Lavoro Italiano - EDITORIALI  - Antonio FOCCILLO
Non perdere la speranza
Il numero di aprile 2018
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05/05/2018  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

La convivenza civile è fatta di coesione, di rispetto dei valori e delle idee altrui, come pure di solidarietà. Quella solidarietà che ha caratterizzato il Dna del sociale, la legislazione sociale e il diritto del lavoro che ne offre le coordinate normative. Essa appartiene da tempo alla cultura giuridica europea che ha avvertito come né solidarietà né coesione sociale possno praticarsi ove non siano sorrette da un modello di società radicato in una piattaforma robusta di diritti fondamentali e su criteri di convergenza sociale.

 

Purtroppo oggi nei rapporti sociali e civili prevale l’intolleranza, che, comunque si manifesti, non è accettabile e nel nostro Paese c’è e si vede in molte forme. Lo si evince dall’imbarbarimento della società, dalla violenza parolaia contro gli altri delle certezze assolute che si vedono in tante occasioni dai momenti elettorali, non solo politici ma anche sindacali, come pure nella vita di tutti i giorni, in cui gli altri sono i tuoi nemici. Lo si è visto anche tristemente e miseramente sui banchi delle scuole, dove la violenza delle parole e delle condotte di alcuni studenti arrivano finanche a minacciare il ruolo e la funzione sociale e costituzionale che ricoprono gli insegnanti, quali figure destinate a formare la nostra cittadinanza del domani. Un arretramento valoriale proprio sui luoghi dell’istruzione a cui non è possibile rimanere insensibili. Purtroppo tutto questo denota un peggioramento complessivo della qualità della vita, in modo particolare perché si va sgretolando il sistema di solidarietà e coesione tutelato dalla Costituzione che ha creato benessere e sostenuto la democrazia nel nostro Paese.

 

Le cause sono tante, dall’abbandono delle idealità alla mancanza di possibilità di dialogo collettivo. Ognuno, quindi, è solo con se stesso e con i suoi social che sono anche fomentatori di “odio”, perché in quelle sedi si scatena quel qualunquismo che prima veniva combattuto dal confronto collettivo nei partiti. Il tramonto delle ideologie ed il crollo del comunismo ha destabilizzato le certezze su cui si fondava l’Occidente e oggi quindi si è alla ricerca di altre norme e valori utili e necessari per regolare la convivenza civile e l’impegno politico.

 

La vecchia cultura democratica e liberale è rimasta come unico riferimento a disposizione della classe politica, che però di questa cultura non aveva mai reso completamente e pienamente effettiva la democrazia ed aveva quasi completamente ricusata quella liberale, per poi cederle completamente in una totale sottomissione ai suoi ideali ed alle sue prassi.

 

L’attuale ricostruzione del pensiero liberale ha prodotto una regressione sociale e politica, irreversibile in tempi brevi, che mette in discussione finanche i principi fondamentali della democrazia come stabiliti nella nostra Carta Costituzionale.

 

L’esempio più evidente è l’irruzione sulla scena sociale e politica dei mercati che hanno portato con sé la dottrina finanziaria, in cui la moralità della condotta sociale viene dettata dal responso della Borsa, dagli interessati segnali delle agenzie di rating e dei grandi investitori. Questa dottrina ha messo da parte il fine dell’agire politico, cioè la giustizia sociale, sostituita da una sorta di armistizio con la fame speculativa della finanza alla quale viene trasferita, attraverso i mercati, la ricchezza sociale dei popoli e quella personale dei cittadini.

 

Nel nostro Paese “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato e pertanto è lecito chiedersi se esista ancora la possibilità di garantire a tutti gli stessi diritti. In questi anni, difatti, abbiamo vissuto una decadenza politica e culturale molto forte in materia di diritti, che è stata anche figlia di una distanza grandissima tra ceto politico e società. Negli anni Settanta ci fu una grande affermazione dei diritti civili, oggi siamo in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda ma anche lontani culturalmente da alcune realtà che ci appaiono tante volte addirittura utopie.

 

L’assenza nella nostra classe politica di originalità di pensiero e di elaborazione di progetti sociali adatti al nostro Paese ha dato slancio al modello competitivo dove vince uno solo e tutti gli altri sono pericolosi nemici da cui guardarsi le spalle.

 

Per questo, inoltre, grava ancora di più sulla vita sociale degli uomini la minaccia di isolamento, insieme alla sensazione che non vi sia più alcun legame tra ciò che si fa e il destino che ci attende, avendo perso il senso di condividere un mondo.

 

In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata “riduzione del costo del lavoro”, ignorando però la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti e la corruzione dilagante con gli ovvi aggravi in termini di costi per il sistema delle imprese.

 

L’elevato costo del lavoro, inoltre, è anche il risultato del drenaggio di risorse operato attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente. Una via più comoda rispetto ad una che piuttosto mirasse ad un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati – secondo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese ma per il profitto di pochi.

 

In definitiva il lavoro è stato sacrificato in favore di altri tipi di interesse.

 

In fondo, oggi, non appare, infatti, molto diverso da quello con cui Cicerone, all’indomani della morte di Cesare, invocava il ritorno alle istituzioni repubblicane. “Tornato precipitosamente dall’esilio, abbandonato il proposito di tenersi lontano dalla politica, l’ormai anziano oratore si getta a capofitto nel conflitto politico apertosi dopo le Idi di marzo. Vincendo lo sgomento seguito all’assassinio di Cesare, finisce col giustificare la congiura di Bruto e col legittimare il tirannicidio. Invoca i congiurati a prendere il potere e a ristabilire la legalità, e infine si appella al popolo romano per restaurare la gloriosa repubblica. Dopo il primo entusiasmo, l’Arpinate guarda, infatti, la scena che Roma gli offre, e si accorge improvvisamente che nulla è più come lo ricordava, che la Roma repubblicana – con i suoi miti, i suoi eroismi, la sua coesione – è tramontata per sempre. Soprattutto, si rende conto che neppure l’uccisione di Cesare, neppure la soppressione del tiranno, neppure l’eliminazione di quel nemico giurato della libertà, può ridare la vita a una repubblica priva ormai delle sue stesse basi. Ma, una volta preso atto dell’impotenza, l’unica soluzione – per Cicerone, può consistere solo nel rimpianto dello spirito perduto e nella condanna moralistica dei tempi nuovi. E deve ammettere che nessuno in questa città degenerata persegue onestamente l’idea di libertà. Rincorrono tutti il potere o il benessere, l’assassinio di Cesare è stato inutile, tutti litigano e mercanteggiano e ambiscono solo ad accaparrarsene l’eredità, il denaro, le legioni, il potere, alla continua ricerca di vantaggi e profitti – ma solo per se stessi, non per l’unica santa causa: la causa romana” (1).

 

Dopo aver abbattuto la prima repubblica, siamo molto vicini a quella condizione tanto che un quotidiano italiano con un articolo, dal titolo: “Un ‘teatrino’ che riabilita la prima Repubblica”, descrive: “Il teatrino della politica… ripiomba come un boomerang su questa crisi di governo. Rimangono come fari, in momenti come questi, figure che la buona sorte continua a riservare al Paese e alla sua politica, nei ruoli di garanti dell’unità nazionale nei valori costituzionali. Scampati alle retate della rottamazione, in una politica dei tagli lineari applicati alle persone. Figure ormai rare, anziane, superstiti di una politica che univa gli italiani intorno a valori comuni, anziché aizzarli gli uni contro gli altri. Figure di cui mai si è avvertita la necessità come negli ultimi decenni (2)”.

 

Allora se non vogliamo sperare nella buona sorte e se non vogliamo vivere nel ricordo del passato, dobbiamo riprendere un’opera di formazione valoriale con azioni o con parole, per ridare centralità alla solidarietà, alla coesione, all’uguaglianza, alla libertà e alla tolleranza, alla cultura del dialogo, con idee e valori che puntino al rispetto del pensiero altrui.

 

Questo lo può fare il sindacato, unico strumento rimasto di democrazia e partecipazione, e la Uil in particolare per il suo Dna plurale, laico, tollerante e rispettoso del pensiero altrui.

 

Diventa sempre più difficile restare fedeli ai principi e al sistema di valori di cui è intrisa la nostra organizzazione in una società profondamente trasformata dagli interessi di pochi, dalle leggi di uno sviluppo economico senza regole, dall’affermazione del consumismo, dell’edonismo, del narcisismo, dalla competizione selvaggia. Una società sempre più caratterizzata dalla graduale sostituzione, nel vivere emozioni e sentimenti, della realtà virtuale alla realtà dei rapporti interpersonali e dalla riduzione, nella mente delle persone, dell’importanza del collettivo.

 

Per questo dobbiamo fare lo sforzo di riportare i nostri valori nella società in modo da recuperare il senso della vita e ridare centralità alla solidarietà, alla coesione, all’uguaglianza e alla libertà.

 

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1) S. Zweig, Momenti fatali, Aldephi, Milano
2) Montesquieu, Il Sole 24 ore, 20.4.2018