di più) e le disuguaglianze crescono di conseguenza. Per tornare allo sviluppo ben distribuito del Trentennio Glorioso bisogna invertire il modello di sviluppo, tornare a un intervento pubblico innovato, intelligente – se vogliamo “4.0” – ma sostanziale. È possibile e sensato tentare di farlo a livello nazionale?

 

A.F.:In questi anni le famiglie sono state l’unico e più efficace ammortizzatore sociale, anche se questo loro compito solidaristico è stato coattivamente ridotto dalle ultime manovre di tagli, operate dai Governi, sulla base delle direttive Ue che hanno continuato nell’opera di restrizione e di austerity. Sarò nostalgico ma Keynes, che mise in dubbio l’infallibilità del mercato, propose di attivare un meccanismo che, per far ripartire il sistema economico, rilanciasse la domanda globale attraverso la spesa pubblica. Una economia basata sulla domanda piuttosto che sull’offerta significò dare centralità al ruolo delle masse sociali, sovvertendo una situazione che legittimava la concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta elites. I risultati non tardarono ad arrivare. Ebbene finché l’economia del debito, che ormai regge le nostre società dall’alto al basso, non sarà rimessa in discussione, nessuna “soluzione” sarà possibile. Ma la governance economica attuale sembra escludere a priori quest’ipotesi e se non cambierà idea sacrificherà l’intera crescita a tempo indeterminato.

 

 

Nonostante le tante manovre economiche al ribasso, il debito non accenna a scendere; ciò nonostante mettere in discussione la politica dell’austerity sembra ancora un taboo e non solo per la classe politica dirigente. Non credi che probabilmente ci sia anche una responsabilità dell’intellighenzia del nostro Paese, rimasta un pò troppo in disparte su questo fronte?

 

L.T.:Molte sono le cose che si potrebbero fare per ridurre il debito se nel Paese si creasse un dibattito franco e autorevole sul tema, libero da osservanze politiche ed economiche. Da troppo tempo, però, l’informazione vive nel nostro Paese una degradante condizione oligopolistica e di legame con partiti e potentati economici, che tarpa e svilisce il dibattito sulle idee, sulle culture e sulle politiche, per concentrarlo sulle persone e sulle bandiere. Io seguo soprattutto il dibattito economico e ti posso portare ad esempio che per molti anni in diversi importanti mezzi di comunicazione c’è stato un vero e proprio veto non solo alla presentazione del giusto spettro di posizioni sullo sviluppo e il progresso economico e sociale (che permane tuttora in modo disgustoso), ma addirittura il bando a singole parole ritenute pericolose, quali ‘politica industriale’ o ‘macroeconomia’. Non ci si può poi lamentare dei risultati. La responsabilità è certamente di quella che Keynes definiva la “classe colta”, ridicolizzata e marginalizzata da decenni di cattiva politica. Ma soprattutto da chi deteneva il controllo dei mezzi di informazione, che ha operato (e ancora opera) una selezione unidirezionale delle posizioni da presentare al pubblico, lasciando che tutto il resto, dalle voci di opposizione più serie e fondate fino ai deliri delle fake news, della disinformazione e dell’incultura di massa, sopravvivesse marginalizzato e indistinguibile nell’amalgama informe proposto ogni minuto dalla rete. L’informazione “liberata” online, priva dell’esercizio di una qualunque funzione pedagogica (in senso lato), non ha prodotto che disinformazione di massa, antipolitica e anticultura, analfabetismo funzionale. Il problema era già stato intravisto da decenni, ad esempio da Lundvall, il teorico dei sistemi nazionali di innovazione e della learning economy, che proponeva un netto rafforzamento della coesione sociale e un ruolo attivo delle parti sociali nella protezione della qualità dell’informazione e nella creazione della società dell’apprendimento, ovvero del requisito per l’aggancio del sistema produttivo all’economia della conoscenza. Ma in Italia questo, che è il tema centrale dell’unico possibile modello di sviluppo, è ancora oggi argomento vietato: l’appartenenza deve fare premio sulla cultura e sulla conoscenza, la bandiera è più importante del potere di modificare le cose a vantaggio di tutti. Valga tra gli altri l’esempio della bocciatura da parte del Parlamento di Strasburgo della proposta di inserimento del Fiscal Compact nella legislazione europea. Gli italiani soffrono nelle strette di una manovra economica per metà utopistica e per l’altra metà più avara e densa di incognite delle precedenti, lamentando la crudele severità dell’Eurogruppo; ma nessun giornale si degna di dire a chiare lettere che i meccanismi automatici di correzione da attivare in caso di deviazione dagli obiettivi stabiliti non sono una norma europea, e che la Commissione Economia e Finanza del Parlamento Europeo non solo ha rifiutato la canonizzazione del Fiscal Compact, ma ha anche sottolineato la  necessità di una diversa politica fiscale che, oltre a preoccuparsi della stabilità, rimetta al centro della discussione europea lo sviluppo, il lavoro e la crescita. Qualcosa che è oggi più che mai necessario e che darebbe spazio di manovra anche al Governo italiano nella negoziazione con un’Europa ormai in evidente difficoltà. Evidentemente ci sono interessi che comandano i mezzi di comunicazione di massa e orientano anche le forze politiche, bloccando la cultura, la conoscenza, l’apprendimento e con essi le possibilità di sviluppo del Paese.

 

A.F.:Il Paese ha ancora bisogno di dibattito e di una dialettica che faccia pensare e rendere l’azione collettiva. Quello che stiamo analizzando insieme non riguarda solo politologi, interessa tutti perché riguarda il futuro del nostro Paese. La stessa opinione pubblica, che incarna la coscienza civile, presa da problemi quotidiani e da interessi individuali, succube del particolare, guarda con indifferenza e insofferenza a questi problemi, considerati generali, estranei dalla loro sfera di interessi. Così si è insinuata silenziosamente tra le persone una cultura dominante non più interessata a battaglie per rendere la società più giusta, più coesa e solidale ma affine a parole come globalizzazione, deregulation, mercato, competizione, diventati slogan che hanno fatto da schermo ideologico alla delocalizzazione di gran parte dell’apparato produttivo, alla marginalizzazione dello Stato, della politica e del ruolo del “cittadino”. Oggi però le nostre società, proprio per l’assenza di partecipazione democratica, vivono una realtà quotidiana in cui si è prodotto: distruzione di ricchezza, impoverimento, solitudine, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo. In questo contesto il silenzio degli esponenti della cultura del nostro Paese è sempre più assordante. Bisogna rimettere in discussione quei contesti che favoriscono le grandi caste estranee alla politica e al confronto democratico, che nessuno ha eletto e che, di fatto, governano al di sopra e contro la politica. A costoro che non rispondono ai cittadini, non si possono delegare decisioni che devono essere prese nell’interesse di tutti. Rousseau sosteneva che all’atto nel quale si realizza il contratto della società politica, dove il popolo costituisce un governo, esiste un momento anteriore che è quello in cui il popolo è popolo e questa condizione è la condizione fondamentale, che stabilisce una sovranità non trasferibile, delegabile o divisibile. Per cui, al fine di mantenere le condizioni di libertà e di uguaglianza, dove nessun cittadino perde la sua sovranità nel processo di formazione della volontà generale, questa non può essere delegata o trasferita, per investire qualcuno ad esercitarla, senza che i mandati siano revocabili in qualsiasi momento. Per Rousseau la sovranità, l’unita della politica è immanente al popolo e consiste nell’espressione della volontà generale da parte dell’assemblea popolare (universale partecipazione alla vita dello Stato e della società, democrazia). Non è da nascondere poi che per dominare gli eccessi del mercato e della politica bisogna anche agire coinvolgendo ed interessando le persone a cambiare le proprie abitudini, salvaguardando innanzitutto la propria libertà ed esercitando le più ampie capacità critiche, fondamentali in un sistema perverso, pubblicitario e informativo che spesso altera la stessa formazione dell’opinione pubblica e il sistema di controllo popolare, incidendo negativamente sulla cultura di massa.

 

 

Le privatizzazioni nel pubblico impiego, dei servizi pubblici, la stessa aziendalizzazione di funzioni tipiche dello Stato Sociale, come l’istruzione, la sanità, ecc., stanno ovunque generando fenomeni di desocializzazione e di profondo scollamento rispetto alle istituzioni. Lo Stato si sta sempre più ritirando nel suo perimetro, prestando il fianco agli attacchi che si continuano a sferrare alle conquiste sociali ottenute dal movimento operaio e dai movimenti sociali. Cosa ne pensi?

 

L.T.:Su questo tema, e sulla crisi sia economica che sociale che ne è l’esito intollerabile, credo sia necessario riferirsi da un lato ai lavori di Paolo Leon e dall’altro a quelli di Mariana Mazzucato. Come si diceva, l’Italia ha fatto con l’Europa sin dalla fine degli anni ‘80 una grande scommessa ‘mercatista’, di devoluzione del potere e delle risorse dallo Stato al mercato e alle imprese. In Italia, e forse nell’intera Europa, la scommessa è andata perduta, come dimostrano i problemi sociali e politici montanti un pò ovunque. Il mercato e le imprese non si sono dimostrati all’altezza della sfida; non perché siano in sé “cattivi” ma perché l’idea neoliberista alla base della scommessa è sbagliata. Non si può chiedere al mercato e alle imprese di farsi carico della responsabilità del bene comune, non è questo il loro compito, anche se è da questo che essi traggono la loro sopravvivenza in salute. Come suggerisce Leon, mercati e imprese sono “ignoranti”, nel senso che non conoscono e non si curano delle conseguenze delle loro azioni sul benessere collettivo, né si può far loro colpa di questo. E, sottolinea Mariana Mazzucato, nel perimetro del loro disinteresse (o “ignoranza”), ricade anche l’incapacità di finanziare investimenti significativi in progetti di ricerca di base, di istruzione di massa, sanità o protezione sociale che costituiscono investimenti ‘pazienti’, nel senso che i risultati positivi si vedono solo a lungo termine, e non nel breve orizzonte temporale di esaurimento dei progetti imprenditoriali. Il problema è politico, perché la progettazione di una nuova e duratura fase di sviluppo sociale capace di superare l’“ignoranza” di mercati e imprese richiede l’uscita dello Stato dall’instabile morsa della finanza privata internazionale, e quindi un nuovo modello di economia mista (non di “economia sociale di mercato”) che si dimostri capace di ideare e realizzare il progresso economico e sociale anche a fronte di governi poco stabili e di mercati dei capitali molto volatili.

 

A.F.:Gradualmente il pubblico è indietreggiato di fronte alle regole di un mercato immateriale cieco all’economia reale che vivono le persone comuni, riducendo sensibilmente il grado di copertura delle protezioni sociali. Le privatizzazioni nel pubblico impiego, dei servizi pubblici, la stessa aziendalizzazione di funzioni tipiche dello Stato Sociale, come l’istruzione, la sanità, ecc., stanno ovunque generando fenomeni di desocializzazione. La crisi dello Stato Sociale rappresenta la crisi generale del compromesso capitale lavoro, attraverso cui l’occidente ha sviluppato un certo rapporto tra momento produttivo e momento sociale. Così, lo Stato, nelle sue diverse forme e articolazioni si è ritirato nel suo perimetro e così facendo ha abbattuto quelle conquiste sociali ottenute attraverso dure lotte del movimento operaio e dei movimenti sociali. Tutto ciò non ha fatto altro che determinare drammatici fenomeni di rottura della fiducia nei confronti dei ceti politici e dello stesso Stato, nonché un profondo scollamento rispetto alle istituzioni che non può che trovare ragione nella progressiva incapacità di quest’ultime di poter rispondere ai problemi comuni della convivenza civile.

 

 

Del resto da un ventennio ormai in Italia, la politica di privatizzazione ha portato alla perdita di moltissime aziende anche strategiche, che sono finite in mano ai capitali stranieri, e così facendo hanno privato il nostro Paese di alcuni dei propri gioielli. Recentemente si è tornato a parlare di nuovi ingressi statali a sostegno delle aziende in difficoltà. Soluzioni contingenti dove non leggo però una visione di progettualità.

 

L.T.:a quanto detto non c’è molto da aggiungere. L’affidamento dell’economia italiana ai mercati e alla libera iniziativa delle imprese, nazionali ed estere, almeno in parte legato a una troppo solerte accondiscendenza ai disegni di un’Europa fortemente condizionata dall’asse tedesco-francese, ha portato alla rinuncia per interi decenni ad un autonomo e coerente piano di sviluppo industriale del Paese, capace di individuare gli interessi prevalenti del popolo italiano, di dialogare con l’Europa da posizioni se non di forza almeno non di debolezza, e di immaginare e progettare un futuro del nostro cammino desiderabile per molti, se non per tutti. Un impegno di questa natura non può che avere una prospettiva di lungo termine e un carattere bi-partisan, al di sopra degli interessi politici immediati delle forze di governo e di opposizione. Ma la qualità molto modesta, personalistica, scomposta e rissosa che la politica italiana ha assunto dopo la triste stagione di tangentopoli ha prevalso su ogni possibile disegno di più ampio respiro. Di questo paghiamo oggi le conseguenze e le pagheremo ancora a lungo.

 

A.F.:Oggi la politica continua ad esser succube dell’economia, rinunciando così ad indirizzarla verso la cittadinanza e verso il settore produttivo. Un evidente deficit democratico di cui siamo ormai testimoni da anni e che si va sempre più allargando con un rischio più che concreto di un’involuzione della democrazia. Siamo giunti alla costituzionalizzazione di una dottrina economica di parte, i cui fondamenti sono il pareggio di bilancio, l’esclusione dello Stato dall’economia, l’idea mistica delle privatizzazioni e l’assoluto divieto di ricorrere al debito come strumento di sviluppo. Varrebbe la pena rifletterci in maniera più approfondita, poiché più che il deficit economico si rischia il deficit democratico! Urge instaurare un agire politico il cui obiettivo consista, innanzitutto, nella cura primaria degli interessi collettivi, un agire che operi guidato da una visione a lungo termine che miri al benessere dell’intero sistema e non a mettere le toppe alla questione contestuale che si propone. Lo Stato non può ridurre la sua funzione ad ancora di salvataggio, tutt’al contrario deve riabilitarsi rielaborando nuove politiche espansive e di riequilibrio del benessere sociale. Per far questo, però, bisogna che la politica riacquisti quanto prima la sua centralità nelle scelte di politica economica a scapito di una elite finanziaria che regge e decide le sorti dei vari paesi. Il problema di come una comunità vive, lavora e mantiene i diritti inalienabili sono una questione che ci si deve porre. Una comunità regge se le decisioni che si prendono sono condivise dai cittadini. È per questo importante considerare sempre la legittimità di chi le assume.

 

 

Come sindacati confederali, abbiamo proposto unitariamente una piattaforma che, attraverso politiche per lo sviluppo e la crescita dell’economia reale, ambisce a recuperare quel modello di società coesa e solidale, ben diversa da quella che stiamo vivendo, intrisa di paure e individualismi. Scelte economiche che girano le spalle all’austerity e puntano ad abbattere il debito rilanciando l’economia tramite una politica seria di redistribuzione dei redditi e di riduzione delle diseguaglianze esistenti. E con questo non mi riferisco solo alla pur importantissima tutela delle reti di protezioni sociali ma anche a misure sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo nazionale. Sotto questo profilo, dove ritieni che sia essenziale fare di più?

 

L.T.:la piattaforma unitaria è un documento molto utile e interessante, del tutto condivisibile. Certo desta un pò di malinconia che il sistema delle relazioni industriali non sia riuscito a mantenere nel tempo le due sessioni annue di concertazione della politica economica previste dal Protocollo del ‘93 – una pratica che, facendo tesoro della lezione di Ezio Tarantelli, avrebbe indubbiamente aiutato la politica economica del nostro Paese a mantenere una rotta di sviluppo di medio-lungo periodo più coerente e meno influenzata dagli elettoralismi della politica, dalle leggi ad personam, dal compiacimento immediato dei poteri forti. Tuttavia, non si può negare che la piattaforma susciti la sensazione di un qualche eccesso di dettaglio in un documento che, per quanto assai meritevole, presenta più di una difficoltà di comunicazione a un largo pubblico e, quindi, della capacità di raccogliere un sostegno forte e combattivo da parte anzitutto dei lavoratori. Senza nulla togliere ad esso, e anzi tenendo a cuore le sue indicazioni e anche altre, notevoli proposte riformatrici avanzate dal sindacato confederale, credo che i lavoratori possano rafforzare il loro ruolo costituzionale di coprotagonisti della politica economica e sociale con l’elaborazione di una vera e propria strategia unitaria di obiettivi da raggiungere, completa di una loro gerarchizzazione funzionale e temporale in un percorso di riforma di medio-lungo periodo. Non mi soffermo qui su questo tema, che merita certamente una trattazione più approfondita, ma credo che già oggi si possano individuare come elementi di sintesi delle attese del lavoro tre assi fondamentali di politica industriale, due obiettivi sociali irrinunciabili e un elemento cardine di riforma delle politiche di bilancio europee. I tre assi lungo i quali va indirizzato lo sviluppo economico e sociale sono: la digitalizzazione del lavoro (con le conseguenti politiche di sostegno salariale, riduzione dell’orario e politiche della domanda atte a sostenere la crescita occupazionale), lo sviluppo della green economy italiana (nelle diverse articolazioni di disinquinamento e qualità ambientale, economia circolare, gestione dei rifiuti) e la messa in sicurezza del territorio e del patrimonio abitativo attraverso un piano di lungo periodo finanziato con investimenti pubblico-privati, ad esempio analoghi ai PIR.

I due obiettivi sociali sono:

1) la tolleranza zero nei confronti delle morti sul lavoro, da realizzarsi non solo attraverso il potenziamento dei controlli e della formazione obbligatoria a controllori, lavoratori e imprese (da finanziarsi attraverso una specifica imposta sul valore aggiunto che preveda la commisurazione al numero dei decessi e alla gravità degli incidenti);

2) lo spostamento differenziale del carico contributivo dal lavoro a tempo indeterminato a quello flessibile, per fare in modo che il lavoro stabile costi all’impresa significativamente meno di quello flessibile e i lavoratori flessibili accumulino comunque un patrimonio contributivo congruo che riduca la disparità di diritti e la necessità di integrazione sociale all’atto del pensionamento.

Infine, l’elemento cardine di riforma immediata delle politiche fiscali europee è quello del ristabilimento della regola aurea del bilancio, ovvero dello scomputo della spesa per investimenti dal calcolo del deficit strutturale; ovvero, detto in altri termini, dell’imposizione alle risorse raccolte attraverso il debito sovrano del vincolo di essere impiegate esclusivamente per finanziare investimenti ad elevato moltiplicatore fiscale. Questa riforma, in particolare, che già trova spazio nella piattaforma unitaria, è oggi immediatamente indispensabile alla luce del profilarsi di una nuova fase di stagnazione se non di recessione dell’intera Eurozona e dell’Italia con essa, nell’anno corrente e nel prossimo.

 

A.F.:Se si vuole uscire da questa situazione in cui aumenta la povertà, occorrono nuove forme di politica democratica che riscrivano le regole per combattere la bibbia del neo liberismo e della politica monetarista. Bisogna, quindi, invertire le scelte di politica economica: abbandonare le politiche di austerity e puntare sulla crescita e lo sviluppo. Per questo il sindacato confederale ha proposto una sua piattaforma che inverte la tendenza e che propone una serie di misure per lo sviluppo, per la crescita e per l’occupazione e la salvaguardia dei diritti tutelati dalla Costituzione, attraverso lo Stato sociale. Dietro quella piattaforma ci sono i valori della solidarietà e della coesione che permettono alle persone di sentirsi a pieno titolo cittadini della comunità. Dobbiamo recuperare le politiche che in passato hanno permesso una eccezionale crescita delle economie occidentali e del nostro Paese. Una crescita che è stata frutto di politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale. Purtroppo una politica economica miope sta conducendo, in tutti questi anni e con governi di tutti i colori, una vera e propria aggressione ai lavoratori italiani, al ceto medio e al mezzogiorno. Per questo il sindacato ha diritto di portare le sue tesi, avendole discusse, democraticamente, in moltissimi attivi unitari e nei luoghi di lavoro, con la consapevolezza di fare un servizio al Paese e sapendo che le sue proposte devono essere valutate anche da chi governa. Infine, le forze sociali ed economiche e produttive dovrebbero fare fronte comune, con un’alleanza forte, nell’obiettivo del rilancio e dello sviluppo. È fondamentale ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, perché in assenza di quest’ultime la convivenza civile viene meno e la comunità politica si sfalda.

 

 

Potrebbe anche interessarti: