Lavoro Italiano - EDITORIALI  - Antonio FOCCILLO
Democrazia e partecipazione
Il numero di giugno 2018
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12/07/2018  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Il XVII congresso della Uil ha chiuso i suoi battenti. Un congresso che sarà ricordato a lungo per l’eccellenza della scenografia, per la partecipazione entusiastica dei delegati che hanno applaudito con grande enfasi i vari interventi, per la qualità degli interventi, per il riconoscimento delle altre organizzazioni alla Uil per il suo ruolo di questi anni e per la sua notevole crescita.

 

Un congresso appassionato, con alto senso di appartenenza, ma alimentato anche dalla consapevolezza di essere in una grande organizzazione, consapevolezza non autoreferenziale ma determinata dai risultati che la squadra Uil ha realizzato in tutti i settori e dai risultati elettorali nelle rsu.

 

Un congresso che dalla relazione agli interventi ha riflettuto, oltre alle tutele per i lavoratori, sui rinnovi contrattuali, sulla piattaforma da proporre al governo, dopo averla confrontata con Cgil e Cisl, e anche sulla crisi dei valori e della democrazia. Su questi concetti vorrei tornare perché sono ancora più attuali oggi alla luce del cambiamento determinato dalle risultanze delle elezioni politiche recenti. È indubbio che una polis virtuale – con tutti i limiti, contraddizioni e rischi di inquinamento – si è formata nel web. Questa concezione di democrazia dal basso, che è stata sperimentata pure con i sindaci eletti direttamente, andrebbe gestita meglio, riaffermando invece una democrazia partecipata che permetta così di conoscere meglio i problemi e provare a risolverli. Altra questione che è emersa, in questa contingenza politica, è l’affermazione dell’uomo forte che nel puntare su problematiche come la sicurezza e l’immigrazione ha convinto gli italiani. La sovranazione Europa, la globalizzazione scientifica tecnologica economica, la dimensione intercontinentale, quando non planetaria, di ogni problema ambientale, demografico, energetico, la ricerca disordinata e cruenta di nuovi equilibri geopolitici tra le maggiori potenze del mondo, rimpiccioliscono e fanno apparire provinciali le questioni sottese alla riforma delle istituzioni democratiche. D’altra parte, su scala inferiore alla dimensione nazionale, giuste rivendicazioni di competenze e poteri locali si caricano e si distorcono di tonalità antistoriche rispetto ai traguardi raggiunti dall’esperienza dell’unità nazionale, enfatizzando fantasiose diversità etniche, minacciando separatismi e secessioni, diffondendo uno spirito d’intolleranza.

 

La fibrillazione di gruppi subnazionali, etnici, linguistici, religiosi è la risposta paradossale ai processi di globalizzazione in tutti i paesi e la paura della diversità spinge alla solidarietà esclusiva entro le piccole patrie locali, mentre tutt’attorno cresce la mobilità delle persone, delle merci e dei capitali, per la disseminazione del lavoro in ogni luogo del mondo, data la strategia degli investimenti e delle organizzazioni d’imprese fuori delle frontiere politiche. E soprattutto crescono i flussi migratori dai paesi poveri del Sud e dell’Est del mondo verso quelli industrializzati e ricchi del Nord e dell’Ovest. In questa situazione si rischia una “democrazia politica” senza cultura democratica diffusa nei cittadini, che però a questo punto non sarebbe più una democrazia. È vero che un approccio filosofico porta a considerare la democrazia un concetto intrinsecamente imperfetto: ad esempio nella democrazia, intesa come volontà della maggioranza, è insita una contraddizione e cioè se la maggioranza desiderasse un governo antidemocratico, la democrazia cesserebbe di esistere e qualora ci si opponesse a tale risultanza cesserebbe di essere democrazia, in quanto andrebbe contro alla volontà della maggioranza. Non è un caso teorico, infatti, in alcuni paesi una forte maggioranza religiosa porta al potere i leader religiosi, disconosce la laicità dello Stato e desidera instaurare una teocrazia. Infine è da considerare che, contrariamente a quanto normalmente si reputa, parole “democrazia” e “libertà” non necessariamente vanno di pari passo, infatti, in un sistema politico può esserci democrazia senza libertà e può esserci libertà senza democrazia. Pertanto bisogna stare molto attenti perché anche in un sistema democratico come il nostro è possibile determinarsi mancanza di libertà. E questo violerebbe anche il concetto di uguaglianza.

 

La storia documenta il prevalere di situazioni di disuguaglianza nell’esercizio del potere e anche nelle società democratiche i cittadini sono ben lontani dall’essere uguali per risorse, per cultura, per influenza politica. Un grado elevato di ineguaglianza politica esiste in tutte le società umane. Tuttavia la tendenza ad assegnare alle disuguaglianze un valore assoluto tale per cui l’approssimazione alla democrazia sarebbe impossibile, non risulta adeguatamente motivata. Infatti, dal punto di vista democratico non si nega l’esistenza di élite, anche in forte contrapposizione tra di loro, tuttavia ciò non significa monolitismo.

 

Lungo tutto il secolo XIX, la discussione e la concreta esperienza politica attorno alla democrazia riguardava l’opportunità di ancorarla principalmente all’idea di libertà e di rappresentanza, come volevano Tocqueville o Mill, oppure all’idea di uguaglianza, come preferivano Rousseau o Marx. Prevalse la prima ipotesi e la libertà politica, benché concettualmente diversa dalle libertà civili (in quanto contenente un elemento di positività partecipativa estranea alle prime) venne affiancata ad esse. Così il diritto di voto, originariamente ristretto ad un’esigua classe di cittadini, selezionati principalmente in base al censo, si andò estendendo in modo costante verso la totalità dei cittadini d’ambo i sessi (suffragio universale) e si accrebbe il pluralismo delle assemblee e degli enti che partecipavano al processo democratico. La democrazia non implica che non vi siano élite ma definisce un principio specifico con cui procedere alla formazione delle élite stesse, che riporta la competizione tra individui e gruppi tesi alla conquista del potere alla gara per ottenere il consenso popolare mediante il voto. La democrazia, fornendo a tutti l’opportunità di partecipare attivamente alla vita politica, promuove, più di ogni altro sistema politico, l’autonomia personale, il senso critico e tutte le qualità personali migliori. In ultima analisi, come diceva J. S. Mill, anche gli interessi personali sono meglio tutelati in un ordinamento democratico, dato che gli individui hanno la forza e gli strumenti per proteggerli direttamente. Nel momento in cui le regole e i valori democratici definiti nella teoria vengono applicati al mondo reale, è evidente che si determina un livello di approssimazione più o meno soddisfacente. Il governo ai governati è nelle democrazie contemporanee una metafora ideologica, perché il governo è neppure dei rappresentanti ma della loro maggioranza. Il principio di maggioranza guadagna una sua assolutezza, dal momento che la consultazione elettorale si risolve in un’operazione aritmetica, essendo il voto un’unità astratta in cui si traduce la volontà politica del cittadino. È il principio del voto personale ed eguale, libero e segreto, di cui all’articolo 48, 2° comma, della nostra Costituzione.

 

La logica della maggioranza che si trasfigura a volontà generale non ha nulla a che fare con il governo ai governati. A differenza di quella degli antichi, la democrazia dei moderni e più ancora quella contemporanea non rispecchia più la concretezza dei corpi sociali. Le singolarità elettorali consentono di dare alla volontà della maggioranza il volto e l’autorità assoluta della volontà generale. La causa profonda del processo storico che sembra voler destrutturare la democrazia nella sua ispirazione fondamentale sta nel fatto che la democrazia classica è restata soccombente dinanzi a un processo di mondializzazione del potere, così come quella contemporanea, nata negli stati-nazione, è insidiata dalla globalizzazione. Si ha un bel dire che le società omogenee ordinate entro le Costituzioni degli stati nazionali stanno cedendo e mutando in società multietniche, multireligiose, multiculturali. Ma con quali leggi e ordinamenti e principi? Quelli dell’integrazione e dell’inclusione o della tutela delle diversità e dell’esclusione? Che fine starà per fare il principio dell’eguaglianza dei cittadini, grande civile conquista negli stati-nazione e fondamento delle loro democrazie, dinanzi a comunità di immigrati che chiedono per gli individui che le compongono l’identità collettiva del gruppo di appartenenza, quasi piccole nazioni in uno stato ospitante?L’Europa, nella sua costituzione, si è data un motto: «Unita nella diversità». Ma esistono forze e valori in grado di rendere reale, e non utopica, una tale coppia dialettica? E non solo tra gli stati, ma all’interno di ciascuno di essi? Mai come in questo passaggio la democrazia appare, nelle sue diverse tipologie costituzionali, vulnerabile e inclinante verso oligarchie, strutturate in poteri anche non politici bensì economici, sociali, mediatici, o verso governi personali. Per far sopravviver la democrazia occorre ancorarla a dei valori che la salvino anche nei grandi scenari della deterritorializzazione del potere, delle unioni sopranazionali, delle egemonie transnazionali, insomma di quelle forme inedite che ha assunto la globalizzazione, ivi comprese quelle città-mondo in cui sta andando a concentrarsi metà della popolazione del pianeta, e che fungono da capitali dei mercati globali.

 

Cerchiamo di definire quali possono essere questi valori. Il rifiuto della guerra è entrato in solenni documenti internazionali e costituzionali, quali la Carta delle Nazioni Unite, la Costituzione italiana, quella giapponese, nella Legge fondamentale della Germania federale. In Europa, culla della civiltà bellica, si è in pace da settant’anni, e il Trattato costituente impegna l’Unione Europea per la causa della pace nel mondo. Il valore della pace si rapporta con il valore della vita dell’uomo e se una democrazia si legittima anche per i fini che persegue, ebbene la preservazione della vita umana dalla guerra diventerà valore supremo. La legittimazione sostanziale della democrazia sta nella sua radicale alienità dalla rivoluzione e dal terrorismo. Ne consegue che la violenza verbale, la delegittimazione reciproca di maggioranza e opposizione, vanno evitate perché eccitano intolleranza e scontro tra i cittadini. La democrazia è colloquio in ogni luogo sociale se è colloquio nella sua istituzione fondamentale che è il Parlamento. E ancora, il valore costitutivo della democrazia deve essere la cultura. Oggi la libertà dell’insegnamento e della ricerca è proclamata in ogni Costituzione democratica. La democrazia stessa ha bisogno di un consenso libero e critico dei cittadini, per non cadere nelle coazioni demagogiche di una propaganda politica alimentata dall’ignoranza, dalla disinformazione, dalla cultura o subcultura faziosa. Garantire la libertà della cultura è oggi garantire il pluralismo dei media, delle istituzioni scolastiche, universitarie e di ricerca, delle imprese editoriali, delle associazioni di tendenza, delle accademie, delle manifestazioni artistiche. Vi è poi la partecipazione. Un ruolo d’importanza fondamentale in questa direzione è attribuito ai corpi intermedi. La riorganizzazione del mondo in senso globale ha assestato un duro colpo alla democrazia rappresentativa com’è stata consegnata alla tradizione politica europea dall’Illuminismo settecentesco.

 

La riappropriazione da parte della politica di sfere lasciate de-regolamentate in mano all’economia non è indolore, abbisogna di un adattamento. La democrazia deve essere rifondata per tenere a bada l’economia di mercato. La “seconda modernità” ha, dunque, bisogno di un secondo Illuminismo. Oggi purtroppo viviamo in una società in cui vige l’estinzione del discorso pubblico, soppiantato dalle simulazioni di una politica ridotta a reality, relegando i cittadini al ruolo passivo di spettatori, cui è consentito – ogni tanto - solo l’applauso o il fischio, il che ha fatto regredire la partecipazione a tifo da stadio. In aggiunta la “deriva leaderistica” ha concorso pesantemente a rafforzare questa espropriazione del diritto di poter partecipare alle decisioni collettive, autonomamente e criticamente, producendo crescenti fenomeni di rigetto nei confronti di “questa” politica, misurabile nell’aumento esponenziale del non-voto o di movimenti anticasta la cui identità viene mistificata parlandone in termini di “antipolitica”. Norberto Bobbio avanzò delle riserve sull’idea del “potere a tutti”. “La democrazia diretta è sempre stata una illusione. Lo è a maggior ragione in una civiltà altamente tecnicizzata come la nostra, in cui ciò che l’uomo produce è l’effetto di una organizzazione mastodontica, sempre più complicata, difficile da dominare, che riesce a funzionare soltanto se affidata a pochi esperti. Si immagini una fabbrica di 100.000 operai dove tutti siano chiamati a discutere i metodi, i tempi, il processo di produzione. Dopo dieci giorni sarebbe chiusa”. Ritengo, da parte mia, che il progresso della nostra civiltà, altamente tecnicizzata, debba permettere all’umanità non solo il godimento delle sue conquiste economiche, che purtroppo si vanno concentrando velocemente solo nelle mani di pochi ricchi, ma soprattutto non debba impedire che anche le conquiste politiche e sociali progrediscano come quelle tecniche ed economiche. Lo strumento dell’esercizio della democrazia deve essere funzionale al rinnovamento della politica e quindi devono essere i cittadini ad assumersi – dopo aver esaurito l’orgia distruttiva in atto - il compito di risanare il Paese dal punto di vista etico, reinvestendo se stessi entro il Sistema Politico e assumendo pienamente le proprie responsabilità pubbliche per divenire protagonisti della trasformazione del Paese. Il problema del potere è reale. La soluzione vede l’élite dei pochi esperti, che dirigono la fabbrica immaginata dal prof. Bobbio, impadronirsi anche del potere formalmente politico, creando ad esempio una repubblica presidenziale in cui la democrazia è ridotta alla funzione puramente formale. Non è fantapolitica visto che i giornali della nostra classe dirigente sembrano chiedere questa soluzione.

 

In alternativa, quei 100.000 operai e impiegati della fabbrica immaginata dal prof. Bobbio conquistano effettivamente il diritto di discutere i metodi, i tempi, il processo di produzione e per esercitare questo diritto creano i loro comitati liberamente eletti, fino al consiglio di gestione, che insieme agli esperti dirige la fabbrica. Ovviamente il controllo dal basso non trasforma gli operai in ingegneri, ma serve a far salvaguardare ad ogni operaio i loro diritti e i doveri di uomini liberi e di cittadini nel proprio luogo di lavoro. Tutto ciò pone anche un rinnovamento profondo dell’azione del movimento sindacale. Nella moderna società, i monopoli hanno la possibilità di far pagare a tutti gli aumenti sui salari. Sugli stipendi, quindi, l’azione sindacale deve restituire ai lavoratori il potere di discutere non soltanto i salari, ma anche i programmi di produzione, gli investimenti, i prezzi, permettendo loro di attuare un controllo democratico anche sulle influenze economiche e politiche dell’industria sulla vita nazionale. Il sindacato italiano deve continuare ad affrontare i temi che riguardano l’intera comunità: da quello della rappresentanza politica e sociale, i cui connotati sono quelli della piena partecipazione, del pluralismo del pensiero, del diritto alla contrattazione, a quello della costruzione di una società più giusta, più equa e più rappresentativa di tutte le realtà. Inoltre deve rivendicare spazi istituzionali di partecipazione dell’intera società, per ridare ai cittadini la consapevolezza che la politica può essere mediazione fra interessi e non il prevalere di uno su gli altri. Il sindacato è uno dei pochi luoghi dove ancora gli uomini e le donne possono dialogare, senza barriere virtuali, dal vivo, anche scontrandosi verbalmente ma crescendo collettivamente. Il pensiero politico, la cultura e le idee caratterizzanti il sindacato rappresentano il cuore del suo essere attore sociale.